1974-1976: la parabola di AO

III edizione giugno 2024

c’eravamo tanto amati

Il periodo che mi vide operare dentro il gruppo dirigente di una organizzazione della sinistra rivoluzionaria è il più difficile da raccontare perché, da allora, sono cambiato molto ed è stata la riflessione su quella esperienza a determinare la radicalità del mio cambiamento: non più rivoluzionario, non più comunista, non più fiducioso (come una volta) nella possibilità che le cose si possano cambiare attraverso l’impegno nella lotta politica.

Penso che siano necessari impegni di altro genere sul fronte educativo e della testimonianza e che comunque il pedale su cui spingere non sia quello della lotta di classe.

Perché se è vero che le classi sociali esistono e influenzano il procedere della storia, non è vero che esista una classe destinata a svolgere un ruolo palingenetico (il proletariato industriale) ed è discutibile, alla luce dei mutamenti sopravvenuti nel modo di produrre e di consumare nella parte finale del XX secolo e nei primi decenni del XXI, che in estensione e consapevolezza si possa continuare a parlarne come di una classe sociale.

Mi sono ritrovato ad essere più attento ai cambiamenti che vengono da lontano, che procedono lentamente e che determinano le scelte importanti nella vita nelle persone, come quelli che si determinano nella scuola. Cosa farò da grande? Qual è il mio stile di vita? Cosa penso  dei rapporti tra le persone? Per cosa vale la pena di impegnarsi?

Nel giro di pochi mesi, dall’estate del 76 ai primi mesi del 77 ho vissuto  una trasformazione molecolare molto profonda che non ha riguardato solo la politica e non principalmente la politica. Ho cambiato stile e modo di vita; sono molto più solitario e disincantato di un tempo, ho bisogno del rapporto fisico con la naturalità (dai boschi, ai fiumi, alla autoproduzione agricola; sono sempre una persona appassionata e disposta a giocarsi per le cose per cui vale la pena di vivere. Sono disincanto nei confronti di tutti i miti, ma dico sì agli ideali.

Marciavamo con l’anima in spalla nelle tenebre lassù
ma la lotta per la nostra libertà il cammino ci illuminerà.
Non sapevo qual era il tuo nome, neanche il mio potevo dir
il tuo nome di battaglia era Pinìn e io ero Sandokan.
Eravam tutti pronti a morire ma della morte noi mai parlavam,
parlavamo del futuro, se il destino ci allontana
il ricordo di quei giorni sempre uniti ci terrà.
Mi ricordo che poi venne l’alba, e poi qualche cosa di colpo cambiò,
il domani era venuto e la notte era passata,
c’era il sole su nel cielo sorto nella libertà.

Sono i versi della canzone di Armando Trovajoli che fa da tormentone a c’eravamo tanto amati di Ettore Scola (la trovate su Youtube). Il film me lo sono rivisto e mi ha dato la forza per terminare il pezzo della autobiografia più difficile da scrivere (insieme a quello sulla storia di mio padre), quello del c’eravamo tanto amati.

Chi siamo stati:  Gianni, Antonio o Nicola? Il marpione, il proletario dalla fede indistruttibile o l’intellettuale sognatore, o forse tutti e tre insieme? Sentiamo cosa dicono:


– Gianni: Certo che la nostra generazione ha fatto proprio schifo.
– Nicola: Piuttosto che inseguire un’improbabile felicità è meglio preparare qualche piacevole ricordo per il futuro.
– Antonio: Quando si rischia la vita con qualcuno ci rimani sempre attaccato come se il pericolo non fosse passato mai.
– Nicola: Credevamo di cambiare il mondo invece il mondo ha cambiato a noi.
– Antonio: 306 seggi [della DC], e chi se lo poteva immaginare?
Gianni: Ti devo dire una cosa.
– Antonio: E che me vòi di’, lo so! Abbiamo sottovalutato un sacco di fattori che hanno concorso a mettercelo nel chiccherone: i soldi americani, la paura di Stalin, i preti, le monache, le madonne piangenti, la paura dell’inferno…
Gianni: Io e Luciana ci vogliamo bene. È questo che ti volevo dire.
– Antonio: Ci vogliamo bene… in… che senso?
Gianni: Ci amiamo

le cose positive che abbiamo fatto o che abbiamo contribuito a fare

Il giudizio positivo che dò su quel periodo non riguarda la sola Avanguardia Operaia, ma tutti i movimenti e le organizzazioni che, dal 68 al 75, riuscirono a determinare innovazioni e trasformazioni sul piano del costume, un riassestamento dei rapporti sociali a favore dei meno agiati, mutamenti nella legislazione e nelle istituzioni, cambiamenti nella Chiesa Cattolica e un generale spostamento a sinistra nel paese. Pensate a Pio XII e confrontatelo con Papa Francesco per farvi un’idea di come è cambiato il mondo.

Penso alla fine dell’autoritarismo che governava le piccole e grandi istituzioni (dalla famiglia all’esercito), al contratto dei metalmeccanici del 69 cui seguirono, in rapida successione, quelli delle altre categorie, alla affermazione dei diritti nelle fabbriche e nelle scuole, alle trasformazioni nella magistratura, alla abolizione dei manicomi, alla trasformazione delle carceri, alla democratizzazione nell’esercito e nei corpi di polizia, alla crisi del sindacalismo autonomo a favore di quello confederale, alla forte spinta verso l’unità sindacale, alla tutela della donna.  Tutte queste trasformazioni sono state opera nostra anche se, ovviamente, non solo nostra. E dunque le affermo con l’orgoglio se non del protagonosta, almeno del comprimario.

Tutto è iniziato da un processo generale e generazionale che ha riguardato l’intero mondo occidentale e i paesi dell’est; poi c’è stata una particolarità italiana dentro la quale abbiamo operato noi che, dopo il 68, facemmo la scelta di andare nei gruppi.

I senzaMao e la lotta rivoluzionaria per le riforme

Il libro che Silverio Corvisieri ha scritto sul finire del 1976 quando ha lasciato Avanguardia Operaia da sinistra per poi approdare, come molti di noi, al PCI – io almeno me ne sono andato dalla parte giusta che era quella della difesa delle istituzioni democratiche

Ho provato a rileggere alcuni dei documenti di allora e mi riesce difficile farlo perché rimango sùbito colpito sfavorevolmente dalla astrattezza di certe problematiche, del volersi ad ogni costo ritagliare un ruolo che in realtà non avevamo.

Ho riletto con attenzione I senzaMao del mio direttore al Quotidiano dei Lavoratori, Silverio Corvisieri, soffermandomi in particolare sul suo intervento al IV congresso di Avanguardia Operaia, quello della trasformazione di AO in un partito, anche se allora era vietato chiamarlo così.

Silverio ha il pregio della brillantezza giornalistica anche quando tratta di cose pesanti come le disquisizioni intorno al centralismo democratico, al rapporto tra il partito e le masse, alla definizione di proletariato nel contesto dell’Italia degli anni 70. Ma non mi ci ritrovo per niente sul piano razionale; allora non mi ci ritrovavo senza capire bene il perché; avevo l’impressione che ci fossero delle forzature.

Il titolo, I senzaMao, deriva dal fatto che in quell’anno (il 1976) dopo la botta delle elezioni politiche (a giugno) ci fu la morte di Mao (a settembre) ad accrescere il disorientamento. Il vento dell’est aveva smesso di soffiare e noi, presto, saremmo stati in balia di quei matti della autonomia e dei terroristi conseguenti.

Per converso Silverio mi ha fatto tornare alla mente il tema della lotta rivoluzionaria per le riforme, una definizione di comodo che avevamo inventato per spiegare che eravamo per la rivoluzione socialista ma che, nel contesto dato, non era pensabile ragionare in termini di insurrezione.

Avevamo il doppio problema di smarcarci dagli spontaneisti del tutto e subito e, contemporaneamente, dire che non ci piacevano, perché troppo istituzionali e codiste, le posizioni di quelli del giro del Manifesto-PDUP, i togliattiani di sinistra impegnati nel tentare di spostare a sinistra il partito comunista.

Mi pare emblematico che si tratti di una questione che non interessa più a nessuno, a differenza dell’ottenimento di risultati di trasformazione degli assetti istituzionali. Anche io rimasi affascinato dalla idea di fare la rivoluzione attraverso le riforme leggendo nell’estate del 68 un libro di Andreè Gorz, il socialismo difficile. Gorz era il vicedirettore di Les Temps Modernes, la rivista di Sartre. Ne ho parlato nel capitolo dedicato al 68 e ci ritorno sopra volentieri.

Quella di Gorz era la corrente dei riformisti rivoluzionari. I riformisti rivoluzionari rifiutavano l’esperienza del socialismo reale e vedevano in un movimento di massa in grado di imporre riforme strutturali il nuovo modo di arrivare al socialismo nei paesi dell’Occidente. In Italia, il maggiore esponente di questa linea di pensiero era Bruno Trentin (insieme a Lelio Basso) e si trattava di una delle tante correnti di pensiero di matrice luxembourghiana che giravano per l’Europa.

Quel libro lo discussi passo dopo passo con Oskian e Claudia Sorlini che ne criticavano la insufficienza in nome del leninismo e, alla fine di quelle discussioni, decisi di entrare in AO: vi trovai belle persone, alcune con una storia antica dentro il PCI, altre emergenti come Oskian o Randazzo, tutte decise a rifondare il comunismo passando da Lenin ma senza fare sconti all’URSS.

la crisi nel gruppo dirigente

La seconda fase del mio impegno in AO, a partire dal 73, con una serie progressiva di promozioni e crescenti assunzioni di responsabilità fu caratterizzato da due elementi:

  • bisognava crescere e rafforzarci perché, se i tempi della rivoluzione non dipendevano da noi, dipendeva da noi il fatto di arrivarci avendo risolto il problema della guida del processo rivoluzionario. Far emergere il partito attraverso un processo di scomposizioni e ricomposizioni nel quale AO, pur non essendo l’embrione di tale partito, doveva giocare un ruolo principale
  • stavamo trasformandoci da gruppo semilocale, a Organizzazione Nazionale, a un simil-partito e ciò comportava un rafforzamento dell’impegno, il non farsi troppe domande, stringere i denti e puntare ad allargarci; accettare di essere inviati in giro per l’Italia a gettare il seme, cedere i propri beni materiali alla organizzazione, rinunciare alla professione post laurea nel caso dei quadri del movimento di scienze.

E’ questa la ragione per la quale, comportandomi come uno stronzo, lasciai passare senza muovere un dito un episodio come la radiazione/espulsione di Maurizio Bertasi, Flavio Crippa e Pietro Spotti (rei di lesa maestà per aver osato mettere in discussione le decisioni del segretario politico e della supersegretria che lo contornava). Alla stessa stregua considerai accettabile la non spiegazione circa l’auto-allontanamento dal giornale di Silverio Corvisieri. Il fondatore del giornale se ne andava, non salutava nemmeno la redazione; c’era qualche problema ma non era il caso di parlarne: passo fermo e sguardo in avanti verso il sol dell’avvenire.

Dopo la pubblicazione della prima versione di questa autobiografia ho ricevuto numerose testimonianze relative al Comitato Centrale della espulsione-radiazione cui non partecipai perchè c’era da confezonare il Quotidiano. Non fui presente al Comitato Centrale ma lo fui alla riunione precedente della segretria estesa ai membri del C.C. milanesi. Ho letto il verbale che ne fece Umberto Tartari. I tre che espongono i loro dati; Oskian e Vinci che li contestano e noi tutti zitti.

Molti compagni che presenziarono al successivo Comitato Centrale descrivono un clima pesante, il non trovarsi d’accordo ma avere paura di parlare, per finire con le richieste di autocritica a quei pochi che osarono dire qualcosa.

Non c’era tempo, bisognava fare e così si finiva per non fare domande e nemmeno farsele. Per esempio dalla lettura dei senzaMao vedo che nella decisione di Silverio di lasciare il giornale e tornare a Roma c’erano sia elementi di logoramento personale, sia l’emergere di preoccupazioni politiche per il processo che ci stava facendo avvicinare al PDUP e allontanare da Lotta Continua. Probabilmente il pezzo su Gioia di Vivere e Lotta di Classe fu il suo modo di lanciare un sasso.

Apparentemente tutto filava liscio ma il fuoco covava sotto la cenere e un pomeriggio, in una riunione di segreteria nazionale, Luigi Vinci richiese a freddo le dimissioni del segretario nazionale Aurelio Campi accusandolo di gestione padronale del partito. Non ricordo se fosse la fine del 75 o l’inizio del 76 ma il fatto è di poco successivo all’allontanamento di Silverio dal Quotidiano. Era l’inizio di una storia durata all’incirca un anno in cui i due principali contendenti alternarono bordate, punture di spillo e giravolte strumentali.

Ho vissuto l’attacco ad Oskian come una autentica pugnalata tirata a freddo. In realtà c’era parecchio malessere nei confronti di Oskian per il suo decisionismo che molto spesso si trasformava in autoritarismo e a ciò si sommava il timore che stesse progettando una fusione-confluenza con la componente comunista (non psiuppina) del Pdup.

Mi sono poi reso conto, dalle successive dinamiche in Ufficio Politico, che si trattava di un atto preparato con cura da Luigi Vinci (che controllava l’apparato e l’organizzazione), in accordo con molti segretari regionali. Così Avanguardia Operaia, in un momento in cui sarebbe servito il massimo di iniziativa politica e di unità interna, sia prima, sia dopo le elezioni del 76, fu invece vittima di una crisi al vertice tenuta lungamente segreta, ma che non le fece certamente bene.

In quei mesi mi resi conto frequentando i gruppi dirigenti di AO e del PDUP di quanto pesassero le miserie personali nel determinare le scelte politiche e quello fu il primo disvelamento del fatto che non basta credere nel comunismo e appellarsi ad esso per essere all’altezza del compito.

Con il IV congresso dell’ottobre 74 Avanguardia Operaia fece uno sforzo per guardare lontano, stare dentro i movimenti sociali ma, contemporaneamente, cercare di costruire una analisi della società italiana che facesse i conti con le caratteristiche dei due blocchi sociali che riscuotevano il consenso della gran massa degli italiani: il blocco intorno alla DC e quello intorno al Partito Comunista.

Ma una parte del gruppo dirigente storico guardò a quel tentativo con sospetto, come una forma di liquidazionismo. Se devo fare un paragone un po’ forte, ma che aiuta a capire, nel momento in cui avevamo bisogno di Gramsci AO si rifugiò nelle braccia di Bordiga travestito da Lenin.

Il Comitato Centrale, con oltre 100 compagni, tutti con una storia di militanza importante, tutti dotati di esperienza politica, faticava a capire, anche perchè le divergenze reali non venivano palesate, se ne discuteva nei corridoi, in parte in Ufficio politico, ma mai in maniera esplicita. Vinci e Campi un giorno si davano ragione, ma appena temevano che dietro l’unità ci fosse lo zampino del diavolo, rovesciavano il tavolo.

Fu così, nella incapacità di capire cosa era era successo con il risultato delle elezioni di giugno (straordinario balzo in avanti del PCI, tenuta della DC, misero risultato della sinistra rivoluzionaria) che si produsse lo sgretolamento, dapprima lento e poi clamoroso delle tre organizzazioni principali della sinistra rivoluzionaria; AO, LC e il PDUP seguite subito dopo dal MLS.

Nessuna di esse era riuscita ad essere una alternativa a quei blocchi di consenso politico ed ora crollavano stritolate da un lato dal PCI e dall’altro lato dai movimenti della autonomia e dal terrorismo.

la mia reazione

Disgustato da come si svolse la discussione intrecciata tra il risultato deludente delle elezioni politiche e la prospettiva di unire o meno Avanguardia Operaia e il Pdup, decisi di andarmene e nei primi giorni di luglio 76 preparai anche un poderoso documento politico di dimissioni dalla organizzazione a cui avevo dato tanto.

La manchette che apriva il lungo articolo in tre puntate in cui decisi che era ora di finirla con le chiacchiere da convento di clausura

Da qualche mese avevo iniziato a studiare le parti di teoria politica dei Quaderni dal carcere di Gramsci (in particolare le Note sul Macchiavelli) e mi rendevo conto che c’era un vuoto da colmare tra le intuizioni di Gramsci sulla democrazia, sul socialismo, sulla politica, sul blocco storico, sul ruolo della chiesa cattolica, sulla lotta culturale per la egemonia e il nostro appello al leninismo.

Il leninismo si era inverato in una realtà profondamente diversa da quella italiana e per di più, o forse per quello, aveva avuto una deriva fallimentare in cui il giacobinismo della prima ora si era ben presto trasfornato in autoritarismo e poi in una forma di totalitarismo burocratico in grado di garantire solo la propria sopravvivenza (com qualche milione di vittime).

Nel mese di luglio (mentre ero in ferie dal giornale) mi incontrai con Oskian e Claudia Sorlini per informarli della mia decisione di andarmene da una organizzazione che non aveva il coraggio di discutere a viso aperto. Oskian, che in quel momento non era più segretario politico, ma coordinatore di una segreteria collegiale che aveva il compito di preparare le tesi per il V congresso, mi convinse a rimanere promettendomi che si sarebbe aperta la battaglia politica e non quella personale.

Misi da parte il documento di dimissioni (che è rimasto chissa dove in una agenda e si è perso con lei) e nei primi giorni di agosto pubblicai in tre puntate, sul quotidiano, un lungo articolo dedicato alle prospettive che ci stavano di fronte e a quella che secondo me poteva essere la strada per uscirne. Lo trovate qui “perché ho votato contro al Comitato Centrale“.

Di questioni politiche ce ne sono dentro molte e ciò che mi ha colpito è l’insistenza sulla necessità di una riflessione teorico politica di grande respiro, insieme a problematiche di tipo minore che, con gli occhi di oggi, mi fanno sorridere.

A settembre, al rientro dalle ferie dei dirigenti, mi aspettavo una discussione politica (e come si vede dalla D di dibattito nella manchette, pensavo di farlo sul giornale); invece fui processato in Ufficio Politico per aver infranto il Centralismo Democratico e mi venne messo al fianco, in funzione di controllo, Vittorio Borelli, trasferito da Verona e del tutto digiuno di giornalismo.

In redazione non la prendemmo bene, anche perché, come si vede dalla lettura del testo, si trattava di un contributo politico del tutto legittimo nell’ambito della discussione su come arrivare al V congresso di AO.

Le congiure di palazzo e le manovre di corridoio continuavano da entrambe le parti. Non me la sentii di continuare con l’ottimismo della volontà e ai prmi di ottobre decisi che era meglio andarmene e tornare al lavoro minuto, ma importante, di docente. Rimisi il naso in redazione una volta sola quando ci fu lo scontro a fuoco (di cui ho parlato nel pezzo dedicato agli anni del QdL) in cui morirono Walter Alasia e due funzionari di polizia.

un cambiamento profondo

L’esplosione del terrorismo e la violenza dei movimenti della autonomia mi convinsero della necessità di seguire altre strade e lavorare più in profondità. Non abbandonai la passione politica, ma abbandonai l’idea della politica al primo posto, quella del rivoluzionario di professione che sarebbe meglio chiamare uomo ad una dimensione.

Non fu una decisione immediata, ma progressiva. Ricordo che, nei primi mesi del 77, alla assemblea in cui la destra di AO decise di andarsene e aderire al PDUP partecipai, ma mi sentivo ormai un osservatore esterno e non un protagonista. Non ricordo nulla dell’incontro residenziale che si tenne a Rocca di Papa; alcuni amici che proseguirono in quel percorso mi dicono che feci un intervento importante ma non mi è rimasto nemmeno il ricordo. Mi ritrovavo con tante persone a cui volevo bene ma che stavano per intraprendere un ennesimo tentativo volontaristico.

La parabola di AO si era visibilmente chiusa anche se la maggioranza ottenne risultati tra il 70 e l’80%; altri tentarono di fare DP e in quel periodo mi resi conto della drammaticità della situazione.

Il terrorismo cresceva, faceva le rapine, gli autonomi erano alla ricerca dello scontro per lo scontro, la popolarità delle BR nel brodo di coltura della autonomia operaia cresceva, iniziavano gli omicidi e i miei ex compagni continuavano a fare i distinguo come nello slogan infelice nè con lo stato nè con le BR, come se lo stato democratico, le BR e prima Linea, si potessero mettere sullo stesso piano.

Tutti quei tentativi, per quanto generosi, che avevano caratterizzato la mia vita nella prima metà degli anni 70, per quanto animati da persone appassionate, sul piano della soggettività, finirono nel nulla. Non fu così, come ho detto all’inizio, per le trasformazioni che si determinarono nella società e negli assetti istituzionali. L’Italia era cambiata in meglio e noi avevamo fatto la nostra parte.

In questi anni, molti di quei compagni che hanno fatto parte di quel gruppo dirigente sono venuti a mancare e li voglio ricordare, al di là dei dissensi e della diversità di percorso: Marco Pezzi di Faenza, il primo a morire; Attilio Mangano, Umberto Tartari, Severino Cesari, Franco Calamida, Vittorio Rieser, Massimo Gorla, Pietro Spotti, per restare a quelli che conoscevo direttamente.


La pagina con l’indice della mia autobiografia da cui potete scegliere i capitoli da leggere


I commenti dei compagni di allora sono benvenuti e, perché ne rimanga traccia, vi prego di metterli sotto l’articolo e non sulla grande cloaca di Facebook. Già, per effetto delle precedenti edizioni, ce ne sono un certo numero.

Questo è il breve commento con cui ho accompagnato il link su FB

C’eravamo tanto amati … e poi il “giocattolo” si è rotto, il mondo è cambiato e ciascuno di noi ha fatto le sue scelte.
Verso quelle persone con cui ad un certo punto si determinò una rottura conservo un grande senso di simpatia e negli anni tutte le spigolosità sono sparite e voglio bene a tutti loro. Qualcuno con orgoglio dice “volevamo cambiare il mondo, non ci siamo riusciti, ma il mondo non ha cambiato noi”. Detta così non la condivido perchè vivere vuol dire essere disposti a cambiare e ad accettare il cambiamento. La nostra vita, la vita di tutti è bella perché è caratterizzata dal mutamento.



Bea ricorda la mamma Giulietta

Beatrice Bazoli è la figlia più grande di Giulietta Banzi, quella dei tre figli che ha i ricordi maggiori, perché era grandina (8 anni) e con la mamma andava alle mostre e/o alle manifestazioni e poi raccontava sul quaderno dei pensierini.

Pochi giorni dopo il 25 aprile del ’74 scriveva: con la mamma sono andata alla manifestazione del 1° maggio e la mamma mi ha preso un gelato.

Questo è il suo intervento alla manifestazione di Brescia per i 50 anni dalla strage di piazza della Loggia; l’ho ripreso da una immagine di un foglio spieghettato e così l’ho dovuta ribattere e mi hanno preso la commozione e un grande rispetto per questa famiglia di maestri di legalità e stile di vita. Volevamo cambiare il mondo …


ciao Mamma

Brescia – la lapide della strage – la colonna sbrecciata, il manifesto e la stele con i nomi

In questi anni, in questa piazza sono stati fatti tantissimi discorsi. Rivolti a tutti, per ricordare la strage che la ha insanguinata e le sue vittime. Pieni di parole nobili e importanti, come memoria, tolleranza, democrazia, libertà, rispetto, legalità.

Chiedo scusa a tutti, io oggi farò un discorso molto personale ed intimo. Quasi rivolto a me stessa, la bambina che ero, la ragazza che sono stata, la donna che sono oggi. Partendo da due parole modeste: Ciao, mamma. Da 50 anni non dico più queste due semplici parole, non saluto più la mia mamma, come ogni bambino vuole fare.

Dire ciao mamma davanti a una foto, od ad una lapide, non è la stessa cosa. Nessuno, nessuno potrà più toccarmi, abbracciarmi, rispondermi.

Ciao mamma sono due parole semplici, quasi banali. 50 anni fa ho dovuto smettere di pronunciarle e mi sono rimaste in gola fino ad oggi.

Ho passato gli ultimi 50 anni consapevole di avere qualcosa di bloccato. Queste parole sono così semplici e cariche di significato, di amore, di dolore che mi hanno impedito di respirare, di sentirmi pienamente viva, intera. E hanno bloccato anche tutto il resto di me, come se fossi cresciuta con un’ ala spezzata.

Non desidero parlare di morte ma di vita. Di dolore e di insegnamento. Non è un caso se tutti i parenti di vittime del terrorismo che ho conosciuto non cercano vendetta ma giustizia. Tutti noi abbiamo conosciuto la cattiveria, la bassezza e la malvagità degli uomini. Ma non siamo diventati cattivi. Forse perché il nostro dolore è condiviso da tante persone.

Fare memoria insieme aiuta, non sentirsi soli nella sofferenza aiuta. O forse perché aver conosciuto la cattiveria in maniera così viscerale ce la rende insopportabile. Non reaagire secondo brutalità violenza, Ma secondo la civiltà, la legge.

In questa piazza la mia mamma ha versato il suo sangue. Tra il fumo, le urla, ha provato le sue ultime emozioni.

Avrà avuto un dolore? Sicuramente, tantissimo. Non sapremo mai se abbia avuto una consapevolezza che stava morendo. Avrà anche avuto pensieri di incredulità, cosa è successo o cosa mi è successo? Cosa mi succederà, perché a me? Era una persona. Non un semplice nome su una stele.

Una insegnante di 36 anni, sposata da quasi 10, con tre figli di 8, 5 e 4 anni. Ha lasciato una famiglia distrutta con le ali spezzate aveva due fratelli, altri parenti, amici e amiche carissime.

Aveva perso da poco la sua mamma, morta in casa nostra di tumore Dopo un lungo periodo di dolore.

Tante persone in questi 50 anni, mi hanno raccontato quanto fosse speciale. Spiritosa, con gli occhi luminosi, attenta. Io ricordo una mamma affettuosa e svagata che mi regalava libri e sbagliava gli appuntamenti dal dentista. Che sapeva essere severa, che lavorava nella casa nello studio di casa e mi aiutava a fare i compiti, che mi aspettava sul divano quando tornavo da scuola, e fischiettava e faceva buffi disegnini.

Altri avranno ricordato altri aspetti del suo carattere. Non tutti la apprezzavano, ovviamente. Ma ha lasciato un segno, anche in chi l’ha conosciuta brevemente. Tra le lettere di condoglianze ricevute da papà nei drammatici di un giorni dopo la morte di mamma, numerosissime testimonianze di vicinanza, affetto, dolore. Altre, al contrario partivano con parole di cordoglio continuavano con se fosse stata a casa non sarebbe successo, una mamma deve stare coi suoi bambini ed altri luoghi comuni.

Papà ha avuto il coraggio di conservarle tutte, le une con le altre punte: Io non so se sarei stata così generosa; temo avrei strappato quelle che con la scusa di manifestare dolore in realtà danno giudizi perentori e categorici. In sostanza sfondati dal superfluo, un se l’è cercata. Come per le donne stuprate, che è sempre comunque colpa loro.

La mamma non cercava né morte né martirio. Voleva vivere intensamente. Aveva un marito tre figli per cui vivere, un lavoro che la appassionava, idee in cui credeva profondamente. Una persona con le sue contraddizioni, i suoi sogni, speranze, come tutti noi.

Recarsi in una piazza per manifestare pacificamente, legalmente, non è cercarsela. Una manifestazione occorre ricordarlo sempre, contro la violenza. Lo si può leggere chiaramente in quella copia del manifesto apposta per sempre accanto alla stele. Dopo la mamma seguono altri sette nomi. Alcuni li ho conosciuti personalmente, li ricordo con affetto altri non li ricordo, ma ricordi i loro cari, che mi salutavano, abbracciavano ogni anno in questa giornata dedicata alla memoria.

Questa piazza è stata bagnata dal sangue di Giulietta, mia mamma, di Livia, Alberto, Clementina, Euplo, Luigi, Bartolomeo, Vittorio. E delle centinaia di feriti sopravvissuti ma segnati per sempre. Il sangue è stato lavato via con gli idranti, ma gli idranti non possono cancellare il ricordo del sangue, la sua memoria, la sua persistenza. Ancora oggi non lo vediamo, ma c’è. Ci sarà per sempre e non potrà mai essere cancellata finché ricordiamo.

Ricordiamo queste persone che erano vive fino alle 10:12 del 28 maggio 1974. Che ridevano, amavano, provavano sentimenti ed emozioni. Stringiamo in un abbraccio forte,  ed affettuoso tutte le persone che si sono trovate come un’ ala spezzata dalla loro morte. Qui la mia mamma 50 anni fa ha provato le sue ultime emozioni sono certa che il suo ultimo pensiero sia stato per me, per i miei fratelli Guido ed Alfredo, per il nostro papà Luigi. Ci amava e non voleva lasciarci. Questo è anche il luogo dove ha riso, ha respirato per l’ultima volta. Dove è stata viva.

Qui, oggi, ora, posso dire ciao mamma. Sciolgo quel groppo bloccato in gola. Qui era viva 50 anni fa e ora mi ascolta.




Brescia 50 anni dalla strage

Era il 28 maggio del 74, un martedì, tarda mattinata, Filippo Castrezzati era a metà del suo comizio, quando di sentì un suono secco e poi le grida.

Pioveva e sotto i portici di piazza della Loggia, proprio dove si era rifugiato il gruppo di attivisti della CGIL Scuola esplose una bomba collocata in uno di quei cestini metallici della spazzatura che si trovano ovunque nelle nostre città.

Morirono sùbito in 6 dilaniati dalla bomba, altri due erano gravissimi e morirono nei giorni successivi. I feriti, colpiti dalle schegge furono oltre un centinaio.

Piazza della Loggia un attimo prima dello scoppio della bomba

le vittime

  • Giulietta Banzi Bazoli, 34 anni, insegnante di francese.
  • Livia Bottardi in Milani, 32 anni, insegnante di lettere alle medie.
  • Alberto Trebeschi, 37 anni, insegnante di fisica.
  • Clementina Calzari Trebeschi, 31 anni, insegnante.
  • Euplo Natali, 69 anni, pensionato, ex partigiano.
  • Luigi Pinto, 25 anni, insegnante.
  • Bartolomeo Talenti, 56 anni, operaio.
  • Vittorio Zambarda, 60 anni, operaio.

Tra gli 8 morti si contano 5 professori, attivisti della CGIL Scuola, due di essi Giulietta Banzi e Luigi Pinto sono anche militanti di Avanguardia Operaia.

l’attentato

Potete ascoltare qui il documento sonoro del comizio con lo scoppio intorno al minuto 9 della registrazione.

Si era concluso da poco il referendum sul divorzio voluto da Fanfani e Almirante con la grande vittoria del no alla abrogazione e la provincia di Brescia, da alcuni mesi era stata teatro di iniziative fasciste di vario genere; la manifestazione, con sciopero generale era stata convocata pensando ad una protesta che facesse da argine.

Invece ci fu l’attentato seguito poi dalla rivendicazione da parte di organizzazioni fasciste nate per filiazione dopo lo scioglimento di Ordine Nuovo

Brescia Oggi il quotidiano progressista di Brescia uscì con una edizione straordinaria nel pomeriggio stesso della strage

Sono stati giorni tristi e frenetici; ero il segretario regionale lombardo di AO e con la mia Aermacchi 350 mi recai a Brescia tutti i pomeriggi sino al giorno dei funerali, venerdì 31, per stare vicino ai compagni che fino al giorno prima avevano lavorato fianco a fianco di Giulietta e Luigi.

il numero del settimanale di AO con la notizia

Luigi era ancora vivo, sarebbe spirato il 1 giugno per gli effetti del gravissimo trauma spinale che aveva subìto. Nel preparare questo articolo ho trovato anche la testimonianza del medico che lo accolse in ospedale, era cosciente e voleva sapere del suo stato.

Da Milano organizzammo un treno speciale in occasione dei funerali. Erano altri tempi; i funerali  furono grandiosi con una partecipazione popolare tra le 500 e le 600 mila persone (4 volte la popolazione di Brescia). Peccammo certamente di estremismo (compagna Giulietta sarai vendicata) e in assenza dei fascisti cercammo di prendercela con le istituzioni dello stato, in primis con la DC mettendo sullo stesso piano il Presidente Leone o Rumor e la DC bresciana notoriamente di sinistra, popolare e antifascista. Se ne trova traccia nei documenti e nelle tesi di laurea. La gente sapeva di Giulietta, della sua militanza, e quando entrammo in piazza con lo striscione di AO fummo accolti da una marea di applausi.

che persone erano?

comunicazione CGIL

La CGIL di Brescia comunica al nazionale la morte degli iscritti

I 5 docenti morti erano, ciascuno con le sue peculiarità, persone eccezionali impegnate nella costruzione del sindacato scuola CGIL, nato da pochissimi anni e ciascuno di loro si portava dietro storie di impegno politico-culturale, di famiglia, di alpinismo, di emigrazione.

In questi anni un po’ di istituzioni locali si sono preoccupate del ricordo, esiste un sito con diverso materiale documentario, sono state fatte delle tesi di laurea su alcuni di questi protagonisti e, nelle loro scuole e/o città di provenienza sono ricordati con delle lapidi.

Giulietta Banzi

Giulietta Banzi insegnava francese al liceo Arnaldi, aveva tre figli piccoli che ricordano lo sballottolamento per le riunioni e le manifestazioni. Il figlio mschio, Afredo, che allora aveva 5 anni, è senatore del Partito Democratico.

Giulietta Banzi con i tre figli e sotto il diario impagabile di Beatrice, la figlia maggiore per la manifestazione del XXV aprile

Era sposata con un avvocato democristiano di sinistra che, ai tempi della strage, era assessore all’Urbanistica al comune di Brescia. Aveva iniziato il suo spostamento a sinistra nella seconda metà degli anni 60 aderendo ad un circolo culturale in cui si approfondiva, lavorando sui testi, il pensiero di Marx e di Lenin; da qualche mese entrata in contatto con il Comitato di Agitazione degli insegnanti (creatura milanese messa in piedi da Maria Teresa Torre Rossi e Claudio Annarratone) aveva aderito ad Avanguardia Operaia.

Tra i ricordi di lei mi è piaciuto quello di una ex studentessa: ci dava del lei, come forma di rispetto nei nostri confronti e ci diceva che la letteratura francese, che lei insegnava, era importante, ma che era più importante non scordarsi della Rivoluzione Francese.

Strane le vite vere, non vi pare? Le nostre analisi di allora non prevedevano queste cose, una compagna che vive una vita felice con un marito democristano, ma questo marito democristiano fece portare sulla bara di Giulietta la sua bandiera rossa creando scandalo in certi ambienti.

Qualcosa del lavoro politico di allora di Avanguardia Operaia a Brescia è rimasto con la esperienza di Brescia anticapitalista. La CGIL Scuola, che ora si chiama Federazione Lavoratori della Conoscenza (FLC), in questi anni ha fatto un meritorio lavoro per ricordare le vittime producendo un libricino biografico di ciascuno. Questo è quello dedicato a Giulietta. La tête bien faite che richiama un famoso aforisma di Montaigne a proposito di scuole ed educazione, aforisma ripreso da Egadgar Morin: meglio una testa ben fatta piuttosto che una testa ben piena.

Alberto Trebeschi

Al momento della strage sapevo poco o nulla di lui. Era un insegnante di fisica, come me appassionato degli aspetti culturali e formativi di questa disciplina. Si occupava di storia della scienza e di problematiche  di unità del sapere. E’ morto con la moglie, entrambi erano appassionati di montagna. Alberto, prima di approdare al partito comunista aveva avuto una lunga militanza nel partito radicale ed era tra gli animatole del circolo culturale Antonio Banfi frequentato da tutto il gruppo impegnato nella costruzione del sindacato scuola.

Qualche anno dopo la strage, quando avevo ripreso ad insegnare ho scoperto che gli Editori Riuniti avevano pubblicato un suo lavoro postumo, frutto del riassemblaggio di appunti e materiale didattico: Lineamenti di Storia del Pensiero Scientifico. Ne feci un largo uso nei primi tre anni di ritorno al Frisi dopo il 1977. Questa è la sua biografia Alberto. Una questione scientifica

Luigi Pinto

No alla scuola di classe, no alla selezione, corsi abilitanti occupazione

Luigi veniva dal sud, dalla provincia di Foggia, era perito industriale e nella vita, prima di approdare all’insegnamento a tempo indeterminato di Applicazioni Tecniche nella scuola media, aveva fatto un po’ di tutto, concorso per le ferrovie, lavoro al Petrolchimico di Marghera, cambi frequenti di residenza nel tentativo di costruirsi una vita come capita ai giovani volenterosi del sud.

Ma anche l’insegnamento nel bresciano non è semplice, levatacce per andare con i mezzi pubblici da Brescia a Montisola, sul lago di Iseo, traghetto incluso. Riprendo dalla biografia di FLC Luigi una storia semplice

due sembrano, tra le altre, le principali qualità dell’uomo: la generosità e il senso di responsabilità.

La prima significava,  per Luigi, disponibilità, attenzione, rispetto, cura degli altri: parenti, amici, alunni, colleghi, compagni del partito e del sindacato.

La seconda, dovere, coerenza, serietà, consapevolezza, rigore nel lavoro e nella militanza politica e sindacale. L’espletamento del dovere comportava per lui, animato da un profondo senso di giustizia sociale, la rivendicazione dei diritti dei lavoratori, il miglioramento delle loro condizioni di vita, l’innalzamento della qualità della scuola, l’allargamento delle possibilità occupazionali.

A ciò lo sollecitavano i suoi convincimenti politici, la sua simpatia per Avanguardia Operaia e il suo impegno sindacale, ma anche la sua condizione di emigrante, di proletario, di giovane meridionale, costretto, come tanti lavoratori del Sud, a cercare fortuna lontano dal luogo d’origine e dalla famiglia.

per chiudere

31 maggio 1974 – i funerali

Ogni volta che mi imbatto nelle stragi fasciste mi prende una sorta di malinconica rassegnazione tra processi che non finiscono mai, condanne da cui restano fuori una bella fetta di mandanti, una specie di storia infinita che, si spera, sia finita negli anni 80. E ti resta sempre una domanda, che non mi rimane quando mi documento sul terrorismo rosso: sappiamo tutto? Li abbiamo presi tutti? Chi ha organizzato e commesso le stragi sta pagando?

E’ questa la ragione per cui è necessario che la destra italiana non abbia paura di tirare la riga nei confronti non tanto e non solo dei fascisti stragisti ma anche di tutto quel mondo ambiguo che le circonda fatto di tolleranze  e di va beh.

 




Che cosa sono le BR – recensione

intervista ad Alberto Franceschini

Non intendo proporre una sit-com intitolata le BR. Con la intervista al secondo dei padri-fondatori; considero esaurito l’argomento perchè l’Italia è ormai un’altra cosa, chi doveva pagare ha pagato, chi poteva parlare e spiegare lo ha fatto, oppure è stato zitto oppure ha peccato per omissione; però è comunque bene che alcune cose si sappiano e tra queste alcune che riguardano l’assassino di Moro, Mario Moretti.

La intervista a Franceschini è del 2004, lui è uscito di galera nel 1998 da dissociato, si è fatto 24 anni di galera e ha usufruito di qualche sconto di pena dovuto alla dissociazione (era stato arrestato insieme a Curcio attraverso l’infiltrato Girotto-frate-mitra).Il libro è fatto di due parti:

  • l’infanzia e l’adolescenza di Franceschini, la storia del gruppo di Reggio Emilia (detto dell’appartamento perché aveva sede in un appartamento nel centro storico di Reggio) formatosi a partire dal 67 intorno alla FGCI reggiana. Sul gruppo dell’appartamento consiglio di leggere la recensione al film-documentario Il sol dell’avvenire sceneggiato da Fasanella che contiene anche il link per visualizzarlo su YouTube.
  • La storia di Franceschini nelle BR dal 70 al 74 in libertà e successivamente da detenuto osservatore critico della leadeship di Mario Moretti. Nei suoi  confronti e in quelli del suo mentore Corrado Simioni, Franceschini oscilla tra un giudizio di critica di militarismo e il sospetto che si tratti di infiltrati del giro dei servizi segreti (tra CIA e KGB).

Reggio Emilia, l’adolescenza la radicalizzazione della FGCI e la lotta armata

Alberto Franceschini viene da una famiglia operaia con un nonno Andrea (classe 1887) tra i fondatori del PCdI, confinato con Secchia e Pertini, partigiano nelle SAP. Dopo la liberazione la famiglia fece da custode della Camera del Lavoro di Reggio mentre il nonno, vedovo, si innamorò di una ragazza del Casino di Reggio la sposò ed ebbe una figlia (una zia più giovane di Alberto).

Di questa famiglia tutta PCI c’è il ricordo della vertenza per non pagare il canone RAI della radio, perché loro ascoltavano solo le trasmissioni in italiano di radio Praga e radio Mosca e mi viene in mente che alla metà degli anni 60 anche io smanettavo con una radio ad onde corte con cui la sera ascoltavo radio Praga e radio Tirana (c’era un po’ di emozione nell’ascoltare la internazionale nell’etere).

Alberto è attivo sin da giovanissimo, a 13 anni è in piazza alla manifestazionbe per le Reggiane che finirà con i morti di Reggio Emilia. Ci racconta di una FGCI con 12 mila iscritti su 150 mila abitanti, delle prime lotte contro lo sfruttamento da parte delle aziende della Lega delle cooperative  e della maturazione di posizoioni antimperialiste e anti Nato cresciute intorno alla guerra del Vietnam.

C’è però un elemento di differenza rispetto alle pulsioni della meglio gioventù, questi giovani si raccordano con gli ex partigiani e ben presto iniziano a ragionare di lotta armata andando a raccattare le armi nascoste sull’Appennino. In proposito viene citato nei dettagli un episodio riguardante una partita di Sten ancora imballati nei sacchi con cui erano stati paracadutati. La Luger che si vede nella foto del primo rapimento BR, quello di Idalgo Macchiarini gliela aveva data il suo segretario di sezione che nel primo dopoguerra era fuggito in Cecoslovacchia in quanto imputato di avere giusiziato il direttore delle Reggiane. A partire dal 67 iniziano ad andare in montagna ad esercitarsi a sparare.

Pian piano la situazione con il partito si fa tesa; si è formato il gruppo dell’appartamento in cui si ritrova il filone guevarista proveniente dalla FGCI, psiuppini, anarchici ma anche gruppi del neonato dissenso cattolico. In questa occasione Franceschini conosce Corrado Corghi, ex segretario regionale della DC, esponente del dissenso cattolico e di quei settori che guardano a Camillo Torres e alla lotta armata in America Latina.

Corrado Corghi, ben introdotto negli ambienti vaticani e amico di Fidel Castro farà da mediatore con il Vaticano e con Cuba per garantire l’espatrio di quelli della banda XXII ottobre che avrebbero dovuto essere liberati in cambio della liberazione del giudice Mario Sossi (primo sequestro importante con detenzione del reapito, organizzato da Curcio e Franceschini nel 74). La liberazione saltò per la opposizione del Procuratore Generale Coco che si rifiutò di firmare la scarcerazione e per questo, due anni dopo venne trucidato insieme alla sua scorta dalla colonna genovese delle BR.

Il partito, per controllare il gruppo, propone di pagare l’affitto, ma quelli dell’appartamento si fanno un vanto di operare in proprio, lavoretti, contributi da Feltrinelli e più avanti anche le prime rapine. Il segretario della commissione federale di controllo, già comandante della brigata del nonno, propone a due dei leader (tra cui Franceschini) di prendere unm anno sabbatico e di andare a Mosca all’università Lomonosov a seguire corsi di marxismo-leninismo; i due rifiutano e si arriva alla rottura.

Pian piano il gruppo dell’appartamento cresce e diventa famoso nel mondo della contestazione e così arrivano i pellegrinaggi perché quella realtà fa gola: arriva De Mori del Cub Pirelli, arriva Curcio, arrivano Magri e la Castellina in giro a costruire la rete del Manifesto (il resoconto di questo incontro è esilarante).

Lucio Magri e Luciana Castellina. Stavano girando l’Italia per reclutare gente dal Pci. E vennero anche da noi perché eravamo già conosciuti come il «gruppo di Reggio». Ci  esposero le loro tesi, noi li ascoltammo. Poi, finita l’assemblea, verso l’una, io e Gallinari  rimanemmo a chiacchierare con loro. Magri me lo ricordo benissimo per un particolare: eravamo a dicembre e lui era abbronzatissimo. Gli dicemmo che non avevamo capito bene quali fossero le sue posizioni e gli chiedemmo di spiegarci che cosa pensava della lotta armata.
Magri tergiversava, o non aveva le idee molto chiare, o forse aveva paura di sbilanciarsi. Allora gli dicemmo fuori dai denti che noi, la rivoluzione, la stavamo organizzando sul serio. Lui ci guardò come stralunato, poi gli caddero le braccia e disse: «Ma allora, se voi volete fare veramente queste cose, io me ne torno a sciare». «Tu tornerai a sciare», gli rispose serissimo Gallinari, «non noi». E Magri non si fece più vivo.

La fondazione delle BR e uno strano personaggio

Franceschini viene radiato dal PCI nel dicembre del 69 ma nel corso dell’estate a Chiavari si è costituito, per azione di Renato Curcio e Corrado Simioni, il Collettivo Politico Metropolitano.

Corrado Simioni (1934-2008) ha avuto dei trascorsi nel PSI da cui è stato radiato per indegnità morale, è uno studioso di Pirandello e in quel momento lavora alla Mondadori. E’ lui a recarsi a Reggio per mandare in porto l’operazione recuperodei dirigenti dell’appartamento (hanno obiettivi comuni: “la lotta armata, la rivoluzione, la clandestinità“.

Mentre Renato era il leader da assemblea, molto comunicativo, capace di infiammare la gente, Simioni era l’opposto: di poche parole, riflessivo, non ci teneva a mettersi in mostra, ad apparire. Erano molto solidali, rapporti anche di complicità. Come se si fossero divisi i compiti: a Renato il ruolo pubblico, a Corrado quello più discreto della cura delle relazioni.
Immediatamente non si avvertiva la sensazione che uno fosse più importante dell’altro. Però, quando cominciavi a parlare con Simioni, ti accorgevi che era molto colto e che  usava la sua cultura come uno strumento di potere sugli altri. Alla fine ti rimaneva l’impressione che il vero capo del Cpm fosse lui, non Curcio

Simioni ha le relazioni con i movimenti rivoluzionari in giro per il mondo (e questo, dopo il suo trasferimento a Parigi sarà l’elemento caratterizzante). Il CPM ruota intorno ad alcuni padri fondatori: un pezzo di CUB Pirelli, Duccio Berio e Vanni Mulinaris (da sociologia di Trento), Italo Saugo (legato a Feltrinelli), un gruppo di ingegneri IBM controllati da Simioni, il gruppo dei tecnici della Siemens tra cui Mario Moretti.

Renato era il personaggio pubblico: interveniva nelle assemblee, incontrava i leader degli altri gruppi che si stavano formando, insomma era quello che faceva politica alla luce  del sole. Simioni, invece, operava sempre dietro le quinte. Lui doveva rimanere coperto perché stava preparando il passaggio alla lotta armata, stava organizzando la rete logistica, le strutture clandestine. Si sapeva che c’era chi stava facendo questo lavoro, e che questo era Simioni. Tant’è che il Cpm, già allora, era in grado di esprimere una capacità militare durante i cortei.

Il gruppo controllato da Simioni è soprannominato delle zie rosse perché è composto prevalentemente da donne e ne fa parte Mara Cagol. Le zie rosse si occupano di servizio d’ordine attivo durante i cortei. E’ già in questa fase che avvengono le prime incrinature tra Curcio-Franceschini e Simioni.

Franceschini è colpito dalla scarsa trasparenza di Simioni  che pretende di mettere alla prova i compagni mentre poco o nulla si sa di lui che gira in Maserati perché un vero rivoluzionario non deve destare sospetti   (come vive, quali sono le sue entrate, quali sonoi i suoi rapporti con i GAP di Feltrinelli).

Scheda tutti i militanti con un questionario dettagliato ai limiti della patologia. Questi questionari saranno poi consegnati ad un ex partigiano comunista emigrato in Cecoslovacchia per sfuggire ad una condanna per omicidio ai tempi della Volante Rossa. L’ex partigiano viene presentato a Mara da Simioni che di lui si fida. Più tardi, dopo che Simioni si è trasferito in Francia con Berio e Mulinaris, emergerà che Roberto Dotti (era a lui che avrebbe dovuto rivolgersi nel caso in cui avesse avuto bisogno di soldi o di altri aiuti) era legato alla associazione di Edgardo Sogno e Franceschini quando lo scopre si chiede anche se in realtà non fosse rimasto legato al KGB.

Il 2 settembre del 70 una italiana e un profugo greco saltano per aria (difetto del timer, stesso tipo di quello di Feltrinelli) mentre si stanno recando all’ambasciata americana di Atene per un attentato dimostrativo.

Alla lettura del giornale Simioni sbianca, dichiara che l’attentato l’ha organizzato lui e che la donna era una delle sue amanti. Curcio è allibito e la cosa più grave è che emerge che al posto della donna avrebbe dovuto esserci Mara che però si era rifiutata. Simioni non si limita a quello:

Scoprì sino in fondo le sue carte. Rilanciò proponendoci di compiere due attentati, che lui aveva già preparato. Voleva che uccidessimo due ufficiali della Nato, a Napoli, durante una visita di Nixon in Italia. E poi che ammazzassimo anche Junio Valerio Borghese, durante un comizio che il leader di Avanguardia nazionale aveva programmato in una piazza di Trento… Secondo lui, quelle azioni di altissimo livello militare sarebbero servite a «innalzare il livello dello scontro», costringendo la sinistra extraparlamentare a misurarsi su un nuovo terreno. L’effetto sarebbe stato che i pacifisti e gli opportunisti sarebbero stati spazzati via; mentre i veri rivoluzionari si sarebbero forgiati nello scontro. Nel frattempo, noi avremmo costruito l’organizzazione clandestina in cui sarebbero confluiti i rivoluzionari di tutta la sinistra.

Franceschini e Curcio si rendono conto che molte cose non quadrano (il libro è ricco di altri dettagli) e decidono di interrompere i rapporti. La rottura è verticale sia nel gruppo dell’appartamento sia tra i milanesi. Tra gli altri se ne vanno Prospero Gallinari e Mario Moretti (quest’ultimo in maniera ambigua). Ad onor del vero Moretti, ufficialmente se ne va in polemica con Simioni e lo sostiene in maniera netta nella su intervista rilasciata a Rossana Rossanda (Brigate Rosse: una storia italiana – Mario Moretti (recensione).

Si forma il gruppo dei superclan (abbreviazione di superclandestini) e sull’altro versante nascono le BR. Il superclan non riesce a combinare nulla e pian piano gli esponenti di Sinistra Proletaria che erano andati con Simioni tornano all’ovile mentre Simioni, Mulinaris e Berio vanno in Francia dove metteranno in piedi una organizzazione che si occuperà di coordinamento di organizzazioni rivoluzionarie in giro per il mondo (Spagna, Palestina, Irlanda, America Latina) e resterà sempre il dubbio di legami con i servizi segreti (Mossad, CIA, KGB).

Un dato interessante è che dei tre protagonisti del superclan non ci sono immagini in rete; l’unica immagine di Simioni è quella in eveidenza con l’Abbè Pierre in visita a Giovanni Paolo II. Rimane in tutto il libro l’ipotesi che Mario Moretti avesse una impostazione poco politica e militarista di suo o che sia stato eterodiretto da quelli del superclan (segnalo in proposito il capitolo 10, le stranezze di Moretti).

Il rapimento Sossi (1974)

So tratta della prima operazione importante delle BR (dopo i mini attentati alle auto dei capetti di fabbrica o i rapimenti mordi e fuggi). L’operazione è molto complessa e viene gestita da Franceschini con responsabilità diretta e da un esecutivo in cui sono presenti oltre a lui Curcio, Cagol e Moretti.

Il racconto della vicenda è molto dettagliato: la cattura, il trasferimento nell’alessandrino, gli interrogatori e le ammissioni da parte di Sossi, la presenza di un infiltrato scoperto a posteriori, le trattative con il coinvolgimento del vaticano, la svolta negativa allo scambio con il gruppo della XXII ottobre imposta da Coco, il rischio imminente di una strage pianificata dal ministro degli interni Taviani, le paure di Sossi.

Non c’è tempo da perdere; Moretti, sostenitore della linea di uccisione di Sossi (secondo lo stesso schema che applicherà nel caso Moro, resta in minoranza nell’esecutivo e Sossi viene camuffato e liberato su sua richiesta a Milano in modo che possa tornare a Genova in treno e consegnarsi alla Finanza (gli unici di cui si fida). L’accusa congiunta di Curcio e di Franceschini a Moretti è che non sia in grado di gestire politicamente le situazioni, che pecchi di militarismo e che vada estromesso dall’esecutivo.

la cattura dei capi storici e il rapimento e assassinio di Moro

Nel giro di pochi anni si susseguono la cattura di Curcio e Franceschini (settembre 74) grazie alla infiltrazione di Silvano Girotto (frate mitra) in un contesto in cui emergono ombre di leggerezza o peggio nei confronti di Moretti, la liberazione di Curcio dal carcere di Casale (febbraio 75) con una azione militare condotta da Mara Cagol, il rapimento Gancia  e la sua liberazione alla cascina Spiotta con uno scontro armato in cui muore un carabiniere e successivamente viene uccisa Mara Cagol (giugno 75).

La versione di Franceschini e delle BR diceche Mara è stata giustiziata con una calibro 22 da un carabiniere in borghese che le spara un colpo all’ascella da distanza ravvicinata mentre lei ha le mani alzate in segno di resa. C’è un testimone oculare (il brigatista fuggito e nascosto nei dintorni che non sarà identificato ma darà la sua versione alle BR).

Allo stesso modo (con l’intenzione di uccidere) fu programmato l’arresto di Giorgio Semeria (marzo 76) con tentativo di uccisione per coprire chi lo aveva venduto.  Semeria avrebbe dovuto diventare il nuovo capo delle BR dopo il nuovo arresto di Curcio. In questo contesto le nubi si addensano su Moretti (Curcio e Semeria lo accusando di essere una spia) e nel libro si trovano i fatti e le circostanze.

Ovviamente la stessa domanda io la posi a Renato. E lui mi raccontò un episodio relativo al suo secondo arresto. Dopo la nostra cattura alla stazione di Pinerolo, Renato infatti era riuscito a evadere, ma quasi un anno dopo lo avevano ripreso.
Era una domenica, il giorno in cui era stato catturato la seconda volta. ll giovedì precedente aveva avuto una riunione di esecutivo piuttosto tesa con Semeria – in quel momento ancora in libertà – e Moretti. Terminata la riunione, Moretti disse che era stanco e che non aveva voglia di tornare a Genova, dove viveva in quel periodo; perciò chiese a Renato se poteva fermarsi a dormire da lui. Renato rispose di no, non sarebbe stato prudente: la regola della compartimentazione imponeva che nessuno sapesse dove dormivano gli altri. Moretti insistette e, alla fine, Curdo se lo portò a casa. Tre giorni dopo, la domenica, Renato fu arrestato nel suo appartamento insieme a Nadia Mantovani.

Moretti diventa il capo delle BR e inizia la fase sanguinaria della organizzazione. Dapprima la uccisione di Coco e della sua scorta (giugno 76) e via verso il caso Moro

Gallinari era stato arrestato alla fine del 1974. Nel 1 976 era imputato con noi nel primo processo al nucleo storico delle Br. E fu lui a leggere in aula il comunicato di rivendicazione dell’omicidio Coco. Poi, sospeso il processo, nessuno di noi tornò nel carcere di provenienza, ci trasferirono tutti in prigioni di massima sicurezza. Tutti, tranne Gallinari, che tornò a Treviso, un altro carcere-albergo come quello di Casale
Monferrato. E infatti, nel gennaio 1977, riuscì a evadere. Nelle sue memorie, pubblicate dopo la sua morte, Taviani rivela che consentirono a Gallinari di evadere perché, seguendo lui, volevano prendere Moretti. Solo che, Moretti, non lo presero. … Comunque, dopo l’evasione da Treviso, Gallinari entrò subito nell’esecutivo e divenne il braccio destro di Moretti. A quel punto, con due dei suoi uomini al vertice delle Br, il disegno di Simioni poteva dirsi davvero compiuto.

Al termine del sequestro Moro alcuni dei protagonisti arrestati finiscono in carcere e Curcio li spazzola:

Noi continuavamo a chiedere a quelli fuori: ma Moro che cosa ha detto? E loro continuavano a ripetere che non aveva detto niente di interessante. Poi, però, arrestano Bonisoli e Azzolini, nell’ottobre 1 978 scoprono il covo di via Montenevoso a Milano, trovano il «memoriale» di Moro e noi leggiamo tutto sulla «Repubblica». A quel punto ci arrabbiamo. Durante l’ora d’aria, all’Asinara, Curdo prende da parte Bonisoli e Azzolini e li strapazza: «Ma come, ci avevate detto che Moro non aveva parlato ! Se aveste pubblicato anche solo un decimo delle cose che abbiamo letto sulla «Repubblica», sarebbe scoppiato un tale casino ! Siete dei deficienti totali, oppure avete in testa qualche altra cosa?».

E si sta parlando solo delle confessioni di Moro depurate da Moretti, quelle integrali saranno scoperte anni dopo nel tramezzo murato di via Monte Nevoso.

Dalla lettura della intervista di Franceschini non si può concludere che Moretti fosse una spia o che invece fosse eterodiretto dai capi del Superclan che stavano a Parigi e che il suo militarismo, oltre che da elementi caratteriali fosse figlio di quel rapporto.


Che cosa sono le BR. Le radici, la nascita, la storia, il presente
Giovanni Fasanella , Alberto Franceschini
Rizzoli – Pubblicazione: 5 Maggio 2004 ISBN: 8817002348 Pagine: 240 12 €





A viso aperto – intervista di Mario Scialoja a Renato Curcio

Si tratta di un libro datato (marzo 1993) ma che ha il pregio di ripercorrere l’esistenza di Renato Curcio dalla nascita alla uscita dal carcere dopo 24 anni nello stiel della intervista che consente la trattazione breve e diretta delle diverse questioni e me lo sono letto nell’ambito del percorso di analisi biografica dei capi dell BR alla ricerca di motivazioni, pulsioni e diversità. Il tutto è stato innescato dalla morte di Barbara Balzerani che, come Renato Curcio è stata una esponente di primo piano delle BR, non pentita, non dissociata ma nemmeno irriducibile.

Curcio è stato il padre fondatore, non è stato mai convolto direttmente in omicidi, ha gestito tutta la fase iniziale di sviluppo della organizzazione e da subito dopo l’uccisione della moglie ha vissuto l’evoluzione della politica delle BR dalla propaganda armata, agli omicidi, al sequestro Moro, alla gestione Moretti che non condivideva sino alla disfatta..

La sua vicenda personale è quella di un figlio di ragazza-madre. Il padre, il fratello del regista Luigi Zampa, molla la madre incinta e dunque i suoi primi anni di vita avvengono tra disagio e miseria con ricordi felici tra le valli valdesi e la imposizione di una scuola superiore (perito chimico) scelta perché gli negarono il liceo artistico. Al termine delle superiori R.C. molla la madre a Sanremo e se ne va a Genova vivendo di espodienti nel centro storico finchè, ormai alle sogle della vita da barbone alcolista qualcuno gli parla della facoltà di sociologia a Trento. Ci va e grazie ai voti con cui si era diplomato riesce ad avere borsa e collegio universitario.

Gli anni di Trento sono raccontati con entusiasmo sia per le aperture culturali (alle scienze umane) sia per le figure di docenti importanti (da Alberoni a Prodi ad Andreatta), sia per i compagni di sodalizio studentesco (da Marco Boato a Marianella Sclavi, da Mauro Rostagno alla futura moglie Margherita Cagol). Sono anni in cui Curcio si batte per garantire la autonomia della nuova facoltà entrando a contatto con l’establishment democristiano ed in quegli anni si sposa con Margherita il 1° agosto del 69 alle 5 del mattino presso l’eremo di San Romedio. E’ previsto un viaggio di nozze all’insegna della avventura ma in quei giorni avviene l’incontro con De Mori del Cub Pirelli (” Col senno di poi posso dire che l’incontro con questo personaggio grintoso e trasognato segnò per me una nuova discontinuità radicale. Voglio dire che il suo discorso mi spinse sul sentiero che, nel giro di due anni, mi portò alle Brigate rosse.”).

Il libro è tutto da leggere ed è impensabile fare qui il riassunto. Mi limito ad evidenziare i punti salienti:

  • fondazione del Collettivo Politico Metropolitano intorno ai tecnici della Siemens (tra cui Mario Moretti) e ad una delle componenti del Cub Pirelli (l’altra con Mosca e Cipriani strizzava lì’occhio alla nascente Avanguardia Operaia
  • trasformazione del CPM in Sinistra Proletaria (convegno di Chiavari): “Uno dei problemi da affrontare era quello «dell’organizzazione della forza»: così avviammo un’intricata discussione sul ruolo e i metodi del servizio d’ordine, ossia di quel nucleo duro d’azione che ogni gruppo extraparlamentare aveva creato nel proprio interno. E nel documento elaborato al convegno di Chiavari, il cosiddetto «Libretto giallo», parlando dell’autonomia operaia introducemmo per la prima volta una riflessione sull’ipotesi della lotta armata.”
  • settembre 70 (convegno di Pecorile) ci si avvia verso la fondazione delle BR e si discute del tema della forza e si inizia a bruciare le auto dei capetti. Inizia un rapporto personale tra Curcio e Feltrinelli (che ha organizzato i GAP raccogliendo vecchi partigiani delusi, gira il mondo e racconta di America Latina
  • marzo 72 sequestro per poche ore di Macchiarini e precedenti esperienze di rapine per acquisire soldi ma soprattutto esperienze di controllo delle operazioni; Sul cartello, sotto la sigla Brigate rosse, avevamo scritto: «Mordi e fuggi. Niente resterà impunito. Colpiscine uno per educarne cento. Tutto il potere al popolo armato». Dopo il rapimento Macchiarini, che dura poche ore, il gruppo dirigente viene braccato dalla polizia e inizia la clandestinità.IL gruppo delle BR (12 persone) lascia MIlano e si sposta a Mirafiori. Margherita ed io ci saremmo trasferiti a Torino, mentre Franceschini e Bertolazzi, dopo aver rintracciato Moretti che risultava ancora disperso, dovevano provare a rimettere in piedi l’organizzazione a Milano.
  • febbraio 73 rapimento del sindacalista Cisnal Labate che viene interrogato sui meccanismi usati dalle dirigenza Fiat per il controllo operaio tramite capi, cepetti, sindacato giallo e ricatti. Labate viene ammanettato ad un lampione mentre le BR volantinano tra il giubilo degli operai. Il consenso delle BR tra gli operai radicalizzati a Milano come a Torino cresce e si rafforza con il successivo rapimento e interrogatorio di Amerio.
  • Il 18 aprile del 74 con una azione preparata da Curcio, Cagol, Franceschini, Bonavita, Ognibene, Ferrari e il supporto della neonata colonna genovese viene sequestrato il giudice Sossi un pm con trascorsi neofascisti e che era stato in prima linea nel processo a Rossi e a quyelli della banda feltrinelliana del XXII ottobre. Si era in piena campagna referendaria sul divorzio e ho bene in mente lo sconcerto che ci colse. Ci era sembrata una vera provocazione pensata per dare supporto ai fascisti e alla DC fanfaniana.”Gli sviluppi del sequestro Sossi sono piuttosto noti. Lui, pavido e impaurito, collaborò in pieno, raccontò dei loschi traffici di Umberto Catalano, capo della squadra politica della Questura di Genova e uomo di mano di Paolo Emilio Taviani, delle inchieste insabbiate, dei processi politicizzati e truccati, delle oscure manovre attorno al rapimento del ricco genovese Gianfranco Gadolla..” La richiesta è quella di liberare quelli della XXII ottobre e sembra cosa fatta con il consenso della Corte d’Appello sùdi Genova  quando il Procuratore Generale di Genova Coco si oppone e non firma e le BR rilasciano comunque Sossi. Nello stesso periodo (a giugno) nel corso di una azione nella sede MSI di Padova tesa a ricercare elementi sulla strage di Brescia da parte della nascente colonna veneta avviene il primo fatto di sangue. Come conseguenza di un fallo di reazione vengono uccisi due militanti missini. Curcio racconta la cosa coin sconcerto “L’azione di via Zabarella non aveva niente a che vedere con ciò che le Br stavano facendo, non rientrava nei nostri piani. Noi ormai puntavamo al «cuore dello Stato», cioè alla Democrazia cristiana. Non vedevamo più nei fascisti un pericolo reale ed anzi contestavamo a quelle parti di movimento ancora impegnate nel cosiddetto «antifascismo militante» di essere fuorviate da una cultura post-bellica, tutto sommato di comodo, arretrata e mascheratrice…. I morti di via Zabarella, come ho detto, li considerai subito un disastro politico, un errore molto grave. L’idea di uccidere consapevolmente in quel periodo la escludevo: ritenevo che per il nostro tipo di organizzazione sarebbe stato un passo controproducente e negativo. Devo però ammettere in tutta sincerità che nell’ottica dello sviluppo della lotta armata il fatto che vi potessero essere dei morti, sia fatti da noi che fatti a noi, era un’eventualità che avevo senz’altro accettata. In piena coerenza con il pensiero e l’esperienza del marxismo rivoluzionario, anche io ero convinto che il prezzo della morte, per quanto tragico, fosse una necessità nel passaggio a una società senza oppressione… Decidemmo così di scrivere un documento il cui succo era questo: l’azione di Padova è delle Br, ma non è stata programmata dall’organizzazione perché la nostra linea politica è un’altra; non poniamo al centro della nostra attenzione i fascisti e tanto meno sosteniamo che vanno ammazzati; i fascisti non sono il vero nemico e, se anche avessero qualcosa a che vedere con la strage di Brescia, il loro ruolo non può essere che secondario; la responsabilità di questo tipo di stragi va ricercata anzitutto all’interno dello Stato. L’elemento paradossale della intera vicenda è che dei 30 anni complessivi di condanne che Curcio si è preso 16 riguardano il concorso morale in questo evento.
  • Curcio viene arrestato nel settembre 74 insieme a Franceschini grazie alla azione dell’infiltrato Silvano Girotto (frate mitra) e sarà liberato dal carcere di Casale grazie ad una azione militare guidata dalla moglie nel febbraio del 75 (non entra nei dettagli ma sia rispetto a questo evento, sia rispetto al periodo dell’Asinara, ricorda che durante i colloqui riuscivano a far passare sia informazioni sia esplosivi). “Quell’azione può anche essere considerata sotto l’aspetto personale e romantico, ma in sostanza è stata un’azione politica in applicazione di uno dei principi cardine della lotta armata: la liberazione dei prigionieri.” Dopo l’evasione Curcio va a Milano lavora con Walter Alasia e in quel contesto emergono i primi contrasti interni al gruppo dirigente tra una visione più movimentista (la sua) e una che propone agli insoddisfatti di lasciare il movimento ed entrare nelle BR.
  • Nel giugno del 75 le BR, preso atto che la organizzazione costa molto (appartamenti e mantenimento dei regolari, come vengono chiamati clandestini) e che i proventi delle rapine non bastano tentano il colpo grosso con il rapimento di uno deui rampolli della Gancia. Durante la gestione delle trattative qualcosa va storto, per mancato rispetto delle norme che si erano stabilite e i carabinieri che perlustravano le campagne della zona arrivano alla cascina, ci sono due conflitti a fuoco, nel primo muore un carabiniere enel secondo viene uccisa Mara Cagol (sul tema ci sarà una grande polemica perché la Cagol risulta uccisa da un colpo entrato dalla ascella sinistra, come se avesse le mani alzate, ma Curcio non ne fa cenno). “La morte di Margherita, mia moglie, una nostra compagna, una capo colonna, e anche la morte di un carabiniere, padre di famiglia: questo l’epilogo drammatico di un’operazione che avevamo studiato in modo da evitare lo scontro a fuoco. Il grave fallimento ci portò a una durissima autocritica, ma anche alla presa di coscienza che continuare per la nostra strada significava accettare in concreto – e non solo come ipotesi astratta – il peso della morte, sia nel nostro campo che in quello avversario.”
  • Il 18 febbraio del 76 Curcio viene arrestato a Milano a causa della leggerezza di un brigatista che aveva lasciato l’auto con le targhe false in sosta vietata e da lì in poi la storia delle BR cambia.
  • Curcio riceve la notizia del rapimento Moro in carcere a Torino: “Debbo dire che percepii subito un dislivello molto forte tra le capacità politiche delle Brigate rosse che agivano all’esterno e i problemi politici che un’azione così rilevante avrebbe posto. Ebbi la netta sensazione che l’azione compiuta rappresentasse un passo più lungo della gamba….capii che con Moro veniva ad essere colpito un vasto disegno politico in atto nel paese e che quell’iniziativa avrebbe avuto delle conseguenze politiche più gravi di quelle poliziesche.”.

Il gruppo dirigente storico assume una posizione del tipo noi siamo in carcere e si tratta di una operazione pensata e gestita da chi sta fuori, approviamo ma teniamo distinti ruoli e responsabilità. Curcio si augura che possa andare come nel caso Sossi, anche se si rende conto che si tratta di una cosa più grossa:” Nel caso del giudice Sossi il nostro scopo non era stato quello di uccidere un uomo, ma di realizzare un’ azione di propaganda dimostrando la nostra capacità di tenere un prigioniero per quindici giorni e guadagnare una grande popolarità. E scegliemmo di restituire il giudice vivo anche se lo Stato con i suoi inganni fece di tutto per favorire un epilogo tragico. In quell’occasione sapemmo reagire senza intransigenza e stupidità, facendo prevalere la ragione politica. Con Moro la decisione non dipendeva più da me. La logica delle Br si era irrigidita, la loro ottica era cambiata. Non avevo nessuna certezza… e, di fronte a un evento clamoroso come il sequestro di Moro, ci sarà ben qualcuno in Italia capace di ragionare e di escogitare una soluzione accettabile; magari una contropartita indiretta e non immediatamente percepibile, come la liberazione di qualche guerrigliero in qualche parte del mondo.”

  • Il capitolo dedicato al caso Moro è interessante e ricco di notizie riguardanti la discussione interna eseguita ex post (colloqui tra Curcio e Moretti) e tutta la fase della trattativa con interventi esterni di vario tipo (esemplare quelloi di Franca Rame) in cui il nucleo storico mantiene ferma la posizione: noi non possiamo far nulla e siamo militanti disciplinati di una organizzazione.

“È stata una scelta tragicamente distruttiva per l’organizzazione che in quel momento non aveva la forza politica di gestire un fatto di quella portata. Certamente, il non aver valutato sin dall’inizio l’eventualità di potersi trovare di fronte a un atteggiamento di chiusura totale, che avrebbe comportato la scelta semi-obbligata di uccidere il prigioniero, è stato sintomo di scarsissima lungimiranza strategica da parte dei compagni che hanno programmato il sequestro. Personalmente, di fronte alla notizia della morte di Moro sono stato preso da vero sconforto. Intanto perché verificavo che l’intuizione avuta inizialmente, cioè che le Br avevano messo in piedi un’azione al di sopra delle loro capacità politiche, era perfettamente esatta. Poi, perché cominciai a capire che anche gli effetti organizzativo-militari della vicenda sarebbero stati disastrosi.

Si apre una discussione destinata a durare mesi; si è sbagliato? Cosa si potrà fare in futuro? Le BR sono finite?  “Questo io non solo l’ho pensato subito, ma l’ho anche scritto. Appena ricevuta la notizia del ritrovamento del cadavere in via Caetani, durante le ore d’aria nel carcere di Torino, con Franceschini, Bertolazzi e gli altri compagni del vecchio nucleo, aprii una discussione che si fece sempre più tesa, durò mesi e sfociò in un incrociarsi di documenti…. Il succo, a volerla dire brevemente, era questo: le Brigate rosse sono finite; la loro storia si chiude con questa azione che porta a un livello estremo delle pratiche politico-militari di una fase precedente, quella della propaganda armata. A questo livello estremo, che in realtà rappresenta un vero salto di qualità, le risposte dell’opinione pubblica, dello Stato italiano, delle forze internazionali, non possono essere più quelle di prima. E le Br non sono nate, non sono preparate, non sono organizzate per affrontare un nuovo livello di scontro di questo genere. Non si tratta di adattarsi a una nuova situazione di scontro militare, ma di chiudere la storia della nostra organizzazione”

Questo è quello che Curcio pensa e che non corrisponde all’atteggiamento pubblico. A Torino è in corso il processo e il gruppo storico deve dire la sua;  “Avevo concordato con gli altri di citare una frase di Lenin. Scandendo bene le parole e sforzandomi di apparire calmo recitai: «La morte di un nemico di classe è il più alto atto di umanità possibile in una società divisa in classi…». Si trattava evidentemente di un rito autorassicurante, di un escamotage per affrontare quel momento difficilissimo. C’era in noi la consapevolezza di essere di fronte alla fine di un’esperienza storica, ma in quelle poche ore era stato impossibile definire un discorso preciso con cui sintetizzare i nostri giudizi e la nostra analisi. I carabinieri non mi fecero finire di parlare. Entrarono nella gabbia, mi sollevarono di peso e mi buttarono fuori dall’aula. .

  • Il penultimo capitolo (senza abiura) è dedicato alla esposizione della posizione di quel gruppo di brigatisti che non si sono pentiti nè dissociati. Non credo che sia corretto chiamarli irriducibili. Si tratta di cittadini italiani che hanno fatto una esperienza che, personalmente giudico aberrante, in primo luogo per la scia di sangue che ha caratterizzato la organizzazione che hanno fondato, che hanno pagato con il carcere la loro scelta e hanno deciso di non usufruire di sconti premiali. Questo è stato il loro modo di essere coerenti e di dichiararsi comunque insoddisfatti e avversari della società democratica e delle sue istituzioni. Per questa ragione termino questo articolo riprendendo ampie citazioni da senza abiura.

Una volta andata in porto la legge sulla dissociazione, si è aperto uno spazio nuovo e chiaro per coloro che, come me, non intendevano usufruirne. Certo, in quel momento fui costretto, come tutti, ad interrogarmi. «Si tratta solo di prendere le distanze da un fenomeno che non c’è più», suggeriva qualcuno. Ma c’era quella richiesta di abiura del proprio passato che galleggiava nell’aria. Non era possibile far finta di non vedere che la legge voleva anche l’umiliazione di chi sottoscriveva la propria «dissociazione».

Molti compagni si adattarono all’idea che quell’umiliazione, in un mondo in cui lo sfascio dell’ideologia era ormai pressoché totale, non fosse un prezzo eccessivo. Dopo tutto qualche vantaggio ne sarebbe venuto, eccome! E presto un po’ tutti avrebbero dimenticato ogni cosa. Valeva la pena insistere nell’intransigente coerenza? Vari amici mi invitarono, discretamente, ad essere pragmatico. A «cogliere l’occasione». Ma in quei giorni stavo leggendo Roland Barthes. Una sua domanda amara mi colpì: in nome di quale presente abbiamo il diritto di giudicare il nostro passato? …Perché mai avrei dovuto «dissociarmi» da quelli che erano stati giorni certamente tragici e spietati, ma anche autentici in ogni loro respiro? Perché avrei dovuto «abiurare» un passato che avevo vissuto con tutto me stesso? Il carcere era forse il luogo ideale per tentare anche un primo, provvisorio, bilancio? Preferii affrontare, rimanendo integro, i tempi difficili che sarebbero seguiti. Difficili non tanto per la durezza del regime carcerario, ma perché, uno dopo l’altro, ho visto distaccarsi e dissociarsi molti di quei compagni con i quali avevo condiviso speranze di mutamento, dure esperienze, momenti di gioia e una grande sconfitta. Difficili perché la società che ha amministrato la vittoria non ha avuto la forza di essere generosa con i vinti più di quanto non è stata con se stessa.

la dissociazione

Detto questo, ho almeno due critiche teoriche da fare alla dissociazione. La prima è politica. II dissociato rinnega l’esperienza compiuta senza saperla oltrepassare e riduce la complessità sociale dei moti sovversivi a un fatto giuridico di cui parlare con il linguaggio di un azzeccagarbugli. Il dissociato è in realtà un associato: nel senso che si associa a una precisa linea politica, quella dell’ex Pci, fondata sull’esorcizzazione della storia. II Pci ha sempre negato l’esistenza di uno spazio politico alla sua sinistra criminalizzando ogni forma di lotta esso producesse. E, nel promuovere la dissociazione, ha continuato ad essere conseguente con tale posizione facendo di tutto per evitare che si potesse parlare in modo libero e approfondito della storia degli anni ’70. Che è appunto una storia della sinistra di classe e degli spazi aperti alla sinistra del Partito comunista.

La seconda critica è più culturale. È sorprendente la facilità con cui, per varare il disegno di legge sulla dissociazione, si è buttata a mare la conquista borghese della libertà di pensiero. La legge infatti chiedeva che venissero «pronunciate» parole di abiura: là dove la cultura giuridica occidentale ha sempre riconosciuto all’imputato il diritto al silenzio. Un diritto che è un fatto di civiltà tanto quanto il diritto alla libera parola. E così, chi, come me, non ha voluto pronunciare l’abiura è stato pesantemente punito. Punito per il suo silenzio. È il ritorno ai processi alle streghe.

obiettivo irraggiungibile

Poco dopo il sequestro Moro, nei primissimi anni ’80. Fu allora che l’esperienza armata cominciò ad essere messa in crisi proprio da quel sistema dei partiti contro il quale ci eravamo battuti. Capii che la nostra lotta non era stata capace di scalfire quel blocco monolitico, anche se diversificato, di potere. E la vicenda Moro è stata il primo segnale forte di questa realtà. L’accordo strettissimo tra Dc e Pci che si realizzò in quel momento diede il segno della capacità del blocco politico di compattarsi contro le pulsioni del sociale.

Le Brigate rosse furono incapaci di far fronte a quella situazione. E cominciò a pesare la contraddizione che le ha portate all’estinzione: da una parte, l’accumulazione degli organici «militari» e, dall’altra, l’incapacità di individuare il punto su cui fare leva per intaccare il sistema politico da colpire.

Vorrei però che sia ben chiara una cosa. Io avevo avuto grandi responsabilità nella creazione del fenomeno armato e facevo parte di un’organizzazione che non era una squadra di bocce, dalla quale tirarsi fuori come se niente fosse. Non è che di punto in bianco potevo convincermi di una certa cosa e dire con disinvoltura: «Guardate ragazzi, io adesso la penso in un altro modo e quindi vi saluto e me ne vado». Credo di non dover spendere molte parole per spiegare che da parte mia sarebbe stata una buffonata irresponsabile.

… Non si poteva – non si possono – mollare le persone che in questa storia sono state implicate e che sono andate a finire in galera. Io considererò chiuso il mio conto con le Brigate rosse nel momento in cui avrò la gioia di vedere fuori dal carcere e rientrati dall’esilio tutti i compagni coinvolti nell’avventura degli anni ’70.

i morti e la pietas

Curcio espone una tesi assolutoria che mi capita di incontrare sui social quando si toccano determinate tematiche. Sul piano della esperienza personale li posso capire, ma sull’altro piatto della bilancia ci sono i morti. C’è stata una dichiarazione di guerra e lo stato per difendere la democrazia ha fatto ricorso a tutte le sue armi, in qualche momento agendo border line per stato di necessità.

Quanti morti hanno fatto gli errori, ben più gravi, delle generazioni dei nostri padri e dei nostri nonni?  Non è con un conteggio di questo tipo che si possono fare dei bilanci. Il pregio delle rivoluzioni mancate è quello di non avere il difetto delle rivoluzioni riuscite: in qualche modo tutte le rivoluzioni riuscite hanno tradito le loro promesse, mentre quelle mancate possono tradire solo le analisi che le hanno mosse. Una colpa che, tutto sommato, mi sembra meno grave.

D’altra parte, la generosità con cui una fetta della mia generazione si è gettata nella rischiosa avventura politico-ideologica rappresenta un valore positivo che, a un certo punto, dovrà esserci riconosciuto. Voglio dirlo senza pudori: io oggi ho una grande pietas nei confronti di me stesso e della mia generazione sconfitta…

… A me e alla mia generazione non è stato lasciato nessuno spazio per vivere quell’immaginario che portavamo con noi al momento del nostro ingresso nella società. Non abbiamo potuto vivere nel modo in cui ci sarebbe piaciuto perché la generazione precedente ha brutalmente bloccato il nostro cammino chiedendoci di sacrificare la nostra differenza o morire. Così alcuni sono morti con le armi in pugno, molti con l’eroina nelle vene, la maggioranza è vissuta ammazzando dentro di sé il suo desiderio di mutamento.

… Quanto alla nostra specifica sconfitta, quella delle Br, si tratta di una sconfitta che, lo ripeto, avevo cominciato a vedere alla fine degli anni ’70 e ho riconosciuto pubblicamente nel 1986. Certo, per molti compagni l’idea della fine delle Brigate rosse risultava intollerabile. Per me, invece, procedere per discontinuità non era affatto un’esperienza nuova. Nell’86, infatti, non feci altro che ripetere un tipo di comportamento che avevo già tenuto nel ’70: chiudere formalmente, con una chiara decisione, un’esperienza che si trascinava per forza d’inerzia ed era ormai inesorabilmente condannata.

perché non hanno accettato la proposta della chiusura politica della sovversione anni 70?

Non so se la paura può essere una chiave di lettura adeguata. Personalmente colgo nella loro assenza un moto più sordido e profondo. Qualcosa che non riguarda in modo specifico il loro rapporto con il fenomeno armato degli anni ’70, ma viene da modelli più lontani e fa parte di una malformazione congenita della società italiana. Nel nostro paese, in cui è mancata una rivoluzione borghese e non vi è stata neppure una vera rivoluzione industriale, gli intellettuali sono rimasti subordinati al potere del «Principe», cioè ai partiti politici. Hanno mantenuto la vocazione a farsi chierici ed ancelle. Triste eredità di una cultura marchiata dal Machiavelli, veleno sottile che devitalizza alla radice ogni azzardo del pensiero divergente.

Quando, nella Francia dei primi anni ’70, il governo mise fuori legge il gruppo della Gauche Prolétarienne, molti intellettuali, Sartre in testa, scesero a distribuire «La Cause du Peuple», il giornale bandito. «Se volete soffocare ogni voce, ogni utopia, che intende esprimere modelli diversi di società, arrestate anche noi», dissero in buona sostanza. Fu, ne sono certo, una grande lezione e, soprattutto, un intervento provvidenziale per la società francese: perché quell’area di intellettuali rappresentò un cuscinetto di tolleranza, un ammortizzatore sociale, tra le rigidità del potere politico e le tensioni rinnovatrici e sovversive dei movimenti più estremi. Qualcosa che in Italia non è esistito.

… Perché questo ostentato silenzio dei nostri intellettuali sull’esperienza eversiva brigatista? Perché questa difficoltà clamorosa di tutta la sinistra ad affrontare una discussione sugli anni ’70? La mia risposta l’ho data. Sarebbe interessante conoscere le risposte di Rossanda e dei pochissimi disposti a prestare orecchio alle nostre grida nel deserto.

… Gli uomini del potere hanno sempre risposto che la lotta armata non è stata un fatto politico, ma criminale. Cossiga, bisogna riconoscerlo, ha invece avuto il coraggio di proporre una lettura più sincera e approfondita, premessa indispensabile per aprire quella discussione seria sugli anni ’70 che sinora nessuno, tra i politici e gli intellettuali, ha voluto…. Personalmente, non riconosco ad alcun potere l’autorità e il diritto di chiedere abiure. E mi stupisco che lo abbia fatto un laico come l’ex ministro Guardasigilli socialista. Oggi, alle soglie del duemila. Cossiga è poi venuto a trovarti a Rebibbia il 25 novembre ’92: mi ha confessato che l’incontro è stato «drammatico, nel senso ellenico del termine» e che sei un uomo per il quale lui nutre «molta stima». Che significato ha avuto quel colloquio e cosa vi siete detti? Dal mio punto di vista una certa «drammaticità» quell’incontro l’ha avuta, in quanto si è trattato di un faccia a faccia tra due sconfitti. Cossiga si presentava, in un certo senso, come colui che non era riuscito a portare avanti il suo tentativo di compiere un atto concreto che permetta il superamento di una fase della storia sociale italiana. Io gli ero di fronte sconfitto nella qualità di ex leader delle Brigate rosse e di inascoltato predicatore della necessità di affrontare l’assunzione di una responsabilità politica collettiva per la storia degli anni ’70.


A viso aperto. Memorie e desideri del fondatore delle Brigate Rosse. Intervista di Mario Scialoja
Renato Curcio, Mario Scialoja
Mondadori, 1993 228 pagine, € 14,98 ISBN 8804367032


Questo libro ha 30 anni. Lo recensisco, nell’ambito delle polemiche sulla morte di Barbara Balzerani e sulla commemorazione che qualcuno ne ha fatto sfidando la congiura del silenzio. Di certe persone che sono state in carcere a lungo espiando la loro condanna non si deve parlare, devono essere dei “morti viventi” sia da vivi sia da morti.
E’ la storia di Renato Curcio raccontata da lui stesso: dalla infanzia alla fondazione delle BR, dalle proime azioni di propaganda armata all’esito innescato dalla strage di via Fani e dall’aver alzato il tiro senza prevederne le conseguenze.
Ho sempre osteggiato le BR, anche quando ero un dirigente della sinistra rivoluzionaria senza nasconderne l’origine leninista da scheggia impazzita. Nel 77 mi sono iscritto al PCI quando il mondo della sovversione si stava trasformando in un “mare di merda”. L’ho fatto ritenendo che la difesa delle istituzioni dello stato democratico andasse messa al primo posto e non ho cambiato idea.
Mi auguro che il diritto alla esistenza di coloro che sbagliarono e che hanno pagato non venga tributato post mortem.




Dolore e Furore – Sergio Luzzatto

Dolore e furore è un testo di quasi 800 pagine che segna, a parer mio, una svolta nella pubblicistica sul terrorismo rosso italiano. Si tratta di una svolta perché l’approccio è da storico e con taglio abbastanza distaccato sia che si parli dei terroristi sia che si parli delle istituzioni dello stato.

Si tratta di un bel lavoro fatto da uno storico italiano, originario di Genova ma che vive e lavora negli Usa, frutto di un grande lavoro di documentazione sui materiali disponibili, di ricerca diretta e di interviste a molti dei protagonisti (comprimari e/o protagonisti, condannati e/o rimasti nell’ombra).

Tutta la prima parte è dedicata all’analisi della infanzia di Riccardo Dura e al contesto sociale e culturale della Genova dei primi anni 60 (gli emarginati, le istituzioni per i minori come la terribile navescuola-collegio Garaventa, le fabbriche in quella che era, con MIlano e Torino, la capitale dell’industria italiana, il mondo cattolico tra il cardinale Siri e don Gallo, la sinistra rivoluzionaria dominata da Lotta Continua e diretta da Andrea Marcenaro, il mondo della Università con Faina e Fenzi, cui si aggiungerà il cognato Senzani, l’avvocato Arnaldi, alla fine suicida, il chirurgo figlio del sindaco comunista della liberazione Gelasio Adamoli.

Sulla personalità di Dura segnalo la lunga lettera che Riccardo scrive alla madre durante il servizio militare, una sorta di lettura del sè tra costruzione del carattere, timidezza, critica alla madre che non gli ha consentito di crescere.

Sulla personalità di Dura segnalo la lunga lettera che Riccardo scrive alla madre durante il servizio militare, una sorta di lettura del sè tra costruzione del carattere, timidezza, critica alla madre che non gli ha consentito di crescere.

La madre è la responsabile di due ricoveri in Ospedale psichiatrico e poi del confinamento sulla Garaventa, la nave scuola-collegio dalle regole severissime ancorata nel porto di Genova su cui Riccardo passa la sua adoloscenza prima di incominciare ad imbarcarsi.

Si imbarcherà sino al 75 quando entrerà in clandestinità. Le BR a Genova nascono dall’azione di semina da parte di Mario Moretti e Rocco Micaletto come si faceva anche nella sinistra rivoluzionaria: una città era considerata strategica e si inviavano compagni capaci e affidabili a impiantare il lavoro politico.  Nel nostro caso il terreno di coltura è dato dal disfacimento della sinistra rivoluzionaria, in particolare di Lotta Continua e il promoter è un docente universitario di Storia, Faina che poi, in rotta con le BR formerà una sua organizzazione terroristica in polemica con le BR sul modello di organizzazione (Azione Rivoluzionaria).

Si passa dalla XXII ottobre, la banda di Rossi filiazione dei GAP di Feltrinelli al sequestro Sossi (nel 74)i, all’omicidio di Coco e della sua scorta (nel 76), a quello di Guido Rossa (nel 79), ai numerosi attentati ai Carabinieri di cui è protagonista il capocolonna (l’ignoto Dura entrato nelle BR), sino alla irruzione e uccisione di 4 BR tra cui Dura che sarà riconosciuto come tale dalle BR solo dopo che Andrea Marcenaro che ne aveva riconosciuto il cadavere minaccerà di renderne nota l’identità. La scoperta del covo fa parte delle informazioni provenienti dalle confessioni a Dalla Chiesa di Patrizio Peci.

Dura, senza se e senza ma, è il respnsabile diretto dell’assassinio di Guido Rossa che originariamente avreebbe dovuto essere gambizzato. Così fu, ma Dura intervenne a fare due colpi di grazia non previsti. I due colpi di grazia che segnarono l’inizio della fine delle BR a Genova. Secondo una testimonianza diretta di Enrico Fenzi, Riccardo Dura che entro la colonna veniva soprannominato Pol Pot ebbe modo di dichiarargli: «Io, se mai vinceremo, non voglio cariche, onori, nulla. Voglio solo che mi sia dato l’incarico di far fuori i nemici, tutti quelli che devono essere fatti fuori. Sarà un duro lavoro, perché saranno svariati e svariati milioni di persone che andranno eliminate. Ecco, io questo vorrei fare, dopo».

Perché Dura lascia LC ed entra nelle BR? Come diventa un capo? Come si modifica la sua personalità sino a trasformarsi in una spietata macchina da guerra. Alcune cose si capiscono altre no, ma certamente la repressione della fase adolescenziale aveva prodotto un carattere chiuso, freddo al limite della spietatezza. Non si spiega altrimenti l’uccisione di Guido Rossa su cui le stesse BR dovettero poi impostare una sorta di autocritica per eccesso di zelo dovuta ad un fallo di reazionbe da parte dell’operaio comunista.

Dopo la uccisione di Dura la colonna genovese, ormai semidistrutta, viene ereditata dai cognati Fenzi e Senzani e la parte finale del libro riguarda la ascesa di Senzani che prenderà il posto ell’arrestato Marioi Moretti (fronte delle carceri, assassinio del fratello di Patrizio Peci, rapimento Cirillo).

Decisamente da leggere e la lettura mi ha fatto venir voglia di indagare la riflessione sul sè che ha fatto il padre fondatore Renato Curci (alla prossima)


Sergio Luzzatto

Dolore e Furore – una storia delle Brigate Rosse

Einaudi Storia pp. LII – 708 € 38,00 ISBN 9788806256746


 




Somalia – di Bruno Petrucci

Bruno Petrucci, geologo, in Somalia ci  va e viene da anni; va a scavare pozzi per l'acqua nell'ambito della cooperazione internazionale. Un raconto  dal di dentro, dopo la liberazione di Silvia Romano, un contributo per capirci qualcosa di più.


Dopo la guerra civile che portò nel 1990 alla caduta del dittatore Siad Barre, riferimento di Craxi nell’Africa orientale, il nord, in particolare il Somaliland, ex Somalia Britannica, trovò al suo interno un accordo tra i due clan principali, cui si adeguò il terzo, e staccatosi dal resto del paese, diede vita ad una delle più stabili democrazie dell’Africa.

Dal 1992 vige questo accordo e le elezioni si susseguono senza traumi ogni 5 anni, a volte con ritardi di 1-2 anni. Praticamente non c’è delinquenza, l’ultimo attentato da fondamentalisti del sud ci fu nel 2008 e da allora la popolazione, pur totalmente di fede islamica ha sempre isolato ogni tentativo d’insediamento dei terroristi. Ci muoviamo liberamente in città e abbiamo una scorta di 2 guardie quando usciamo dalla capitale. Mai personalmente un problema in 20 anni, pur dormendo in tenda o in piccoli villaggi isolati.

Il Puntland, storicamente parte della Somalia Italiana, la regione del Corno d’Africa confinante ad est con il Somaliland, trovò dopo la guerra civile un equilibrio meno stabile dei vicini e si barcamenò a lungo tra elezioni, tentativi dittatoriali e accordi tra clan.

In seguito a questo equilibrio instabile si poterono rafforzare gruppi malavitosi che si dedicavano a rapimento e riscatto degli espatriati, detti sacchi di dollari (green bags), alla pirateria e infine, dal 2006 alla costituzione di gruppi fondamentalisti.

In sintesi nel 2005 potevi andare in giro per Bosaso o Garowe dappertutto e fino a notte sedere ai bar per strada come in Italia e chiacchierare con i Somali, nel 2006 non potevamo più uscire senza scorta armata. Oggi ci sono zone occupate dagli Al Shabab e noi lavoriamo a Bosaso con una scorta minima di 4 guardie e fuori dalla città siamo scortati da una camionetta con 10 guardie (quando si lavora in un posto fisso) o due auto con 8 guardie per gli spostamenti brevi e veloci. A Bosaso fu probabilmente pianificato l’assassinio di Ilaria Alpi, poi eseguito a Mogadiscio.

Nel centro-sud del paese, in sintesi, non si è mai usciti dalla guerra civile. I due clan principali non sono mai riusciti ad accordarsi e, dopo lo sciagurato intervento della forza multinazionale (operazione Restore Hope), la cui strategia era decisa dagli americani, la situazione peggiorò e per molti anni il paese restò diviso in bande originate dai clan dedite al commercio della droga nazionale (ma non prodotta nel paese), il qat (o chat), ed alla guerra per il controllo del territorio.

Poco riusciva a fare l’intervento di una forza “di pace” africana soprattutto a guida etiope (da sempre considerati i principali nemici dei somali) e successivamente anche keniana ed ugandese.

Una decina di anni fa s’impose un gruppo denominato coorti islamiche che riuscì per un paio d’anni a pacificare il paese. Le coorti islamiche erano composti da una fazione moderata ed una fondamentalista, spesso in contrasto.

Ci fu in quegli anni il caso di un giornalista italiano sequestrato dai fondamentalisti e poi liberato grazie all’intervento dei moderati. Intanto si riformava una federazione somala che includeva anche il Puntland e si succedevano governi formati da un’élite residente soprattutto a Nairobi, in Kenya, con scarsissima influenza sulla popolazione, governi “costruiti” a tavolino tra ONU e principali potenze occidentali.

Anche per questo motivo, per l’elevato numero di somali che vi vive e per la presenza di truppe in territorio somalo, il Kenya entrò nel mirino dei terroristi islamici.

In Somalia le coorti islamiche si sciolsero e dopo qualche anno di confusione, marcato da stragi, ancora scontri tra bande e attentati agli esponenti “governativi” comparve la formazione terrorista degli Al Shabab (gioventù islamica).

Queste brigate all’inizio erano formate soprattutto da combattenti non somali inviati e pagati dalle fazioni fondamentaliste dell’Arabia Saudita e degli emirati arabi, in sintesi un’emanazione di Al Qaeda, con scarsi o nessun rapporto con l’ISIS.

Poi gradualmente si sono radicate nel territorio con la forza della violenza e con la debolezza dei governi federali. Oggi si dice che Al Shabab controlli circa il 60-70% del territorio della federazione, prevalentemente in aree agricole, mentre la federazione blindata dalle forze etiopi, tiene le città.

Hanno effettuato ed effettuano un numero di attentati enormi tra cui uno in particolare, circa 2 anni fa a Mogadiscio, in cui un camion di esplosivo saltò vicino ad un’autocisterna, provocando circa 500 tra morti e feriti; in Kenya ci fu l’assalto al Mall o West Gate (un frequentatissimo centro commerciale di Nairobi) con 60 morti e la strage degli universitari a Garissa (circa 150 morti).

Tralascio una miriade di attentati minori e uccisioni più o meno mirate in Somalia e Kenya di cui non ci arriva notizia.

La cartina illustra  la situazione al 2019 con in color mattone le zone contese e in ciclamino  quelle controllate dall'ISIS o da Al Shabab.

Attualmente, a Mogadiscio, le attività di cooperazione si svolgono prevalentemente nella zona dell’aeroporto, incluso in un compound super difeso da cui i cooperanti non escono se non come in zona di guerra (blindati Puma, elmetto e giubbotto anti-proiettile) e non vi sono attività di campo.

Nella mia missione a Baidoa, due anni fa, ero praticamente recluso in un albergo la cui unica strada d’accesso era controllata da due posti di blocco super armati. Mi si concedeva solo 1-2 uscite al giorno con durata inferiore a 2 ore, 8-10 guardie armate e tutto il lavoro di campo veniva svolto dai collaboratori somali.

La città è completamente circondata dagli Al Shabab che hanno posti blocco dove i camion che trasportano beni in città pagano dazio e, a quel che ho capito, gli si paga tributo per avere diciamo una certa tranquillità che alcune opere o attività possano essere costruite o svolte senza attacchi.

Ciononostante 15 giorni dopo la mia partenza, un autobomba fu fatta esplodere contro il principale albergo (con clientela somala) della città. Un po’ come si faceva negli anni 70-80 in Calabria quando si pagava la “guardiania” delle attrezzature alla Ndrangheta per poter lavorare in pace. Probabilmente, Covid-19 a parte non credo che tornerò ancora a Baidoa o in altre città del sud e seguirò i lavori a distanza, con trasmissione via internet dei dati.

Ultima notazione: in 21 anni di lavoro nel paese, prevalentemente in Somaliland e Puntland, non ho mai avuto un solo gesto ostile o anche solo sgarbato da parte della popolazione ma ho trovato stima, affetto e tanti amici.

A coloro che dicono statevene a casa, faccio notare semplicemente che se la cooperazione internazionale dovesse ritirarsi da questo paese, si lascerebbe campo libero al terrorismo ed al fondamentalismo più becero e lo stesso succederebbe forse se abbandonassimo altri paesi difficili tra Africa e Medio Oriente.

Quindi si accetti l’idea che ciò ha un costo, se non in vite umane, almeno in riscatti come nel caso di Silvia Romano, che in valore sono una parte veramente esigua degli investimenti che si fanno in questi paesi per favorire il loro sviluppo. Comunque, si eviti di mandare una ragazza alla prima esperienza da sola in un villaggio sperduto del Kenya, senza alcuna misura di sicurezza.


Su questi argomenti Pensieri in Libertà ha pubblicato due articoli:

a proposito di Dannati della Terra – di Antonello Mennucci

chissenefrega della conversione?


 

 




Il gioco dei regni – di Clara Sereni (recensione)

La genesi e la costruzione di questa biografia di famiglia, Clara Sereni, ce la svela nell'ultimo capitolo, quando descrive il lavoro fatto sui documenti di famiglia, su quelli di archivio e degli incontri con i testimoni diretti e indiretti.

Suo padre aveva passato l'intera vita a studiare, scrivere, annotare e catalogare (e il suo archivio personale sta all'Istituto Cervi dove è possibile leggere una biografia completa, che consiglio); poi c'erano la storia della famiglia Sereni, quella delle due Xenia Silderberg (madre a figlia) e quella dei coprotagonisti da Manlio Rossi Doria, a Eugenio Colorni, a Giorgio Amendola.

Nel 1977 Emilio Sereni muore (era nato nel 1907) e la figlia Clara, di fronte al corpo del padre, inizia una riflessione che impiegherà 10 anni a tradurre nella scelta di lavorare ad un affresco della sua famiglia; scrivere può essere un modo per capire: Quando provai a far ordine dentro di me quell'immagine generò un rancore confuso, e un dolore che non sapevo collocare; sforzandomi ad una ragione, tentai di cancellarla da me. Con la voglia forte di dichiararmi estranea, e innocente.
La pietà, che avrebbe potuto essermi d'aiuto, non rientrava nei canoni dell'educazione che mi aveva impartito. Per ritrovarla dentro di me, ho dovuto cercarla molto lontano. Nelle radici negate, troncate per volontà ma misteriosamente riaffioranti; in una sapienza antica, tranquilla di sé quanto occorre per discernere e salvare, fra i detriti della Storia, ciò che ancora può servire;

In questo libro si intrecciano storie della borghesia ebraica italiana, la prima fase della lotta terroristica alla autocrazia zarista condotta dai socialisti-rivoluzionari, il tema del sionismo e la costruzione dei primi kibbutz, problematiche di natura familiare ed affettiva, il legame tra i tre fratelli Sereni, le durezze della costruzione del gruppo dirigente del PCdI durante il fascismo.

Il mondo dell'ebraismo borghese ci rimanda a tradizioni e cultura, ad una concezione della educazione dei figli in cui bisogna dare regole, opportunità, senso della sfida, importanza dell'essere costruttori del proprio destino. Perché ricorda la mamma Alfonsa i suoi figli dovevano imparare ad affrontare fino in fondo le conseguenze delle proprie scelte.

I tre fratelli Enrico, Enzo ed Emilio (Mimmo) hanno alle spalle una grande madre (Alfonsa Pontecorvo) e hanno una infanzia che sembra predestinata ad un grande futuro per via della precocità negli studi, nella conoscenza delle lingue, nella capacità di fare gruppo. Sarà così solo in parte, per via del male di vivere di Enrico e per l'apparire sulla scena  del comunismo che muterà completamente i progetti di vita di Emilio dal socialismo sionista ad una integerrima adesione allo stalinismo prima e all'URSS poi.

La cosa che mi ha impressionato nel procedere con la lettura è stata l'adesione alla durezza delle regole del comunismo clandestino, quello dell'accerchiamento (le spie, i trotkisti, l'ebraismo, …) che porta Emilio Sereni ad una dimensione di vita che lo porta a rinnegare, o mettere da parte, la sua storia serrando i denti e decidendo che il comunismo viene prima di ogni altra cosa si tratti delle accuse infondate nei suoi confronti, dell'invasione dell'Ungheria, della guerra arabo israeliana del 67 o dell'invasione della Cecoslovacchia. Questo suo serrare i denti lo porterà ad un isolamento progressivo come ricorda la figlia Clara: Non lo ammise mai, forse perché nessuno affrontò il disagio di chiederglielo: stupiti del suo progressivo ammutolire tutti, perfino i compagni che gli erano stati più vicini, senza domande si ritrassero, per rispetto e per opportunità.

Il libro è scritto da una donna e, secondo me, sono le donne le vere protagoniste, quelle che hanno il coraggio di fare un po' da argine alla ideologia mantenendo aperta la dimensione dei sentimenti e quella della famiglia.: le due Xenia, madre e figlia, Alfonsa (la madre dei tre fratelli) e anche Clara, l'autrice che ha cercato di riconciliarsi con quel padre tanto ingombrante.

Leggendo, mi ero messe da parte un centinaio di citazioni e ve le risparmio perché è meglio leggerle in originale, magari accompagnando il tutto dalla lettura della biografia che ho linkato. Si tratta di lettere o di ricostruzioni che Clara Sereni fa partendo dai documenti.

Xenia e Mimmo sono a Parigi e si trovano a vivere le tragedie del gruppo dirigente del PCI stretto tra il consolidarsi del consenso intorno al fascismo, gli arresti a ripetizione di coloro che vengono mandati in missione in Italia, i sospetti nei confronti di chi è stato amico di un socialista o è ebreo (e dunque è potenzialmente una spia trotkista). La linea del partito è giusta e se non funziona vuol dire che ci sono dei traditori e che bisogna smascherarli. Clara  non lo scrive, ma Emilio Sereni, di passaggio a Mosca, viene addirittura condannato a morte e riuscirà a tornare in Francia solo umiliandosi di fronte a Stalin, ma sarà declassato e la moglie espulsa.

Il Paese del comunismo lo accolse con polizia, interrogatori, arresto. Non si stupì, conosceva le tortuose teorie di Stalin sui controrivoluzionari, e concordava con lui - con il Partito - sulla necessità di guardarsi anche da se stessi. Non fece questioni di antisemitismo. Neanche quando capì che i dubbi, anzi le accuse a suo carico vertevano quasi esclusivamente sui suoi rapporti non sufficientemente prudenti con ebrei, da Hirschmann ad Abramovich a Curiel a Eugenio Colorni. A Enzo.
Si disse e disse che tutto questo, e l'altro che si poteva intuire, era giusto, anzi necessario. Così alto era il fine - un destino collettivo potenzialmente perfetto - che gli inciampi del singolo cammino non potevano avere importanza.
Tornò da Mosca convinto delle proprie scelte più che mai: la fortuna che aveva avuto - dì tornare - era una conferma, e i ricatti li chiamò linea politica.

La scelta è netta Xenia scrive alla madre di far finta che non è mai esistita, che è opportuno cessare ogni rapporto, anche epistolare; e ci tornerà sopra con la stessa durezza anche dopo la liberazione quando la madre ormai trasferita in Palestina (lei atea e di religione greco ortodossa) cerca di riannodare i rapporti: (...) Certo, quando penso a cosa significhi interrompere i rapporti tra noi, cioè non scriverci nemmeno due parole, ho una sensazione di terrore. Non riesco ad immaginare come questo sia possibile: io ti amo come prima, e forse di più, perché ora amo e rispetto in te non solo la madre ma anche la persona. Tu sei tutta la mia infanzia, tutta la conoscenza che ho del mondo: sei tutta la mia famiglia, e sopratutto sei mia madre. È per questo che mi ci è voluto tanto tempo per decidermi a scriverti: avevo paura di darti un dolore troppo forte, ma avevo paura anche per me. Ma noi rivoluzionari non abbiamo il diritto di esitare, o di aver paura. Se così è stato deciso, così deve essere.

Lo stesso fa Mimmo nei confronti del fratello Enzo (emigrato in Palestina nell'ambito di un progetto che doveva riguardare entrambi) ma disponiamo solo delle lettere di risposta di Enzo. Comunque, quando dopo la liberazione, giungerà la conferma che Enzo, attivo nella resistenza italiana, dopo diverse peripezie è stato ammazzato a Dachau, per qualche giorno la scorza di Emilio si piegherà alla commozione.

Certo con il partito le cose si sistemeranno e Sereni giocherà un ruolo importante nella fase finale della resistenza, nei primi governi De Gasperi e sino ai primi anni 60. Ma questo Sereni, studioso, appassionato di agraria e in generale di scienza, il Sereni che leggeva Poincarè a 15 anni, nel 56 si schiererà apertamente a favore dell'invasione dell'Ungheria e rimarrà per tutta la vita un silenzioso stalinista.

Nella lettura del libro mi ha particolarmente colpito la descrizione dettagliata della malattia (un cancro alla Tiroide) che nel 51 porterà Xenia alla morte passando per Roma, Mosca e Losanna. Una cosa mi ha particolarmente impressionato e consentito di chiarire quali fossero i livelli di subordinazione dell'uomo, anche del dirigente, nei confronti del partito. E' la lettera che Sereni manda alla segreteria per informare della malattia di Xenia e della opportunità di un  trasferimento in URSS nella speranza che la patria del socialismo disponga delle terapie radianti già in possesso degli americani.

Nella lettera sottolinea che Xenia conosce bene il russo e dunque durante i trattamenti terapeutici potrà comunque lavorare e conclude così: Scusatemi cari compagni, di distrarvi, in un momento così grave per la vita del Paese, con una richiesta di carattere personale. Ho sempre condotto la mia vita di Partito, credo, senza mescolarvi considerazioni del genere; e così ha fatto la mia compagna, che anche nei momenti più difficili ha sempre subordinato ogni preoccupazione personale e familiare alle necessità di lotta del Partito. So che questo non è che il dovere di ogni militante; e non farei una richiesta del genere, se non pensassi che essa è compatibile con un lavoro utile per il Partito da parte della mia compagna; mentre mi darebbe, certo, nuova forza per il mio lavoro, liberandomi dalla preoccupazione di una impotenza di fronte al male della mia compagna, che potete pensare quanto sia atroce.

Cosa dire in conclusione? E' un grande affresco della prma metà del XX secolo. Emilio Sereni era un uomo di marmo? Leggendo il libro il dubbio non si scioglie e non si capisce il processo che negli anni degli studi di agraria a Portici lo porta a rifiutare prima il sionismo e poi l'ebraismo, trasformandosi appunto in un uomo di marmo, anche se la figlia, lavorandoci per una decina d'anni ha condotto un meritevole percorso di conoscenza e di riconciliazione. Quelle che ci escono bene sono le donne.


Il gioco dei regni
Clara Sereni,
2017, Giunti Editore, prima edizione 1993 544 pag, 15 € epub 7 €


 Di Clara Sereni ho pubblicato la recensione a Via Ripetta 155




Brigate Rosse: una storia italiana – Mario Moretti (recensione)

La figura di Mario Moretti mi ha colpito, da quando si incominciò a parlare di lui; lo vedevo come l'uomo ombra, sempre presente e sempre invisibile. E' stato il grande capo delle BR, quello che ha organizzato e gestito quasi tutto sino all'inizio del declino quando, un anno dopo il sequestro Moro è lui stesso ad incominciare ad ammettere, prima con sestesso e poi con gli altri che la storia è finita.

Il mio interesse deriva dalla necessità di capire e incomincia, a dicembre del 76, quando con la morte di Walter Alasia (che avevo conosciuto nella scuola dove avevo insegnato), diventa esplicito a tutti quelli che vogliono capire che quella era una cosa nostra. Lo scrissi in un editorale sul Quotidiano dei Lavoratori apprezzato da Rossana Rossanda e attaccato sul Giornale di Montanelli (ecco le prove).

All'inizio lo pensavo solo in termini genetici nello scoprire che si trattava di persone come noi, di gente con cui avevamo fatto un percorso comune. Nel caso di Alasia la tragedia fu doppia perché i due poliziotti uccisi erano l'uno impegnato nel processo di democratizzazione degli apparati dello stato e l'altro padre di un nostro compagno.

La lunga e interessante intervista a Moretti scava invece negli aspetti di genesi politica e conferma che si tratta di una storia del tutto interna alla storia del comunismo sui fronti dell'operaismo, del leninismo, della teoria del partito, del modello della rivoluzione russa, del tentativo di dare una risposta operativo-rivoluzionaria al tradimento del PCI.

Il libro ha avuto una genesi complicata:

  • Carla Mosca si occupava professionalmente di BR (e lo si vede nella estrema precisione del processo di ricostruzione in cui le domande documentate sin nel dettaglio obbligano Moretti a rispondere),
  • Rossanda è stata la prima, sin dal 75, a parlare di scheletri nell'armadio e ad invitare a capire invece di demonizzare, a piantarla con i provocatori, gli infiltrati, i sedicenti, …

Così non è casuale che Moretti, arrestato nel 1981 decida nel 1993 di rilasciare questa intervista che, basta sfogliare, per rendersi conto che non si tratta di un istant book.

Moretti nasce a Porto San Giorgio nel 1946, arriva a MIlano dalle Marche, è un perito in telecomunicazioni che ha studiato grazie alla beneficienza della contessa Anna Casati Stampa (quella assassinata dal marito, poi suicidatosi, nel 1970), i primi tempi li passa in una delle residenze dei Casati ed è grazie ad una raccomandazione Casati che viene assunto alla Siemens. Siamo nel 1967 e sono le lotte legate alla sindacalizzazione dei tecnici che portano Moretti alla politica (gruppo di studio della Siemens, GDS) come avviene nelle fabbriche milanesi con molti tecnici (Snam, IBM, Philips) o in quelle in cui nascono i CUB (e Moretti ricorda oltre alla Pirelli, la Borletti e la Marelli).

Le proporzioni erano più o meno queste: circa quattromila donne, tutte operaie, che facevano lavoro di linea con l'eccezione di poche segretarie, e duemila uomini, quasi tutti tecnici che lavoravano nei laboratori e nei collaudi. C'era una secca divisione, anche sessuale, del lavoro. Sui tecnici il sindacato non aveva nessuna presa; ma c'era un rappresentante di Commissione Interna che era un tecnico come me, era di estrazione cattolica, aveva molta più esperienza di me che non so nulla. Diventiamo amici e decidiamo con pochissimi altri di partecipare al prossimo sciopero degli operai. E così facciamo, ma saremo in cinque tecnici su duemila. È chiaro che con il sistema tradizionale non funziona, bisogna inventare qualcosa di nuovo. Prendiamo l'iniziativa, assolutamente inedita per quel tempo, di convocare un'assemblea che dia vita a un gruppo di studio. Non caratterizzato politicamente, per conoscere i nostri problemi e parlarne. La sede ce la presta una cooperativa socialista (allora i socialisti erano una cosa quasi seria) dalle parti di San Siro. Il successo è strepitoso, vengono in tantissimi. Avevamo toccato la molla, fatto scattare meccanismi che erano maturi. Erano sempre stati gli operai a indire assemblee, stavolta eravamo noi, magari un po' razzisti o corporativi da principio. Ma andavamo incontro a qualcosa, una tendenza travolgente a mettere tutto in discussione.

Non c'è solo il GDS, nel pieno della lotta contrattuale del 69 c'è la condivisione della vita e la formazione di una comune in piazza Stuparich; all'inizio sono in 18 (inclusi mogli e figli): "potremo far politica senza diventar matti con le incombenze domestiche, e risparmieremo un sacco di soldi. A pensarci, credo che soprattutto ci tentasse un'avventura esistenziale, nella quale provavamo a ricomporre quel tanto di pubblico che stavamo vivendo insieme con quel tanto di privato che per tutti si arresta sulla porta di casa."

Leggendo il libro si l'impressione netta di avere a che fare con uno tosto, un pianificatore, un grande esperto di organizzazione ed è probabilmente questo elemento che lo porta, dopo la esperienza del Collettivo Politico Metropolitano e l'incontro con Curcio, a scalare i vertici delle neonate BR nonostante non abbia partecipato alla loro fondazione.

La prima fase è quella delle azioni dimostrative di propaganda armata intorno alla zona industriale del nord ovest milanese. Il libro parte da qui, passa alla descrizione di tutte le fasi di costruzione del partito armato (le colonne, l'esecutivo, i regolari e gli irregolari, le rapine e poi i rapimenti per l'autofinanziamento) per arrivare al delitto Moro (di cui Moretti è stato il pontefice massimo), alle fratture interne con la formazione del Partito Guerriglia (Senzani) e del Partito Comunista Combattente, al rapporto tra interni ed esterni, al mutare degli obiettivi (dalla fabbrica allo stato delle multinazionali alla scoperta della politica e della sua autonomia). Moretti sarà arrestato mentre, contravvenendo ad alcune regole sulla compartimentazione che aveva inventato e praticato per anni, si sta dedicando a ricucire i contatti per rifondare la presenza delle BR a Milano. Cade così in un incontro organizzato dalla polizia. La cosa è paradossale; è già convinto che sia tutto finito, ma si sente in qualche modo con i doveri del capo.

Rossana Rossanda nella introduzione tratteggia bene il personaggio raccontando della genesi della intervista che, nelle loro prime ipotesi doveva avvenire a partire da un documento scritto dallo stesso Moretti su cui intervenire con chiarimenti e puntualizzazioni.

Perché non stendeva egli stesso qualche parte in modo da condurre successivamente l'intervista su un primo testo? Rispose che preferiva sottoporre direttamente a due persone amiche ma non dalla sua parte il magma di memoria che aveva accumulato dentro. Se scrivessi io, disse pressappoco, verrebbe fuori una specie di manuale tutto ordinato e noiosissimo, farei tornare tutti i conti, e invece non tornano. In realtà Moretti scrive assai bene, quasi come parla, ma altra cosa è scrivere per sé o a qualcuno, e altra è incidere per così dire su pietra una vicenda che aveva parlato di sé in un linguaggio del quale egli non salva niente ma che era stato anche suo. Egli voleva, per così dire, abbracciare pietosamente quella storia e con lo stesso gesto metterla impietosamente a distanza, e la nostra presenza rendeva quasi obbligate le due operazioni. D'altra parte la sua non era una memoria placata. Nei tredici anni di carcere il percorso delle Br si era andato disponendo nella sua mente tutto attorno a una domanda: se quel che esse avevano tentato aveva avuto una possibilità, se s'era data o no una chance di andare a un rivoluzionamento o almeno a una modifica dei rapporti sociali e politici, prendendo le armi in un paese come l'Italia e negli anni '70. Era chiaro che dalla risposta veniva per lui la legittimazione politica di quella esperienza e dei suoi costi - le vite coinvolte e quelle distrutte, il dolore inflitto e patito - al di là dell'avventura esistenziale, che si può rivendicare sempre, dura ma "anche ricca" non una vicenda da "disperati". Questa domanda avanzata e ritirata, le risposte acerbe o problematiche, segnarono tutte e sei le conversazioni costituendone lo scenario e una ricorrente digressione.

Nel leggere ero interessato a capire, visto che la nascita del terrorismo la considero una responsabilità di tutti noi che abbiamo agito in quegli anni e mentre la visione del Sol dell'avvenire che ho recensito 6 anni fa mi era servita solo a ricostruire la storia di uno dei gruppi storici che fondarono le BR (quelli provenienti dalla FGCI di Reggio Emilia, il gruppo dell'appartamento, con Franceschini e Gallinari), il libro di Moretti consente di capire molte cose; vediamone alcune:

come erano

Eravamo uomini molto comuni. E sapevamo vivere tra la gente comune, è stata la nostra vera forza, il resto sono balle; ma era come se osservassimo scorrere la vita degli altri intorno a noi e non ci riguardasse per davvero. Nella clandestinità la sopravvivenza dipende dalla rapidità con cui ti muovi, con cui cambi tutto, dove abiti, dove mangi, come ti vesti. Finisce che, mentre una certa sensibilità sociale si acuisce perché impari a cogliere gli umori della gente per capire come muoverti da organizzazione armata, esistenzialmente diventi un fantasma. Non che per te stesso non sei reale; anche i compagni sono reali e i rapporti con loro hanno una intensità forse maggiore. Ma è per gli altri che non devi esistere. Stai nell'astrazione d'una lotta nella quale il più piccolo errore può avere conseguenze gravi, sei totalmente vincolato alle sue necessità, obbligato a traversare l'universo delle relazioni imponendoti di ignorarne la consistenza. Proprio come un fantasma passa attraverso i muri.

Il brano prende spunto dal tema del rapporto con il figlio, lasciato bambino quando Moretti passa in clandestinità. Mi ha colpito la fortissima solidarietà interna anche di fronte alle diversità di opinioni che possono portare ad una rottura; si discute, si ridiscute e si discute ancora e i problemi sorgono prevalentemente nel rapporto tra quelli dentro e quelli fuori, soprattutto nel momento in cui tutto sembra finito e l'unica speranza per chi sta dentro è la organizzazione della evasione (Favignana, Asinara).

la conclusione della vicenda Moro

Loro erano convinti di compiere una azione che avrebbe rotto l'asse DC PCI e contemporaneamente aperto un canale per il riconoscimento della lotta armata. Sono stupiti, il PCI è compatto, la  classe operaia e le masse popolari non pensano che si stia compiendo un atto di giustizia di classe, la DC decide di non trattare e alla fine persino Paolo VI, con il discorso agli uomini delle Brigate Rosse si allinea. Mentre in certi ambienti sono all'apice della popolarità il vertice si rende conto di essersi ficcato in un cul de sac:

Oggi potrei dire che se ci hanno obbligato a quella scelta è perché non siamo stati capaci di sottrarci ad essa. Ma in quel momento farne un'altra voleva dire chiudere con le Br, dichiarare il fallimento di una strategia nata nel '72 e liquidare l'organizzazione. Nessuno in quel momento poteva farlo. E difatti nessuno la propose sul serio, nemmeno Morucci e Faranda. Siamo a dover decidere come concludere quella battaglia e andare avanti, non come smettere e andare a casa. Quando decidiamo di eseguire la sentenza di morte c'è in noi la consapevolezza che a parure da quel momento lo scontro diventava quasi disperato. E sarebbe scivolato sul piano esclusivamente militare. Io sento questo clima di cupezza, ho il senso di una ineluttabilità. Non possiamo fare che quel che abbiamo deciso, non possiamo essere che quello che siamo... e non è bene.

Il gruppo dirigente comprende di avere sparato troppo alto e di avere perso.; c'era già stata la sconfitta sul piano sociale e ora arriva quella sul piano politico; la lucidità della analisi, si accompagna, per chi vede le cose dall'esterno con una sorta di testardaggine genetica (ormai siamo andati troppo avanti).

Sta di fatto che la sconfitta è consumata negli anni '78-79. Gli operai delle grandi fabbriche non sono più il propulsore del cambiamento, il soggetto sociale rivoluzionario ci si è trasformato sotto gli occhi. Eravamo nati per dar loro forza, offrire una loro organizzazione combattente e conquistarli ad essa - se il loro ruolo sociale si indebolisce, le nostre azioni possono forse restituirgli la forza che non hanno? Nati per sostenere un'offensiva, non siamo più niente quando quell'offensiva non può essere mantenuta. Continuiamo a combattere nelle fabbriche, facciamo azioni in continuazione, alla Fiat, all'Alfa, al Petrolchimico, all'Ansaldo, ma in quel biennio non contiamo niente(...) Questa è la vera disperazione. Non saremo più una soluzione, neanche un moltiplicatore per il movimento operaio, nell'impasse nella quale si trova. Saremo opposizione, resistenza, faremo azioni, ma non indicheremo la via per vincere. La vera sconfitta non è perdere, ma è perdere la convinzione che si possa vincere.

Ci sono poi gli aspetti di natura personale che riguardano la assunzione delle proprie responsabilità; quelle sue Moretti se le assume tutte quando, dopo aver fatto un'estremo tentativo con la famiglia che mette a rischio le regole della clandestinità:

Moro sa di essere stato condannato a morte, sa di quell'estremo tentativo, sa che non c'è stata nessuna risposta, sa che è finita. Non è stato ingannato. Gli dico solo di prepararsi perché dobbiamo uscire. Non immagini quel che uno prova, ho un bel dirmi che è una scelta politica, che è inevitabile, che l'abbiamo presa collettivamente, che non siamo noi responsabili se una mediazione non c'è stata. Il tempo dei ragionamenti è scaduto. Adesso uno deve prendere un'arma e sparare.

Nei diversi gradi di giudizio per l'omicidio materiale di Moro è sempre stato imputato e condannato Prospero Gallinari il carceriere di Moro che rimase sempre dentro l'appartamento (il terrorista silenzioso). Moretti ha per lui parole di grande affetto, (si faceva chiamare Giuseppe …) mentre si autoaccusa dell'omicidio. Gallinari è morto nel 2013 e il suo funerale diede luogo a comportamenti fuori luogo. Il finale polemizza con alcuni dissociati dalle mani pulite.

Perché Prospero ha sempre visto, come tutti noi, l'aspetto politico. E in questo quel che aggiungo ora non cambia niente. Io ne parlo per la prima volta, non l'ho mai fatto neppure con i compagni. Non è nostro costume. Ma stavolta è diverso, non mi pare onesto lasciare all'infinito un peso su altri, anche se politicamente e giudiziariamente non conta. Quando ho deciso di fare con voi questo lavoro sugli anni della lotta armata, ho deciso anche di non tacere più nulla, e prendermi le mie responsabilità senza lasciare non dico zone oscure, ma neppure ombre. I compagni dalle mani pulite... sono fortunati a cavarsela cosi. Io rispetto di più quelli che si sono presi il carico di ferire quando si era deciso di ferire, di uccidere quando si era deciso di uccidere, gesti di guerra guerreggiata, ma anche pesi che uno non si scrollerà di dosso per il resto della vita. Ed è un bene che sia così(...)

Vuoi che questa cosa non mi segnasse? Me la porto addosso, e la rivendico anche, mi appartiene al pari di tutto il resto. Se ne parla perché riguarda Moro, ma cosa credi, è stato pesante anche per gli altri sparare a via Fani. Per me è stato peggio, perché Moro lo conoscevo, avevo passato cinquantacinque giorni chiuso con lui... Gli agenti della scorta non li abbiamo mai visti in faccia. Si dice che si può tollerare la morte del nemico impersonale, chissà se è vero. Anche se è vero, non è giusto. È stata una guerra. Se fosse stato possibile, se ci fosse stato aperto uno spiraglio, avremmo risparmiato Moro. Io sono in pace con quell'uomo(...)Non ho rimpianti, non dimentico. Non dimentico che sono morti anche tanti compagni. Che io ne sia uscito vivo è un caso, avevo messo la mia morte nel conto come quella che noi davamo ad altri. Non ho mai lasciato su nessuno responsabilità che non avessi preso per me. Potrà sembrare poco, ma aiuta in una storia in cui i conti sono in rosso per tutti.

la consapevolezza della sconfitta

Sentivo una rassegnazione: abbiamo preteso tutto, è giusto che paghiamo tutto. Ci abbiamo provato fino in fondo, ci siamo presi il diritto di far la lotta armata, di compiere atti duri e complicati, era giusto che l'epilogo fosse altrettanto travagliato. Ogni parola aveva avuto il suo peso, e ne erano state dette tante, da tanti che ora facevano mostra di essere terrorizzati da un volantino marxista-leninista... quando mai un volantino aveva impaurito qualcuno. Quel che avremmo dovuto fare era rivendicare un'identità, e su quello morire come esperienza politica. Non ci siamo riusciti. Era troppo fragile la nostra generazione.

La posizione di Moretti, come fu quella di Gallinari è diversa sia da quella dei pentiti che usufruirono, in cambio della collaborazione, di notevoli benefici garantiti dalla legislazione antiterrorismo, sia da quella dei dissociati che Moretti giudica peggio dei pentiti:

Ti pesa parlarne ?
Lo vedi, riesco a farlo con più oggettività di altri. Credo che sia perché non cerco niente. Ho già fatto tredici anni di galera, penso che un'amnistia dovrebbe liberare tutti i compagni in carcere o all'estero. Ma se non ci sarà, mi farò il resto. C'è qualcosa di peggio dello stare in galera.
Che cosa è peggio ?
Perdere la propria identità, rinnegare quel che si è stati, dibattersi per apparire diversi da quel che eravamo.

Moretti è così; sto per dire una bestemmia o forse si tratta del riconoscimento della funzione rieducativa della pena, ma un po', alla fine di tutto, mi sta quasi simpatico (sicuramente molto di più dei vari Negri o Scalzone): non ti chiedo di cambiare la tua concezione del mondo, la storia non si cancella con il bianchetto ma di reinserirti in quella società che hai puntato a distruggere. E' in carcere da 37 anni, di giorno lavora all'esterno del carcere di Opera dove rientra la sera; questo è il finale del libro:


La memoria di noi non è morta. Non è neanche conservata. È esorcizzata, allontanata, deformata. Non si finisce mai con il processo Moro, tutti sanno tutto e tutti continuano a elucubrare, non vedere quel che è semplice. Tragico e semplice.

Senti, sei fuori dal mondo della gente da ventidue anni, nove clandestino e tredici in prigione. Finora hai avuto carcere e distruzione della memoria. Se un angelo cattivo ti offrisse su un piatto libertà e oblio, e su un altro carcere e memoria, che cosa prender esti ?

Non esistono angeli così perfidi, solo gli uomini propongono due modi ugualmente crudeli di morire. Comunque gli direi: dammi libertà e memoria. Se non sei capace di tanto, mio caro angelo, allora voli basso, neanche all'altezza della nostra sconfitta.


Mario Moretti & (Carla Mosca + Rossana Rossanda)

Brigate Rosse – una storia italiana

Edizioni Anabasi, Milano, 1994

Edizione Oscar Mondadori 2007 269 pag 14,50 €


 




Generazione ISIS (Olivier Roy) – recensione di Daniele Marini

Una analisi contro corrente sulla natura del terrorismo radicale di ispirazione Islamica. La tesi che Roy vuole dimostrare è che la molla che spinge iterroristi non ha alcuna natura religiosa. Piuttosto si tratta di giovani che rispondono a una spinta di tipo nichilista.

Esaminando le storie individuali di coloro che hanno partecipato all’assalto a Charlie Hebdo, al Bataclan, che han falciato la folla sul lungomare di Nizza e a Berlino, Roy mette in luce chenessuno di loro si è convertito al terrorismo jhadista partendo da una vocazione religiosa. Si tratta piuttosto di giovani che hanno vissuto la loro intera vita adottando i costumi e gli stili di tutti gli altri giovani europei. Alcuni hanno un passato di piccola criminalità e spaccio di droga, alcuni sono stati persino gestori di bar in cui i consumi di alcolici erano più che consentiti, pur essendo collocati in quartieri con abitanti a prevalenza islamica.

La conversione alla missione jihadista avviene di solito in modo improvviso, o dopo un periodo di carcerazione in cui sono stati esposti alle idee dell’integralismo salafita, o perché sono entrati in contatto con le idee in modo casuale.

La conversione si traduce rapidamente in decisione di passare all’azione, ricevendo in alcuni casi l’appoggio di sostenitori di Daesh o spesso senza alcun appoggio.

Tutte queste persone hanno una pratica di vita che non rispetta in alcun modo i principi Coranici proclamati dal Califfato, al contrario spesso son consumatori di alcool, le donne che li affiancano o che partecipano in prima persona si comportano con una indipendenza impensabile tra i sunniti integralisti. Sulla base di questa analisi Roy separa nettamente il comportamento dei giovani terroristi dalla teologia integralista islamica.

Naturalmentenon si tratta di una cesura netta, al contrario, l’ideale propagandato da Daesh diviene la motivazione che fa scattare un comportamento che ha però già in sé tutti gli elementi della radicalizzazione. Ma, si domanda Roy, da dove origina questaradicalizzazione? E la risposta che propone è molto interessante: si tratta di una seconda generazione di immigrati che cercano una risposta violenta e aggressiva al loro stato di insoddisfazione. Poiché tutta la loro vita si è svolta all’interno e in piena integrazione con i valori culturali dei lorocoetanei, è in questa cultura che Roy cerca gli elementi del radicalismo. E li trova nella mitologia dell’eroe e della missione che è chiamato a compiere per riscattare sé stesso e persino i suoi famigliari più stretti. E’ la mitologia del viaggio dell’eroe che costituisce la struttura narrativa di grandissima parte della filmografia occidentale, in particolare di Hollywood, e della struttura narrativa di innumerevoli videogiochi.

Immersi pienamente nella cultura giovanile dell’occidente, praticano sport violenti (ed alcuni di essi sfuggono al terrorismo praticando sport aggressivi in modo professionale), conducono vite del tutto comuni senza alcuna pratica religiosa, spesso piccoli criminali, che compiono una improvvisa conversione al di fuori delle comunità religiose, pur ispirandosi a una visione dell’Islam del tutto orecchiata e priva di conoscenze e letture fondate. In sintesi questi giovani non si radicalizzano perché hanno letto male dei testi di teologia o perché sono stati manipolati, sono radicali perché vogliono esserlo e nelle idee dell’Islam trovano solo una giustificazione della loro scelta.

L’attuazione delle loro azioni produce una potente messa in scena che si alimenta con la mitologia della prima conquista islamica da un lato e dalla estetica della violenza della cultura di spettacolo contemporanea. Si pensi alle decapitazionie, al sapiente uso dei media. Come può non attrarre una mente debole e portata alla ribellione radicale questa messa in scena grandiosa?

Roy avanza anche alcune analogie con il radicalismo del terrorismo di sinistra (Baader Meinhof, Brigate Rosse ecc.) che non posso qui riassumere. Mi interessa piuttosto concludere sottolineando il contributo di questo lavoro che, pur non fornendo risposte definitive, mette in luce alcuni aspetti di grande importanza.

Da un lato fa piazza pulita dei discorsi relativi alla guerra di religione o allo scontro di culture. Qui se di scontro culturale si tratta è tra la cultura occidentale e le subculture giovanili. Da un altro lato Roy suggerisce in modo molto convincente che contro questa sub cultura, a fianco della repressione e dell’intelligence, occorre operare per sconfiggerla con gli stessi strumenti di costruzione culturale.

Un aspetto che purtroppo Roy non approfondisce a sufficienza sono le relazioni e i sostegni che i giovani radicalizzati possono costruire, poiché divengono i nodi di una rete internazionale. Del resto le indagini condotte sugli autori dei fatti più drammatici hanno dimostrato l’esistenza di referenti nei vari paesi europei e hanno messo in luce il traffico di denari che ne possono sostenere l’azione. L’intreccio tra questa subcultura giovanile, gli ideali integralistici che ne incarnano la autorappresentazione e i gruppi di azione sia in Europa sia in Medio Oriente resta ancora assai complesso.


Olivier Roy è direttore di ricerca all’École des hautes études en sciences sociales (Ehess) e all’Institut d’études politiques (Iep) di Parigi. Attualmente insegna all’Istituto universitario europeo di Firenze e dirige il Programma mediterraneo presso il Robert Schuman Centre for Advanced Studies. È stato consulente del ministero degli Affari esteri francese e ha lavorato come consulente dell’Ufficio delle Nazioni Unite incaricato di coordinare i soccorsi in Afghanistan.


Olivier Roy

Generazione ISIS – Chi sono i Giovani che Scelgono il Califfato e perhé Combattono l’Occidente,

Feltrinelli, 2017, pag.128 14€