Le riforme sospese tra opposti estremismi …

e intanto si smarrisce il senso delle istituzioni

Che cosa sono le istituzioni? La risposta a questa domanda basica stenta ad emergere dalla foschia della tempesta verbale, oggi attraversata dai lampi del premierato e dell’autonomia.

Nell’immaginario collettivo, le istituzioni sono “palazzi”, “sedi”, “poteri”: il Quirinale, Montecitorio, Palazzo Madama, Palazzo Chigi, Palazzo della Consulta… Palazzi occupati e, in democrazia, occupabili e contendibili. Ma l’essenza delle istituzioni è altra.

Esse sono, innanzitutto, le regole rapprese e solidificate della convivenza civile e le reti di imbrigliamento del Potere politico, che tende per natura sua a franare sulle strade della società civile. Le regole addensano e formalizzano i costumi – l’etica storica – la morale individuale, il diritto, nella sua duplice faccia di moral suasion e physical constriction.

Sono il prodotto di un contratto sociale, che è, a sua volta, la risultante effettuale del conflitto e della cooperazione. Sono espresse nel formalismo del linguaggio giuridico, ma non perciò riducibili a formalismi o a galateo. Esse sono la forma di ogni società. Senza la quale, o la società esplode in mille conflitti o viene compressa da un potere dispotico. Gli esempi non mancano, né quelli del primo caso né quelli del secondo.

Il Nuovo Titolo V: una riforma necessaria e mal decisa

Il primo corollario logico di questo discorso è che le regole-istituzioni si definiscono insieme da parte di tutti i soggetti politici. Sulla politics e sulle policy ci si può scontrare, a lungo e ostinatamente, ma sulle regole occorre accordarsi.

Se non lo si fa, politics e policy vacillano. Naturalmente, sarebbe ingenuo ignorare che è fatale tentazione dei gruppi umani quella di proporre regole favorevoli agli interessi della propria parte.

Si sta seduti al tavolo delle regole, ma si guarda a lato, per prevedere se esse favoriranno i miei interessi o no. Tutti i soggetti seduti al tavolo sviluppano questo fisiologico approccio egoistico.

Si deve però prendere atto che nel sistema politico italiano questa fisiologia è divenuta patologia. C’è una data di inizio: l’8 Marzo 2001 il Senato ha approvato con la Legge Costituzionale n. 3/2001 la riforma del Titolo V della Costituzione – artt. 114-132 -, entrata in vigore, a seguito di referendum confermativo, l’8 novembre 2001.

La ratio della riforma era cogente da tempo: adeguare il dettato costituzionale all’istituzione delle Regioni, avvenuta vent’anni dopo il varo della Costituzione. In forza del nuovo dettato, la Repubblica non si identificava più con lo Stato, era più larga. L’art. 114 pone sullo stesso piano i Comuni, le Province, le Città metropolitane, le Regioni e lo Stato quali entità costitutive della Repubblica.

Alle Regioni è riconosciuta ampia autonomia statutaria, legislativa, organizzativa e finanziaria. È la base dottrinale dell’autonomia differenziata. Il Nuovo Titolo V muoveva dal riconoscimento che nel Paese esisteva una questione meridionale storica, ancorché irrisolta, ma che stava montando, anzi era già esplosa, anche una questione settentrionale, di cui la Lega di Bossi era l’epifenomeno e la rappresentanza politica.

Era la presa d’atto che il sistema delle Regioni, nato in ritardo, rispecchiava, senza essere riuscito a ricomporla, la frattura scomposta del Paese. Le Regioni del Nord erano – sono – in grado di governare meglio dello Stato centrale, quelle del Sud lo facevano – e continuano a farlo – sempre peggio. Devolution, deleghe, autonomia differenziata avevano e hanno un solo senso: una gara pacifica tra loro e con l’Amministrazione centrale tra chi è più capace di amministrare le risorse pubbliche date. Ottimo!

Ma tale imponente riforma è stata approvata dal solo centro-sinistra. Il quale, nel tentativo di sottrarre in extremis, come nel 1994, il federalista Bossi alle spire avvolgenti di Berlusconi, ha perpetrato uno smaccato uso/abuso politico di riforma. Da allora in avanti, prima Berlusconi e poi Renzi hanno provato a varare riforme della forma-governo, sempre per via unilaterale.

Sottoposte a referendum confermativo, ha sempre vinto il NO. Anche perché l’invenzione del referendum confermativo avente per oggetto questioni costituzionali complicate, tradotte in quesiti formulati in linguaggio astruso, non è stata felice. Così la posta in gioco finisce per essere, ogni volta, il consenso non all’oggetto del referendum ma al soggetto che lo ha proposto, cioè al governo di turno.

La politica, terra desolata

Venendo alla presente stagione e al cacofonico suon di lei, anch’essa si annuncia incapace di riforme istituzionali come le precedenti. E per le stesse ragioni. Perché il metodo adottato è quello dell’unilateralità settaria, al punto di intersezione di due arroganze: quella di chi governa, che fino a ieri si oppose strenuamente alla riforma del Titolo V e alla riforma Renzi, in nome della difesa della democrazia; quella dell’opposizione, che contesta, sempre nel nome della suddetta democrazia, le soluzioni, che a suo tempo propose con indomita arroganza.

Gli elettori assistono allibiti e disamorati a tale indecente spettacolo, mentre le curve tifose dei costituzionalisti embedded fanno la ola sui giornali e sulle TV.  Un dramma per il Paese, trasformato dai partiti in un melodramma, in cui si recitano tenzoni all’arma bianca e scorre, invece che sangue, sugo di pomodoro.

Così, chi prova a ragionare nel merito delle questioni, come Stefano Ceccanti, si becca da Travaglio l’insulto di inciuciador. E l’opposizione, con annesse Italia Viva e Calenda, chiama a raccolta oves et boves et universa pecora, allo scopo di far cadere il governo. Per salvare l’Italia. Nientedimeno! In realtà, per tentare disperatamente di accumulare macigni sulla strada del governo.

Nessuna discussione di merito. E così ai partiti di governo viene offerto un ottimo alibi per non discutere, a loro volta, dei buchi neri dei loro raffazzonati e frettolosi progetti di riforma. Ma si può dare loro torto, se le forze di opposizione non sono realmente interessate alle riforme? Giacché, se loro importasse seriamente, forse scoprirebbero che l’autonomia differenziata e, ancor di più, il federalismo regionale – cioè la responsabilità impositiva e di spesa – sono la cura della frammentazione del Paese, non la malattia; e che il premierato è la cura del perenne non-governo. Lo hanno sostenuto per anni.

Viene in mente, per analogia, quel che Salvemini diceva causticamente dei cattolici durante il periodo del Fascismo: Quando sono al potere invocano la verità, quando sono all’opposizione invocano la libertà.

Nessuna meraviglia, a questo punto, che almeno a metà del Paese questi opposti estremismi suonino alieni. Così la politica si presenta sempre di più come una waste Land, una terra desolata. E il dibattito politico? Interpellato, oggi Macbeth direbbe che è un racconto narrato da un idiota, pieno di strepiti e furore, significante niente.

 




1974-1976: la parabola di AO

III edizione giugno 2024

c’eravamo tanto amati

Il periodo che mi vide operare dentro il gruppo dirigente di una organizzazione della sinistra rivoluzionaria è il più difficile da raccontare perché, da allora, sono cambiato molto ed è stata la riflessione su quella esperienza a determinare la radicalità del mio cambiamento: non più rivoluzionario, non più comunista, non più fiducioso (come una volta) nella possibilità che le cose si possano cambiare attraverso l’impegno nella lotta politica.

Penso che siano necessari impegni di altro genere sul fronte educativo e della testimonianza e che comunque il pedale su cui spingere non sia quello della lotta di classe.

Perché se è vero che le classi sociali esistono e influenzano il procedere della storia, non è vero che esista una classe destinata a svolgere un ruolo palingenetico (il proletariato industriale) ed è discutibile, alla luce dei mutamenti sopravvenuti nel modo di produrre e di consumare nella parte finale del XX secolo e nei primi decenni del XXI, che in estensione e consapevolezza si possa continuare a parlarne come di una classe sociale.

Mi sono ritrovato ad essere più attento ai cambiamenti che vengono da lontano, che procedono lentamente e che determinano le scelte importanti nella vita nelle persone, come quelli che si determinano nella scuola. Cosa farò da grande? Qual è il mio stile di vita? Cosa penso  dei rapporti tra le persone? Per cosa vale la pena di impegnarsi?

Nel giro di pochi mesi, dall’estate del 76 ai primi mesi del 77 ho vissuto  una trasformazione molecolare molto profonda che non ha riguardato solo la politica e non principalmente la politica. Ho cambiato stile e modo di vita; sono molto più solitario e disincantato di un tempo, ho bisogno del rapporto fisico con la naturalità (dai boschi, ai fiumi, alla autoproduzione agricola; sono sempre una persona appassionata e disposta a giocarsi per le cose per cui vale la pena di vivere. Sono disincanto nei confronti di tutti i miti, ma dico sì agli ideali.

Marciavamo con l’anima in spalla nelle tenebre lassù
ma la lotta per la nostra libertà il cammino ci illuminerà.
Non sapevo qual era il tuo nome, neanche il mio potevo dir
il tuo nome di battaglia era Pinìn e io ero Sandokan.
Eravam tutti pronti a morire ma della morte noi mai parlavam,
parlavamo del futuro, se il destino ci allontana
il ricordo di quei giorni sempre uniti ci terrà.
Mi ricordo che poi venne l’alba, e poi qualche cosa di colpo cambiò,
il domani era venuto e la notte era passata,
c’era il sole su nel cielo sorto nella libertà.

Sono i versi della canzone di Armando Trovajoli che fa da tormentone a c’eravamo tanto amati di Ettore Scola (la trovate su Youtube). Il film me lo sono rivisto e mi ha dato la forza per terminare il pezzo della autobiografia più difficile da scrivere (insieme a quello sulla storia di mio padre), quello del c’eravamo tanto amati.

Chi siamo stati:  Gianni, Antonio o Nicola? Il marpione, il proletario dalla fede indistruttibile o l’intellettuale sognatore, o forse tutti e tre insieme? Sentiamo cosa dicono:


– Gianni: Certo che la nostra generazione ha fatto proprio schifo.
– Nicola: Piuttosto che inseguire un’improbabile felicità è meglio preparare qualche piacevole ricordo per il futuro.
– Antonio: Quando si rischia la vita con qualcuno ci rimani sempre attaccato come se il pericolo non fosse passato mai.
– Nicola: Credevamo di cambiare il mondo invece il mondo ha cambiato a noi.
– Antonio: 306 seggi [della DC], e chi se lo poteva immaginare?
Gianni: Ti devo dire una cosa.
– Antonio: E che me vòi di’, lo so! Abbiamo sottovalutato un sacco di fattori che hanno concorso a mettercelo nel chiccherone: i soldi americani, la paura di Stalin, i preti, le monache, le madonne piangenti, la paura dell’inferno…
Gianni: Io e Luciana ci vogliamo bene. È questo che ti volevo dire.
– Antonio: Ci vogliamo bene… in… che senso?
Gianni: Ci amiamo

le cose positive che abbiamo fatto o che abbiamo contribuito a fare

Il giudizio positivo che dò su quel periodo non riguarda la sola Avanguardia Operaia, ma tutti i movimenti e le organizzazioni che, dal 68 al 75, riuscirono a determinare innovazioni e trasformazioni sul piano del costume, un riassestamento dei rapporti sociali a favore dei meno agiati, mutamenti nella legislazione e nelle istituzioni, cambiamenti nella Chiesa Cattolica e un generale spostamento a sinistra nel paese. Pensate a Pio XII e confrontatelo con Papa Francesco per farvi un’idea di come è cambiato il mondo.

Penso alla fine dell’autoritarismo che governava le piccole e grandi istituzioni (dalla famiglia all’esercito), al contratto dei metalmeccanici del 69 cui seguirono, in rapida successione, quelli delle altre categorie, alla affermazione dei diritti nelle fabbriche e nelle scuole, alle trasformazioni nella magistratura, alla abolizione dei manicomi, alla trasformazione delle carceri, alla democratizzazione nell’esercito e nei corpi di polizia, alla crisi del sindacalismo autonomo a favore di quello confederale, alla forte spinta verso l’unità sindacale, alla tutela della donna.  Tutte queste trasformazioni sono state opera nostra anche se, ovviamente, non solo nostra. E dunque le affermo con l’orgoglio se non del protagonosta, almeno del comprimario.

Tutto è iniziato da un processo generale e generazionale che ha riguardato l’intero mondo occidentale e i paesi dell’est; poi c’è stata una particolarità italiana dentro la quale abbiamo operato noi che, dopo il 68, facemmo la scelta di andare nei gruppi.

I senzaMao e la lotta rivoluzionaria per le riforme

Il libro che Silverio Corvisieri ha scritto sul finire del 1976 quando ha lasciato Avanguardia Operaia da sinistra per poi approdare, come molti di noi, al PCI – io almeno me ne sono andato dalla parte giusta che era quella della difesa delle istituzioni democratiche

Ho provato a rileggere alcuni dei documenti di allora e mi riesce difficile farlo perché rimango sùbito colpito sfavorevolmente dalla astrattezza di certe problematiche, del volersi ad ogni costo ritagliare un ruolo che in realtà non avevamo.

Ho riletto con attenzione I senzaMao del mio direttore al Quotidiano dei Lavoratori, Silverio Corvisieri, soffermandomi in particolare sul suo intervento al IV congresso di Avanguardia Operaia, quello della trasformazione di AO in un partito, anche se allora era vietato chiamarlo così.

Silverio ha il pregio della brillantezza giornalistica anche quando tratta di cose pesanti come le disquisizioni intorno al centralismo democratico, al rapporto tra il partito e le masse, alla definizione di proletariato nel contesto dell’Italia degli anni 70. Ma non mi ci ritrovo per niente sul piano razionale; allora non mi ci ritrovavo senza capire bene il perché; avevo l’impressione che ci fossero delle forzature.

Il titolo, I senzaMao, deriva dal fatto che in quell’anno (il 1976) dopo la botta delle elezioni politiche (a giugno) ci fu la morte di Mao (a settembre) ad accrescere il disorientamento. Il vento dell’est aveva smesso di soffiare e noi, presto, saremmo stati in balia di quei matti della autonomia e dei terroristi conseguenti.

Per converso Silverio mi ha fatto tornare alla mente il tema della lotta rivoluzionaria per le riforme, una definizione di comodo che avevamo inventato per spiegare che eravamo per la rivoluzione socialista ma che, nel contesto dato, non era pensabile ragionare in termini di insurrezione.

Avevamo il doppio problema di smarcarci dagli spontaneisti del tutto e subito e, contemporaneamente, dire che non ci piacevano, perché troppo istituzionali e codiste, le posizioni di quelli del giro del Manifesto-PDUP, i togliattiani di sinistra impegnati nel tentare di spostare a sinistra il partito comunista.

Mi pare emblematico che si tratti di una questione che non interessa più a nessuno, a differenza dell’ottenimento di risultati di trasformazione degli assetti istituzionali. Anche io rimasi affascinato dalla idea di fare la rivoluzione attraverso le riforme leggendo nell’estate del 68 un libro di Andreè Gorz, il socialismo difficile. Gorz era il vicedirettore di Les Temps Modernes, la rivista di Sartre. Ne ho parlato nel capitolo dedicato al 68 e ci ritorno sopra volentieri.

Quella di Gorz era la corrente dei riformisti rivoluzionari. I riformisti rivoluzionari rifiutavano l’esperienza del socialismo reale e vedevano in un movimento di massa in grado di imporre riforme strutturali il nuovo modo di arrivare al socialismo nei paesi dell’Occidente. In Italia, il maggiore esponente di questa linea di pensiero era Bruno Trentin (insieme a Lelio Basso) e si trattava di una delle tante correnti di pensiero di matrice luxembourghiana che giravano per l’Europa.

Quel libro lo discussi passo dopo passo con Oskian e Claudia Sorlini che ne criticavano la insufficienza in nome del leninismo e, alla fine di quelle discussioni, decisi di entrare in AO: vi trovai belle persone, alcune con una storia antica dentro il PCI, altre emergenti come Oskian o Randazzo, tutte decise a rifondare il comunismo passando da Lenin ma senza fare sconti all’URSS.

la crisi nel gruppo dirigente

La seconda fase del mio impegno in AO, a partire dal 73, con una serie progressiva di promozioni e crescenti assunzioni di responsabilità fu caratterizzato da due elementi:

  • bisognava crescere e rafforzarci perché, se i tempi della rivoluzione non dipendevano da noi, dipendeva da noi il fatto di arrivarci avendo risolto il problema della guida del processo rivoluzionario. Far emergere il partito attraverso un processo di scomposizioni e ricomposizioni nel quale AO, pur non essendo l’embrione di tale partito, doveva giocare un ruolo principale
  • stavamo trasformandoci da gruppo semilocale, a Organizzazione Nazionale, a un simil-partito e ciò comportava un rafforzamento dell’impegno, il non farsi troppe domande, stringere i denti e puntare ad allargarci; accettare di essere inviati in giro per l’Italia a gettare il seme, cedere i propri beni materiali alla organizzazione, rinunciare alla professione post laurea nel caso dei quadri del movimento di scienze.

E’ questa la ragione per la quale, comportandomi come uno stronzo, lasciai passare senza muovere un dito un episodio come la radiazione/espulsione di Maurizio Bertasi, Flavio Crippa e Pietro Spotti (rei di lesa maestà per aver osato mettere in discussione le decisioni del segretario politico e della supersegretria che lo contornava). Alla stessa stregua considerai accettabile la non spiegazione circa l’auto-allontanamento dal giornale di Silverio Corvisieri. Il fondatore del giornale se ne andava, non salutava nemmeno la redazione; c’era qualche problema ma non era il caso di parlarne: passo fermo e sguardo in avanti verso il sol dell’avvenire.

Dopo la pubblicazione della prima versione di questa autobiografia ho ricevuto numerose testimonianze relative al Comitato Centrale della espulsione-radiazione cui non partecipai perchè c’era da confezonare il Quotidiano. Non fui presente al Comitato Centrale ma lo fui alla riunione precedente della segretria estesa ai membri del C.C. milanesi. Ho letto il verbale che ne fece Umberto Tartari. I tre che espongono i loro dati; Oskian e Vinci che li contestano e noi tutti zitti.

Molti compagni che presenziarono al successivo Comitato Centrale descrivono un clima pesante, il non trovarsi d’accordo ma avere paura di parlare, per finire con le richieste di autocritica a quei pochi che osarono dire qualcosa.

Non c’era tempo, bisognava fare e così si finiva per non fare domande e nemmeno farsele. Per esempio dalla lettura dei senzaMao vedo che nella decisione di Silverio di lasciare il giornale e tornare a Roma c’erano sia elementi di logoramento personale, sia l’emergere di preoccupazioni politiche per il processo che ci stava facendo avvicinare al PDUP e allontanare da Lotta Continua. Probabilmente il pezzo su Gioia di Vivere e Lotta di Classe fu il suo modo di lanciare un sasso.

Apparentemente tutto filava liscio ma il fuoco covava sotto la cenere e un pomeriggio, in una riunione di segreteria nazionale, Luigi Vinci richiese a freddo le dimissioni del segretario nazionale Aurelio Campi accusandolo di gestione padronale del partito. Non ricordo se fosse la fine del 75 o l’inizio del 76 ma il fatto è di poco successivo all’allontanamento di Silverio dal Quotidiano. Era l’inizio di una storia durata all’incirca un anno in cui i due principali contendenti alternarono bordate, punture di spillo e giravolte strumentali.

Ho vissuto l’attacco ad Oskian come una autentica pugnalata tirata a freddo. In realtà c’era parecchio malessere nei confronti di Oskian per il suo decisionismo che molto spesso si trasformava in autoritarismo e a ciò si sommava il timore che stesse progettando una fusione-confluenza con la componente comunista (non psiuppina) del Pdup.

Mi sono poi reso conto, dalle successive dinamiche in Ufficio Politico, che si trattava di un atto preparato con cura da Luigi Vinci (che controllava l’apparato e l’organizzazione), in accordo con molti segretari regionali. Così Avanguardia Operaia, in un momento in cui sarebbe servito il massimo di iniziativa politica e di unità interna, sia prima, sia dopo le elezioni del 76, fu invece vittima di una crisi al vertice tenuta lungamente segreta, ma che non le fece certamente bene.

In quei mesi mi resi conto frequentando i gruppi dirigenti di AO e del PDUP di quanto pesassero le miserie personali nel determinare le scelte politiche e quello fu il primo disvelamento del fatto che non basta credere nel comunismo e appellarsi ad esso per essere all’altezza del compito.

Con il IV congresso dell’ottobre 74 Avanguardia Operaia fece uno sforzo per guardare lontano, stare dentro i movimenti sociali ma, contemporaneamente, cercare di costruire una analisi della società italiana che facesse i conti con le caratteristiche dei due blocchi sociali che riscuotevano il consenso della gran massa degli italiani: il blocco intorno alla DC e quello intorno al Partito Comunista.

Ma una parte del gruppo dirigente storico guardò a quel tentativo con sospetto, come una forma di liquidazionismo. Se devo fare un paragone un po’ forte, ma che aiuta a capire, nel momento in cui avevamo bisogno di Gramsci AO si rifugiò nelle braccia di Bordiga travestito da Lenin.

Il Comitato Centrale, con oltre 100 compagni, tutti con una storia di militanza importante, tutti dotati di esperienza politica, faticava a capire, anche perchè le divergenze reali non venivano palesate, se ne discuteva nei corridoi, in parte in Ufficio politico, ma mai in maniera esplicita. Vinci e Campi un giorno si davano ragione, ma appena temevano che dietro l’unità ci fosse lo zampino del diavolo, rovesciavano il tavolo.

Fu così, nella incapacità di capire cosa era era successo con il risultato delle elezioni di giugno (straordinario balzo in avanti del PCI, tenuta della DC, misero risultato della sinistra rivoluzionaria) che si produsse lo sgretolamento, dapprima lento e poi clamoroso delle tre organizzazioni principali della sinistra rivoluzionaria; AO, LC e il PDUP seguite subito dopo dal MLS.

Nessuna di esse era riuscita ad essere una alternativa a quei blocchi di consenso politico ed ora crollavano stritolate da un lato dal PCI e dall’altro lato dai movimenti della autonomia e dal terrorismo.

la mia reazione

Disgustato da come si svolse la discussione intrecciata tra il risultato deludente delle elezioni politiche e la prospettiva di unire o meno Avanguardia Operaia e il Pdup, decisi di andarmene e nei primi giorni di luglio 76 preparai anche un poderoso documento politico di dimissioni dalla organizzazione a cui avevo dato tanto.

La manchette che apriva il lungo articolo in tre puntate in cui decisi che era ora di finirla con le chiacchiere da convento di clausura

Da qualche mese avevo iniziato a studiare le parti di teoria politica dei Quaderni dal carcere di Gramsci (in particolare le Note sul Macchiavelli) e mi rendevo conto che c’era un vuoto da colmare tra le intuizioni di Gramsci sulla democrazia, sul socialismo, sulla politica, sul blocco storico, sul ruolo della chiesa cattolica, sulla lotta culturale per la egemonia e il nostro appello al leninismo.

Il leninismo si era inverato in una realtà profondamente diversa da quella italiana e per di più, o forse per quello, aveva avuto una deriva fallimentare in cui il giacobinismo della prima ora si era ben presto trasfornato in autoritarismo e poi in una forma di totalitarismo burocratico in grado di garantire solo la propria sopravvivenza (com qualche milione di vittime).

Nel mese di luglio (mentre ero in ferie dal giornale) mi incontrai con Oskian e Claudia Sorlini per informarli della mia decisione di andarmene da una organizzazione che non aveva il coraggio di discutere a viso aperto. Oskian, che in quel momento non era più segretario politico, ma coordinatore di una segreteria collegiale che aveva il compito di preparare le tesi per il V congresso, mi convinse a rimanere promettendomi che si sarebbe aperta la battaglia politica e non quella personale.

Misi da parte il documento di dimissioni (che è rimasto chissa dove in una agenda e si è perso con lei) e nei primi giorni di agosto pubblicai in tre puntate, sul quotidiano, un lungo articolo dedicato alle prospettive che ci stavano di fronte e a quella che secondo me poteva essere la strada per uscirne. Lo trovate qui “perché ho votato contro al Comitato Centrale“.

Di questioni politiche ce ne sono dentro molte e ciò che mi ha colpito è l’insistenza sulla necessità di una riflessione teorico politica di grande respiro, insieme a problematiche di tipo minore che, con gli occhi di oggi, mi fanno sorridere.

A settembre, al rientro dalle ferie dei dirigenti, mi aspettavo una discussione politica (e come si vede dalla D di dibattito nella manchette, pensavo di farlo sul giornale); invece fui processato in Ufficio Politico per aver infranto il Centralismo Democratico e mi venne messo al fianco, in funzione di controllo, Vittorio Borelli, trasferito da Verona e del tutto digiuno di giornalismo.

In redazione non la prendemmo bene, anche perché, come si vede dalla lettura del testo, si trattava di un contributo politico del tutto legittimo nell’ambito della discussione su come arrivare al V congresso di AO.

Le congiure di palazzo e le manovre di corridoio continuavano da entrambe le parti. Non me la sentii di continuare con l’ottimismo della volontà e ai prmi di ottobre decisi che era meglio andarmene e tornare al lavoro minuto, ma importante, di docente. Rimisi il naso in redazione una volta sola quando ci fu lo scontro a fuoco (di cui ho parlato nel pezzo dedicato agli anni del QdL) in cui morirono Walter Alasia e due funzionari di polizia.

un cambiamento profondo

L’esplosione del terrorismo e la violenza dei movimenti della autonomia mi convinsero della necessità di seguire altre strade e lavorare più in profondità. Non abbandonai la passione politica, ma abbandonai l’idea della politica al primo posto, quella del rivoluzionario di professione che sarebbe meglio chiamare uomo ad una dimensione.

Non fu una decisione immediata, ma progressiva. Ricordo che, nei primi mesi del 77, alla assemblea in cui la destra di AO decise di andarsene e aderire al PDUP partecipai, ma mi sentivo ormai un osservatore esterno e non un protagonista. Non ricordo nulla dell’incontro residenziale che si tenne a Rocca di Papa; alcuni amici che proseguirono in quel percorso mi dicono che feci un intervento importante ma non mi è rimasto nemmeno il ricordo. Mi ritrovavo con tante persone a cui volevo bene ma che stavano per intraprendere un ennesimo tentativo volontaristico.

La parabola di AO si era visibilmente chiusa anche se la maggioranza ottenne risultati tra il 70 e l’80%; altri tentarono di fare DP e in quel periodo mi resi conto della drammaticità della situazione.

Il terrorismo cresceva, faceva le rapine, gli autonomi erano alla ricerca dello scontro per lo scontro, la popolarità delle BR nel brodo di coltura della autonomia operaia cresceva, iniziavano gli omicidi e i miei ex compagni continuavano a fare i distinguo come nello slogan infelice nè con lo stato nè con le BR, come se lo stato democratico, le BR e prima Linea, si potessero mettere sullo stesso piano.

Tutti quei tentativi, per quanto generosi, che avevano caratterizzato la mia vita nella prima metà degli anni 70, per quanto animati da persone appassionate, sul piano della soggettività, finirono nel nulla. Non fu così, come ho detto all’inizio, per le trasformazioni che si determinarono nella società e negli assetti istituzionali. L’Italia era cambiata in meglio e noi avevamo fatto la nostra parte.

In questi anni, molti di quei compagni che hanno fatto parte di quel gruppo dirigente sono venuti a mancare e li voglio ricordare, al di là dei dissensi e della diversità di percorso: Marco Pezzi di Faenza, il primo a morire; Attilio Mangano, Umberto Tartari, Severino Cesari, Franco Calamida, Vittorio Rieser, Massimo Gorla, Pietro Spotti, per restare a quelli che conoscevo direttamente.


La pagina con l’indice della mia autobiografia da cui potete scegliere i capitoli da leggere


I commenti dei compagni di allora sono benvenuti e, perché ne rimanga traccia, vi prego di metterli sotto l’articolo e non sulla grande cloaca di Facebook. Già, per effetto delle precedenti edizioni, ce ne sono un certo numero.

Questo è il breve commento con cui ho accompagnato il link su FB

C’eravamo tanto amati … e poi il “giocattolo” si è rotto, il mondo è cambiato e ciascuno di noi ha fatto le sue scelte.
Verso quelle persone con cui ad un certo punto si determinò una rottura conservo un grande senso di simpatia e negli anni tutte le spigolosità sono sparite e voglio bene a tutti loro. Qualcuno con orgoglio dice “volevamo cambiare il mondo, non ci siamo riusciti, ma il mondo non ha cambiato noi”. Detta così non la condivido perchè vivere vuol dire essere disposti a cambiare e ad accettare il cambiamento. La nostra vita, la vita di tutti è bella perché è caratterizzata dal mutamento.



Perché la sinistra ha perso gli operai

Gli Istituti di ricerca che analizzano i flussi elettorali documentano, in modo convergente, il passaggio a destra degli operai. In Italia, in Francia, in Germania, in Spagna operai hanno votato in misura crescente i partiti di estrema destra.

Il fenomeno non è nuovo. Ma oggi è una frana. Dario Di Vico in un articolo del Corriere della Sera, intitolato “Il robot non si iscrive al sindacato e il voto dei perdenti finisce a destra”, riporta uno studio dell’Università Bocconi sugli effetti che gli shock dell’automazione e della globalizzazione hanno sui tassi di sindacalizzazione.

Più alti, al 30% di sindacalizzazione, stanno i dipendenti dell’Istruzione, poi viene la Pubblica amministrazione, più sotto Trasporto, magazzinaggio, comunicazioni. Al quarto posto gli addetti alla Manifattura attorno al 15%. Il venir meno dell’intermediazione sindacale sembra preparare le condizioni per il passaggio all’intermediazione politica di destra estrema.

Quale spiegazione?

Ciò che è accaduto accade a livello economico-sociale è noto: la formidabile trasformazione tecnologica della produzione ha frammentato e sempre più sostituito il lavoro umano, la globalizzazione ha bucato i confini tra Stati, culture, identità storiche, istituzioni, generando inestricabili interdipendenze sociali e culturali.

I cambiamenti hanno cause oltreconfine, le istituzioni per governarli restano al di qua del confine. L’economia è globale, gli Stati e la politica restano nazionali, le vite reali delle persone sono “locali”. Donde lo scarto e l’ingovernabilità mondiale, di cui il disordine geopolitico mondiale è effetto e causa.

Fin qui i fatti.

L’Io minimo di Lasch

A questo punto, i singoli individui – giovani, operai, pensionati… – sono costretti a rifugiarsi nell’ “Io minimo”. Il sociologo americano lo ha descritto nel 1984 in “The Minimal Self: Psychic Survival in Troubled Times” (tradotto “L’Io minimo e la sopravvivenza psichica in tempi difficili”): “Con l’accentuarsi della percezione dello sradicamento l’Io si contrae, si riduce a un nucleo difensivo armato contro le avversità. Diventa un’individualità che non è né “sovrana” né “narcisistica”, bensì “assediata”. Donde “la deificazione della mera sopravvivenza”, citando dal filosofo americano William James. Di fronte alle potenze della Storia, a ciascuno resta solo la strada del bricolage quotidiano individuale.

Quarant’anni dopo, questa analisi profetica aiuta a comprendere la nostra condizione esistenziale qui in Occidente e anche a capire i flussi elettorali.

La nuova sinistra della distribuzione, dei diritti, del “Green”

Nella risposta a questa condizione sono mutate la “sinistra” e la “destra”. La sinistra fino agli anni ’80 proponeva agli operai di fabbrica il mito della “funzione nazionale della classe operaia”.

Era la traslazione della “dittatura del proletariato” in un contesto liberal-democratico. Dentro stava un nocciolo razionale: la produzione – e la sua componente decisiva il lavoro – è il motore della civilizzazione umana e della Storia.

Perciò gli operai, comunque differenziati per funzioni tecniche nella produzione e comunque “sfruttati”, avevano una missione storica e universale. Il sindacato difendeva gli interessi immediati, il partito forniva loro l’orizzonte di senso: gli operai diventavano “una classe”, il cui compito era sviluppare la civiltà e redimersi dall’alienazione nel presente, fino a diventare “padroni” del processo produttivo. L’operaio realizzava la sua umanità nel lavoro.

Solo che i cambiamenti tecnologici, la deindustrializzazione e il suicidio industriale del nostro Paese hanno mandato in frantumi la base sociale di quel mito. La produzione esiste sempre, ma i suoi agenti si sono tecnicamente e socialmente differenziati. E la sinistra ne ha tratto una conclusione più larga delle premesse: ha abbandonato l’idea seminale di Marx del ruolo della produzione e del lavoro nella storia umana.

È paradossale, o forse no, che questa idea sia stata invece rilanciata nell’Enciclica “Laborem exercens” di Giovanni Paolo II del 14 settembre 1981, a sostegno di Solidarnosc: il lavoro come continuazione dell’atto creativo di Dio. Al posto della “produzione” la sinistra ha messo “la distribuzione”, via-Welfare e via-servizi. Le statistiche sugli addetti sindacalizzati lo rivelano.

E al posto dell’internazionalismo del Movimento operaio ha teorizzato quello dei diritti e quello “Green”. Esaurita la riserva escatologica dei “domani che cantano”, si è buttata con rinnovato accanimento ideologico su questo nuovo mood, tra LGBTQ+ e Green, senza fare i conti con il presente socio-economico in faticosa e pericolosa transizione. Benedetto Croce li chiamerebbe “energumeni del nuovo”.

Il populismo dell’Io arrabbiato e la nuova destra

Se la Sinistra ha preso le parti dell’Io narciso, dell’Io sovrano, la Destra quelle dell’Io assediato e arrabbiato. Non più la destra conservatrice del “padrone delle ferriere” – in Italia comunque debole – bensì quella del territorio, dell’identità, dell’Io assediato, dell’Io in cerca di un rifugio nella comunità locale e nazionale.

Queste metamorfosi socio-politiche hanno generato un movimento populista reale – il M5S – che si autointerpreta come non di destra e come non di sinistra. La sua ideologia tenta di tenere abbracciati  l’Io narcisista, l’Io sovrano e l’Io arrabbiato.

Ne risulta, sul piano del sistema politico, un bipolarismo degli estremi, che peraltro, come fa notare Nando Pagnoncelli, si divide solo il 25% degli elettori a testa. Il 50% degli “Io minimo” se ne sta alla larga. Si tratta di un bipolarismo del reciproco assedio e della reciproca delegittimazione.

Questo bipolarismo intensamente ideologico, in complicità con il populismo residuo, fragilizza le basi culturali della democrazia, perché distorce il dibattito pubblico, piegandolo costantemente alle esigenze della propaganda sempre antagonista. Lo si vede sui temi del premierato, dell’autonomia differenziata e su ogni altro possibile.

Pericle e i partiti

Scriveva C. Lasch: “Non saranno né Narciso né Prometeo a guidarci fuori dalla condizione in cui ci troviamo”. Vero! Occorrerebbe un Pericle paziente, capace di ritessere le forme organizzate della conversazione pubblica e della decisione democratica.

Queste forme portano il nome di “partito”. Benché culturalmente svuotati, assai spesso ridotti a sette adoratrici del leader eventualmente carismatico, i partiti non hanno perduto la presa ferrea sulle istituzioni. Esattamente in continuità con la tanto deprecata Prima repubblica e con la Seconda. Ricostruirli come ambiti socio-culturali, in cui i cittadini si associano liberamente “per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” è la più urgente delle riforme istituzionali, condizione di ogni altra, istituzionale e non.




elezioni Europa

Il quadro in Europa nel suo complesso evidenzia un leggero spostamento a destra. Il PPE cresce di 8 seggi e va a 184, la socialdemocrazia è stabile con 139, calano i liberali (-23) per le sconfitte in Francia, Spagna e Italia e vanno a 79, perdono i verdi (-19) con 52, crescono i due gruppi di destra (+ 9 e +4) con 73 e 58.

Non dimentichiamo che si è votato in 27 paesi con storie, culture, problematiche diverse che determinano risultati tra loro contradditori (gli scandinavbi sono molto diversi dai polacchi e questi dagli slovacchi).

Dal punto di vista numerico ci sono tutte le condizioni per riconfermare la coalizione Ursula ma ci sono problemi politici grossi che riguardano le ripercussioni interne su Germania e Francia. In puro sile presidenzialista e repubblicano, Macron ha sciolto il Parlamento dicendo ai francesi scegliete il governo che preferite, anche se la costituzione francese mette comunque il presidente in una posizione di forza per i prossimi anni.

La sperata svolta che potesse indurre una spinta in avanti dell’Europa non c’è stata e sarà un avanti piano con Judicio altro che Stati Uniti d’Europa.

Sono contento per il risultato del PD e di quello (opposto) dei 5 Stelle. Il PD tiene e avanza su un messaggio semplice (ma debole) per gli elettori: noi teniamo duro e diciamo questo no, questo no, … La sinistra, con Ilaria Salis, ha fatto il botto (ben per loro e bene per Ilaria). I sondaggi degli ultimi mesi, come al solito, hanno visto in maniera strabica.

Detto ciò due paroline su Italia Viva (3.7 %), che ho votato, e su Azione (3.3%). Mi pare che il progetto, in mano alla coppia più bella del mondo, sia finito in maniera definitiva ed è bene che se ne vadano a casa al più presto. Se le realtà locali saranno in grado di ricostruire un progetto bene; se no, fine della storia. Il centro del centro sinistra ha un bacino potenziale del 10%. Quel bacino è’ stato mandato al macero e mi aspetto qualcosa di simile anche per Firenze con lo spoglio che inizia oggi pomeriggio; Stefania Saccardi appare molto, molto, molto lontana dal ballottaggio.




il bivio dell’Europa

Nella campagna elettorale, ormai agli sgoccioli, per il Parlamento europeo, la più sguaiata di tutte quelle finora svolte e la più drammatica per le condizioni geopolitiche in cui accade, è stato difficile per gli elettori capire quali fossero le posizioni dei partiti rispetto alla questione fondamentale: quale destino per quell’entità storico-culturale e spirituale che è l’Europa? Quale assetto politico-istituzionale necessario per l’Unione europea? I leader di partito – in particolare dei partiti maggiori – si sono cimentati in squallide baruffe pseudo-identitarie.

L’effetto prevedibile? Il disinteresse, la fuga, l’astensione degli elettori. Tanto meglio per i partiti. Se vanno al voto i fidelizzati e gli incerti stanno lontani dalle urne, allora la gara è tra tavole di valori. E le culture politiche e i programmi in cui i valori si incarnano? C’è il rischio che siano troppo “unitivi”.

Tuttavia, in questa nebbia di propagande, confuse e reticenti, occorre riconoscere a due partiti minori – Lega Salvini e Stati Uniti d’Europa (+Europa, Italia viva, Radicali, Psi, Volt, Libdem) – il merito di aver proposto con chiarezza il bivio che la UE e i suoi  elettori devono affrontare: “Più Europa o Meno Europa?”.

Perché “Meno Europa”?

È divenuta egemone, in questi anni, una narrativa, secondo la quale la UE è diventata un Moloch burocratico oppressivo per le sovranità nazionali, uno strumento di prepotenza dei Paesi nordici e – antica versione di sinistra – catena di trasmissione del dominio capitalistico americano.

La UE minaccia i nostri interessi nazionali. Perciò bisogna tornare indietro sulla strada dell’integrazione europea. E per essere coerenti fino in fondo, bisognerebbe uscire dall’Euro. La “sovranità europea” è una bestemmia e se il Presidente Mattarella la pronuncia, Salvini chiede che si dimetta. Questa è l’ultima “salvinaggine” ignorante dei Trattati e dell’art. 11 della Costituzione. NdR. il neutrale correttore automatico di Google propone di sostituire il neologismo con asinaggine!.

Tuttavia, è vero che l’architettura istituzionale europea è sbilenca, che la separazione dei poteri e i loro check and balance sono incerti. Come ha osservato con una battuta G. Amato: Montesquieu non si è mai visto a Bruxelles.

Il fatto è che le istituzioni europee sono il risultato di un lungo bricolage istituzionale, avviato con i Trattati di Roma del 1957, che ha sovrapposto gli organismi, tentando di conciliare le pretese delle sovranità nazionali con il livello sovranazionale. Questa struttura istituzionale barocca non è la causa, ma l’effetto di un assetto politico intergovernativo e confederale, regolato dai Trattati, senza una Costituzione europea, e fondato sul principio di unanimità per le decisioni strategiche. Al punto che l’abolizione del principio di unanimità deve essere decisa all’unanimità. La risultante è la paralisi.

A questo punto, la via più semplice appare essere la rinazionalizzazione delle strutture istituzionali e politiche. Se di fronte alle sfide del momento quali la guerra, l’immigrazione, la concorrenza americana e cinese, il clima, l’Intelligenza Artificiale, il potere “sovrannazionale” europeo è muto e impotente, tanto vale che si torni ai rapporti bilaterali.

C’è anche una seconda narrativa liberale, a-sovranista. Poiché la storia europea è una storia di frammentazione, almeno dalla caduta dell’Impero romano, e di sangue, dalle guerre di religione del ‘500, alla Guerra dei Trent’anni fino alle ultime due guerre mondiali, non esiste un “popolo europeo”. Perciò è impossibile costruire un Stato-nazione europeo. L’unico assetto possibile è quello intergovernativo e confederale. È già molto. Teniamocelo stretto e procediamo prudentemente sulla “Via dei Trattati”, senza europeismi escatologici, applicando il principio di sussidiarietà ogni volta possibile.

Perché “Più Europa”?

Chi propone “Più Europa” muove dal contesto geopolitico attuale. Il ciclo storico della pace in Europa, che datava dal maggio del 1945, è finito bruscamente il 24 febbraio 2022 con l’aggressione russa dell’Ucraina.

E questa guerra ha facilitato il pogrom di Hamas e l’accensione di un focolaio di guerra in Medioriente. La storia europea ha fatto un salto drammatico. Benché le minacce nucleari di Putin servano a spaventare solo i pusilli, a quanto pare con successo, è evidente che stiamo camminando sul crinale sottile e tagliente pace/guerra.

Le singole sovranità nazionali europee sono deboli rispetto alle sfide, ma la sovranità europea non c’è: né sul piano geopolitico e della sicurezza, né su quello economico. Sul piano culturale, il suo capitale cristiano-liberale viene eroso dalla cancel culture, dal wokismo e dal politically correct.

Pertanto i sostenitori di “Più Europa”, disseminati nella società civile e nei vari partiti, pensano che sia necessario un salto quantico dalla UE intergovernativa e confederale alla UE federale, alla quale i singoli Stati sovrani conferiscano poteri sovrani in materia di politica estera, di difesa, di un bilancio – oggi al di sotto del 2% del Pil europeo – di fisco, di sistema bancario, di mercato dei capitali, di concorrenza… Come arrivarci?

La via più realistica è quella di un’Europa a due velocità, con un nucleo di Paesi – Group of friends?  Triangolo di Weimar? Cooperazione rafforzata? –  che incominci a progettare e a praticare un assetto federale. Gli altri o ci arriveranno o cadranno, in nome della difesa della sovranità nazionale, nell’orbita di “potenze straniere”.

Le libertà europee

Queste discussioni non hanno appassionato gli elettori, benché riguardino il loro personale destino, perché la volgare campagna elettorale in corso non ha fatto emergere la posta in gioco del presente: la difesa delle libertà europee.

L’attuale configurazione politico-istituzionale della U.E. non è in grado di garantire la difesa delle libertà – sbocciate dall’humus classico, cristiano, illuministico, liberale e socialista – contro l’imperialismo russo e cinese e contro il fondamentalismo islamico, che punta all’egemonia nel Medioriente e in tutta l’Africa, a Nord e a Sud del Sahara.

Né l’attuale UE è in grado di “domare la potenza che sgorga dalla scienza e dalla tecnica”, come auspicava Romano Guardini in “Europa. Compito e destino”, richiamando al substrato cristiano dell’Europa.

Né di imbrigliare le potenze della  globalizzazione. Essa sta erodendo e fratturando gli Stati-nazione e le loro basi socio-culturali: una parte di società civile è sempre più attratta dal magnete globale, costituito da idee, consumi, stili di vita, social-media, mentre un’altra parte si è serrata a difesa di ciò che sono o si pretende che siano le tradizioni nazionali. La Nazione e le identità individuali e collettive, esaltate da Johann Gottfried Herder nel ‘700, tornano a separarsi, dopo 500 anni. Serve pertanto uno nuovo schema politico-istituzionale.

 




se devi prenotare una pachimetria …

da casa mia gli ospedali nel senese, ma le strade non sono diritte: Poggibonsi Campostaggia 59,8 km , Siena Le Scotte 44 km, Montepulciano Nottola 90 km, Abbadia San Salvatore 78,8 km

La pachimetria corneale è un esame non invasivo con cui si valuta lo spessore della cornea. Serve perché le misure della pressione endo-oculare utilizzano uno strumento basato su uno spessore corneale standard e, in preesenza di spessori maggiori o minori, si possono determinare misure falsate (falso negativo).

Il costo dell’esame, svolto in libera professione o in struttura privata è abbastanza basso (tra i 40 e i 70 euro), mentre il ticket è intorno ai 30 €, ma che fatica per arrivarci.

primo step il CUP regionale

Quello che il governo ieri ha sbandierato come una grande conquista per eliminare le liste d’attesa, la Toscana ce l’ha già. Inserisci i dati della ricetta elettronica e il sistema ti dice dove e quando nell’ambito della tua ASL. Se non sei soddisfatto puoi estendere la ricerca alla intera regione.

Prenotazione tentata a fine maggio; prima data disponibile 15 luglio presso il poliambulatorio di Abbadia San Salvatore. Cerco altre date, mi danno il 16 sempre Abbadia oppure si va a settembre (sempre Abbadia).

Allora estendi la ricerca sperando che esca Grosseto e ti esce Massa Carrara, Firenze, Pistoia sempre tra due mesi almeno.

In questo caso la data non è una questione critica, il problema è che Abbadia sta sull’Amiata senese a 79 km da casa mia (in auto 1 h e mezza). D’altra parte dopo la riorganizzazione delle ASL io sto in una ASL che comprende Arezzo Siena e Grosseto e che da un confine all’altro arriva a 200 km, ma se anche si sta nell’area Senese 80 km sono considerati accettabili.

E’ ovvio che non ci siano mezzi pubblici diretti, ma non voglio polemizzare su quello. Quello che non capisco è perché non saltino fuori nè Siena e nemmeno Poggibonsi o Grosseto (distanze accettabili tra i 4o e i 60 kim). Questo succede per molte prestazioni, come se certi reparti di certi ospedali non rendessero disponibili le loro agende. E’ mai possibile che, ogni volta si debba chiamare l’URP?

proviamo con la libera professione in struttura pubblica

Vado su Internet e la mia ASL mi dice che la prestazione si può fare o in val di Chiana (90 km) o in val d’Elsa. Eureka: chiamo il numero telefonico dell’ospedale di Poggibonsi e l’impiegata mi dice che la pachimetria non la fanno.

Replico che l’ho letto sul sito con tanto di nome del medico e costo di 42 €. Mi risponde che è impossibile e dunque non mi resta che riattaccare e ricontrollare. Mi segno tutto e richiamo; risposta: ma la dottoressa (omissis) non riceve più da noi dai tempi del COVID, sarà il sito a non essere aggiornato (sic – se il sito non lo aggiorni a cosa serve?). Provi a chiamare Siena.

Richiamo Siena, sia in ASL sia in Ospedale e in entrambi i casi la risposta è che in libera professione fanno solo le visite.

proviamo con la mutua privata

Con la banca ho una piccola assicurazione (SMS CRAS) che per i medici convenzionati ti garantisce la visita privata con un piccolo rimborso.

Vado sul sito e ahime puoi scegliere l’oculista tra una quarantina di nomi nel senese, ma non saprai se fanno la pachimetria. Allora chiamo al telefono e l’impiegata della mutua mi dice che non sono in grado di sapere chi fa cosa. Dico che allora cercherò su internet e mi consiglia di fare così.

Cerco “pachimetria Siena” e mi escono una serie di proposte, alcune con la tariffa, tutte con possibilità di effettuare prenotazione telematica. La seconda proposta non ha il costo ma risulta tra i convenzionati. Richiamo, ma mi mettono giù, la dottoressa sta visitando.

Lascio perdere la mutua e vado direttamente da chi esiste

Il primo medico non è convenzionato, ma c’è la indicazione del prezzo (70€) e prenoto telematicamente. Esame nel giro di 3 giorni, prestazione a Siena.

Ho interagito al telefono con 4 persone che non sono state in grado di prenotare o informare. Il CUP regionale funziona ma mi manda siull’Amiata (non a sciare o a fare un trekking).

Alla fine ho fatto da me e ho prenotato tramite un sistema telematico che però mi dava le informazioni essenziali. Non vi pare che ci sia qualche problema di organizzazione? Non capirò mai perché nella libera professione i costi sono più bassi e il servizio è nettamente migliore. Non parlo ovviamente del costo del ticket ma del costo del funzionamento della intera struttura.

Ogni tanto leggo articoli o saggi che paventano i rischi della intelligenza artificiale per certi tipi di posti di lavoro (maggiore efficienza, minori rischi di errore, minori costi). Mi vien da dire se costa meno e funziona meglio … cercheremo altri tipi di lavoro o ridurremo le ore lavorate. Come si usa dire … chiedo per un amico.

 

 




1970-1971: il servizio militare

III edizione – giugno 2024

la caserm Cadorin sede del 33° artiglieria a Treviso dove sono stato per 11 mesi

Laureato a metà luglio, cartolina precetto a fine settembre. Alla visita ero stato dichirato C3 (la soglia verso il C4 che ti garantiva l’esonero) e ho chiesto io un nuovo responso; il responso è arrivato molto in fretta: abile arruolato con tanto di cartolina precetto e così, almeno, ho evitato i mesi di parcheggio in attesa della chiamata.

Sono partito da Milano centrale con il treno direttissimo per Palermo tra le 16 e le 17; destinazione CAR (centro Addestramento Reclute) presso il 46° reggimento fanteria REGGIO, caserma Scianna. Era uno dei primi giorni di ottobre del 1970.

Sino ad allora Il punto più a sud d’Italia dove ero stato era Roma e dentro di me pensavo che l’Italia finisse subito dopo Napoli. Invece, non solo la costa tirrenica salernitana e poi la Calabria non finiscono mai, ma quando sei arrivato a villa San Giovanni, e credi di essere alla fine del percorso, ti manca il binario unico Messina Palermo. Per farla breve sono arrivato a Palermo alle due del pomeriggio dopo 21 ore di treno.

Sui binari c’erano ad attenderci dei graduati che scrutavano i giovani in arrivo; se avevi in mano una borsa e magari la cartolina precetto eri finito. Tu, spina, vieni qui. Mettiti lì, che quando ci siete tutti vi portiamo in caserma. Primo impattto con le buone maniere dell’Esercito Italiano.

CAR 46° reggimento Fanteria Reggio – Palermo

il primo impatto

Quando siamo stati in numero sufficiente, ci hanno fatti salire sul cassone di un CM (che sta per camion medio, contrapposto a Camion Leggero e Camion Pesante). Iniziavano le sigle incomprensibili (CM, CP, CL, 48 ore, 36 ore, 5+2, CPR, CPS, 165, RAL, ….) e gli ordini sempre urlati: scendere, sbrigarsi, aspettare.

Il viaggio in camion era obbligatorio perché la caserma Scianna stava in fondo a Corso Calatafimi, fuori Palermo sulla strada per Monreale. Dalle due del pomeriggio, rigorosamente senza mangiare, siamo riusciti ad arrivare in camerata alle 21, esausti, sfiancati, depressi e anche un po’ impauriti.

recluta a Palermo

Prima ci hanno registrato in un grande stanzone dove venivi chiamato e alcuni soldati seduti dietro lunghi tavoli ti interrogavano per compilare una scheda piena di dati che, teoricamente, erano già in possesso dell’esercito. Poi ci hanno fatto spogliare degli abiti civili e portato al magazzino per il vestiario: zaino da viaggio, divisa estiva, divisa invernale, basco, bustina, passamontagna, tre camice, mutande tattiche, calzettoni, maglie da sotto, scarpe, scarponcini, anfibi, materasso, cuscino, federe, lenzuola, coperte, fazzoletti,  sapone, spazzole, lucido, grasso, gavetta, dentifricio, posate…

Svelti, svelti, correre, … Sembravano divertirsi a farti aspettare per poi invitarti a correre. Alla fine, a Dio piacendo, con quel carico di roba pesantissimo e voluminoso, ce l’abbiamo fatta e siamo arrivati in camerata. Ho messo a posto quel che potevo e mi sono buttato sul letto a castello che mi avevano dato. Mi veniva da piangere e mi chiedevo: ma dove sono finito? Intanto, sino a mezzanotte hanno continuato ad arrivare altri disgraziati come me. Tra grida e rumori, alla fine, mi sono addormentato.

i primi giorni

Nei primi giorni si imparano le regole, ti rasano i capelli (ma con le mance e la contrattazione si ottiene che non eccedano con la sfumatura alta), si adattano alla belle e meglio le divise, ti danno il fucile. A me capitò l’Enfield, un fucile inglese della I guerra mondiale che usavano i cecchini, pesantissimo. E al CAR il fucile te lo porti con te nella maggior parte delle marce. C’erano anche il 91/38, Garand (il più diffuso) e il FAL (fucile automatico leggero).

Si apprendono le tecniche di realizzazione del cubo in modo che passi indenne dalle ispezioni. Il cubo era una fissa che corrispondeva, in realtà, ad esigenze di igiene e pulizia, in primo luogo l’arieggiamento: disfare completamente il letto, piegare con cura lenzuola e coperte, ripiegare il materasso, coprire il tutto sganciando il telo (spesso non c’erano le reti). Inoltre, così, la camerata risultava in ordine e facile da pulire con spazzoloni, stracci e segatura.

Durante il giorno si fanno le prime amicizie e poi si marcia, si marcia, si marcia.

quando non si marcia

E quando non si marcia ci si siede nel cortile di terra battuta a sentire un semianalfabeta che ti spiega come funziona la bomba d’assalto SRCM (la quantità di tritolo, le due sicure, come la si lancia). Mezz’ora per esporre due concetti da 5 minuti, ma guai se sintetizzi. Lo stesso valeva per le operazioni di manutenzione, montaggio e smontaggio del fucile.

Il caporal maggiore istruttore, che era il nostro riferimento diretto, poi si offendeva. Anni dopo mi sono trovato a riflettere sulle tecniche di spersonalizzazione leggendo i libri di Primo Levi e mi è subito venuta in mente, con le dovute differenze di intensità, la vita di caserma. L’unica differenza è che non avevi un numero, anzi, quando ti si rivolgeva un superiore, dovevi scandire ad alta voce: recluta Claudio Cereda, 46° reggimento fanteria, III compagnia, IV plotone, comandi!

In caserma, fuori addestramento, ci sono i lavori appartenenti alla pedagogia del lavoro inutile. Li devi fare, visibilmente non servono a nulla, ma abituano ad obbedir tacendo. Era autunno e i lunghi viali della caserma Scianna erano fiancheggiati da alberi che perdevano le foglie. Armati di scope e di palette si partiva da una parte e si puliva. Quando eri arrivato alla fine ti giravi e vedevi che il viale era di nuovo pieno di foglie. Chissenefrega, tanto eravamo in duemila e qualche cosa dovevano pur farci fare.

il poligono

Siamo andati due volte al poligono tra Partinico e Montelepre; una volta a sparare da sdraiati e una volta a tirare la bomba d’assalto SRCM, imparando a lanciarla in avanti e non, come si vede nei film americani, (da dietro) perché in quel caso, quasi sempre, si fa un lancio a campanile e la bomba ti arriva in testa.

La SRCM, durante il fascismo detta Ballila, era ancora in uso: 30 o 40 g di tritolo, due sicure, una a linguetta e la seconda fatta da quel coperchietto di alluminio che salta via in volo. Fa un gran botto e poco danno. La si lancia in avanti di una ventina di metri correndo perché il suo raggio d’azione è sui 10 metri. E’ la bomba con cui i fascisti uccisero il 12 aprile del 73 l’agente Marino (il giovedì nero di Milano).

socializzazione

Noia e fatica; i primi giorni eravamo spaventati dalle regole assurde per poter andare in libera uscita: i capelli a posto, i fogli di carta igienica nella tasca destra dei pantaloni, il pettine, il tenente che, per un niente, decideva che eravamo tutti consgnati.

Imparai a riconoscere i comportamenti di tre tipologie regionali:

  • i toscani quasi tutti della FGCI, tendenzialmente ribelli, un se ne po’ più, facciamo una manifestazione di protesta …
  • i bolognesi della FGCI, solari e positivi, socmel non si può continuare così, sì, ma quando andiamo a balare
  • i napoletani che mentre eravamo in fila, in attesa di accedere al refettorio, ne facevano di ogni per aggirare la coda ed erano odiati da tutto il resto d’Italia, da nord a sud. Non era il vantaggio che li interessava, ma il fatto di fotterti. Taggio fatto fesso. E ci ridevano sopra. C’erano siciliani, pugliesi, calabresi, ma anche gli altri meridionali non sopportavano i napoletani.

Ricordi positivi dalla trattoria Carlo V vicino a piazza Maqueda. Un postaccio dove facevano una pasta con pomodoro e pinoli buonissima e delle braciole di maiale con il giro di grasso bianco che ho rivisto nella cinta senese, pane con il sesamo, che ho provato per la prima volta; il vino bianco era spillato al momento, dalla botte messa tra le due sale da pranzo. Una volta ho anche visitato il famoso mercato della Vuccirìa, condizioni igieniche incredibili soprattutto sul versante della carne e del pesce e tante urla di chi doveva proporre la propria merce.

sradicamento

In quei giorni scrivevo molte lettere e, mettendo in ordine le carte, dopo la morte della mamma, ne ho ritrovate alcune. Ero proprio disperato; in una, rivolta a papà, esternavo la mia rabbia per quella struttura oppressiva e distruttiva della personalità e lui mi rispondeva, lui che era stato fascista, e un po’ lo era ancora, di portare pazienza, che le cose si sarebbero sistemate e mi invitava a cercare l’aspetto positivo delle cose.

a telefonare lontano dai centri della SIP

La comunicazione avveniva o per lettera o per telefono; ma la teleselezione entrò in vigore ufficialmente sono dal 1 novembre 1970 e fu un processo graduale. Per tutto il servizio militare continuai ad utilizzare i centri della SIP diffusi in tutta Italia in cui si andava per telefonare.

Si prenotava la chiamata e si attendeva il proprio turno per andare in cabina. Tre minuti e prima della scadenza si inseriva la signorina e ti chiedeva “raddoppia?”. I centri erano frequentati, per la metà da militari di leva e per il resto si trattava, in genere, di migranti. Nel 71 iniziarono a comparire i telefoni a gettone, più diffusi ma più scomodi perche con la destra tenevi la cornetta e con la sinistra, a pugno, i gettoni di scorta.

Grazie alle aderenze in università sono riuscito ad avere una licenza (5+2) con la scusa che la mia presenza serviva perché risultavo membro di una commissione d’esame, così ho scampato la andata al poligono a sparare e, in tutto il militare, non ho mai sparato un colpo.

Inoltre Bruna, la mia futura moglie venne a Palermo per il giuramento. Era ospite di una compagna della nobiltà decaduta palermitana (i prìncipi Lanza) e ricordo la sorpresa nello scoprire che a Palermo gli ascensori funzionavano a moneta (10 lire). La sera, per quei 3 o 4 giorni, mi riaccompagnava sino in caserma al termine della libera uscita e poi tornava in centro con l’autobus, sorvegliata da un autista gentiluomo che spostava la fermata in modo che, al buio, non dovesse fare tratti a piedi da sola. La guardavano strana, una giovane donna con i capelli corti e il tailleur pantalone in giro da sola di sera …

Un giorno mentre eravamo in adunata è arrivata dal comando la richiesta di un laureato in fisica. Per la paura che mi offrissero qualche posto privilegiato che mi costringesse a rimanere per 15 mesi a Palermo o peggio a Trapani, dove la voce popolare diceva che ci si faceva la barba con l’acqua minerale, mi sono fatto piccolo piccolo e sono stato zitto.

Alla fine dei 40 giorni, ci hanno chiamato in un camerone simile a quello che ci accolse all’arrivo e ci hanno dato la destinazione e l’incarico: Ospedale Militare di Bologna e corso di aiutante di Sanità. Si andava verso nord. Alla fine dei 40 giorni, per via delle marce, delle corse e del pranzo non ideale ero dimagrito e in perfetta forma.

la tradotta e l’Ospedale Militare di Bologna

la tradotta con i vecchi vagoni di III classe

Ci hanno portato al nord con la tradotta, un treno con i vecchi vagoni di terza classe, quelli con la porta ogni quattro posti a sedere, il corridoio in mezzo e i sedili di legno.

La tradotta dava la precedenza anche ai treni merci e si fermava regolarmente per lo sgancio dei vagoni delle diverse destinazioni. Ci vollero trentasei ore per fare Palermo Bologna, ma c’era gente che doveva andare sino al confine orientale: Udine, Tolmezzo, Gorizia.

Ho incominciato a chiedermi come mai, con una laurea in fisica ad indirizzo elettronico, non fossi finito nelle trasmissioni e la risposta che mi sono dato è la stessa in base alla quale ero finito a Palermo per il CAR: le schedature funzionavano, anzi forse era l’unica cosa che funzionasse in quel mare di inefficienza. L’aiutante di sanità è un privilegiato, ma in compenso non fa vita di camerata e non sta con i soldati.; un modo elegante di isolare i sovversivi, o presunti tali.

Come il CAR, anche il corso all’Ospedale di Bologna avrebbe dovuto durare 40 giorni, la durata ci fu, ma il corso no. Eravamo in una quarantina, quasi tutti laureati, e la prima cosa che hanno fattofu quella di nominare un capocorso perché, anche tra pari, la gerarchia è importante (era uno studente di ingegneria di Roma).

Per qualche giorno ci portarono in una specie di teatro interno all’Ospedale dove venivamo abbandonati a noi stessi e poi smisero di fare anche quello e noi si girava liberamente per l’ospedale. Il corso non c’è stato, l’esame finale neanche, ma alla fine ci hanno assegnato la destinazione e ci hanno dato il diplomino di Aiutante di Sanità. E lì ho incominciato a capire come era andata per davvero la campagna di Russia del 1942.

Io, per altro, mi sono fatto anche una settimana di ricovero per una bella tonsillite bilaterale e ho rischiato l’intervento chirurgico. Tra ricovero in ospedale e problemi connessi al clima oppressivo, in tutto quel periodo sarò uscito per Bologna tre o quattro volte. Una volta sono andato in centro a vedere le Torri e ho fatto un salto alla libreria Feltrinelli, uno dei posti che ci erano stati indicati come pericolosi; un altro posto interdetto era via Lame, credo per ragioni di puttane e malavita.

Da Bologna a Rimini

Era dicembre inoltrato, e a fine non-corso, ci furono date le destinazioni e il biglietto ferroviario: trasferimento individuale in treno, con il pesantissimo zainone-valigia con tutta la dotazione individuale, dal vestiario agli anfibi. La mia destinazione era Rimini, 121° artiglieria contraerea leggera, caserma Giulio Cesare, abbastanza in  centro.

IL complesso della caserma Giulio Cesare di Rimini

In caserma c’era un freddo atroce che costringeva a dormire con il passamontagna. L’infermeria aveva una sua piccola camerata per i ricoveri e noi aiutanti di sanità, se non c’erano esigenze particolari, dormivamo lì visto che c’era una stufa a legna in coccio.

Sono stato riconoscente per tutta la vita al segretario del movimento giovanile DC di Ravenna, che non ho mai conosciuto. Era raccomandato ed ottenne il trasferimento da Treviso a Rimini. Così, dopo neanche un mese, io venni preso e mandato a Treviso al suo posto.

epidemia di menengite cerebro spinale

A Rimini c’era un colonnello comandante allucinante che aveva introdotto una serie di norme, a suo dire antilavativi, che determinarono la morte di un soldato: si chiamava Bruno Raffaelli ed era di Viareggio.

Il colonnello Carmelo Alongi aveva stabilito che se un soldato marcava visita e otteneva il provvedimento medico legale di servizio, ricevesse una serie di benefit ulteriori che gli facessero ricordare che non bisogna barare: esclusione dalla libera uscita per quella giornata, esclusione dai permessi di 48 ore per  tre mesi, esclusione dalle licenze per 5 mesi.

Il regolamento di disciplina militare prevedeva, di suo, una gerarchia di provvedimenti medico legali: il ricovero, il riposo in branda, la esenzione dai servizi, il servizio e, infine il servizio punibile.

Di fronte ai finti malesseri, perché uno ci provava sempre e comunque, o alle lievissime patologie si dava servizio perché il servizio punibile avrebbe potuto far scattare un procedimento per simulazione. Quindi il servizio punibile non si dava mai e il colonnello aveva trasformato il servizio in tela faccio vedere io.

Bruno Raffaelli, quel giorno di inizio gennaio, compiva 21 anni ed attendeva i suoi genitori per festeggiare l’avvenimento. La mattina al risveglio non si sentiva bene e probabilmente aveva già la febbre, ma per non incappare nelle regole del colonnello, non se la sentì di marcare visita. Il tenente medico fece le sue visite tradizionali e poi se ne andò (visto che era domenica).

I compagni di Bruno ce lo portarono in infermeria in stato di sem-incoscienza, con la febbre alta, rigidità nucale e vomito a spruzzo. Il riflesso di Babinsky, che si fa strisciando un ago sulla pianta del piede, ed osservando come si muove il pollice, era già positivo. C’erano tutti i sintomi di una meningite cerebro spinale in fase avanzata. Ce la dovemmo cavare da noi sentendo il medico per telefono e, mentre lo attendevamo, chiamammo l’ambulanza che arrivò insieme al medico. Fu ricoverato all’ospedale di Rimini tra le 11 e le 11:30 e alle 14 era già morto.

In caserma, nel giro di pochi giorni, nonostante l’isolamento e la profilassi di massa con i sulfamidici (la sulfametossipiridazina, me lo ricordo ancora) si ebbero altri 7 casi, seri di infezione manifesta, ma con prognosi fausta e 60 tamponi oro-faringei positivi. Una epidemia con i fiocchi.

Nei giorni successivi, in libera uscita, mi misi alla ricerca dei compagni di Lotta Continua per fare qualcosa, denunciare, rompere il silenzio, fare casino. Quando finalmente li trovai arrivò, del tutto inatteso, il mio trasferimento. Non so cosa avrei combinato. Capite perché devo ringraziare quel giovane democristiano? Mi ha quasi sicuramente salvato dal finire a Gaeta o a Peschiera (i due carceri militari). Nello scrivere questa parte ho cercato di documentarmi con la stampa dell’epoca e non ho trovato nulla salvo la conferma di quella morte.

Insomma, nè Bologna, nè Rimini me le sono viste o gustate. Ho solo il ricordo di un aiutante di sanità anziano che, in puro stile amarcord-vitelloni, si vantava di grandi avventure con le donne di Rimini e di avere il problema di erezioni prolungate; lo guardavamo con invidia.

Da Rimini a Treviso

Nuovo viaggio in treno da solo e con il gigantesco zaino da viaggio con dentro tutto, ma questa volta fu un passaggio dalle stalle alle stelle: per Treviso e la sua gente, per i compagni di infermeria, per gli ufficiali medici. Sono stati 11 mesi gradevoli in cui ho imparato un po’ di cose sull’ Italia, ho imparato le tecniche essenziali di primo soccorso e ho avuto anche tempo di studiare Gramsci.

A Treviso, quando sono arrivato, ho trovato tutti i riti del nonnismo, una forma di cameratismo semiviolento che le autorità militari tolleravano perché consentiva di mantenere la disciplina creando divisione tra i soldati. C’erano ancora i nonni e le spine, le canzonacce, la comunione con un pezzo di pane o una patatina intinta nello sperma, i gavettoni, la stecca in cui si incidevano i giorni di servizio sino a quello del congedo. Ma il fenomeno si andava restringendo.

La caserma Cadorin, era un po’ fuori Treviso, sulla strada feltrina, ma ad una distanza accettabile dalle mura.

Per altro, di lì a qualche mese mi arrivò la 500 che avevo comperato a rate nel 67 e che, in mia assenza, stava usando Bruna la mia compagna (anzi la mia fidanzata, come si diceva allora), sposata poi a settembre.

L’infermeria era in una palazzina a sé stante a destra dell’ingresso e abbastanza vicina al muro (cosa di cui approfittava qualche collega per entrate e uscite fuori ordinanza).

Al piano terra c’erano le sale visite e d’attesa, i servizi igienici e un deposito per il magazzino medicinali e per i disinfettanti. Al piano superiore le camere di ricovero, una cucina e anche una cameretta per l’aiutante di sanità in turno notturno con letto vero, armadietti vari e persino il telefono. Ovviamente la palazzina era collegata al riscaldamento centrale del comando.

La cameretta (in fondo a sinistra), invece che all’aiutante in turno notturno, veniva riservata all’aiutante più anziano e gli altri dormivano nelle stanze dei ricoveri se c’era posto, oppure in camerata (eravamo comunque aggregati alla compagnia comando dove stavano quelli che lavoravano negli uffici del reggimento).

il 33° artiglieria Folgore

Obici da 155 mm

La caserma Cadorin, comando di reggimento del 33° artiglieria (divisione Folgore), ospitava 3 battaglioni, due di obici da 105 e 155 mm e una di carri semoventi, anche quelli dotati di obice. Poi c’era un distaccamento a Gradisca d’Isonzo anch’esso con carri semoventi.

Il reggimento era comandato dal colonnello Danese, una persona ammodo e raffinata, già addetto militare a Lisbona, e che poi avrebbe fatto carriera, sino a terminare come generale di Corpo d’Armata (era il fratello della moglie di Andreotti … e si sapeva).

In un paio di occasioni abbiamo fatto delle esercitazioni serie (sparando con gli obici) nelle zone del Friuli oltre Cordenons  (greto del Meduna Cellina) e una volta verso il Tagliamento. In quelle esercitazioni di artiglieria non si capisce molto cosa accada, lo sanno gli ufficiali. Eravamo accantonati in edifici dismessi e in una delle due uscite, galeotto il Cabernet sfuso, mi beccai l’unica sbornia pesante di vino della mia vita. Ricordo che non riuscivo a stare in piedi ritto e però, se mi sdraiavo incominciava a girare tutto il mondo. Era una sbornia di quelle in cui conservi ancora un minimo di coscienza, prima del coma etilico, il che è peggio.

Un’altra volta abbiamo accompagnato i corpi di polizia al poligono e per tutto il viaggio ho ammirato la pistola mitragliatrice M12 abbandonata sul sedile accanto a me: un gioiellino di meccanica. Al poligono, tra mitra e pistole, i poliziotti sparavano davvero.

La vita in infermeria

Sveglia alle 6:30, abluzioni, prima colazione preparata da noi e poi pulizie con strofinaccio, disinfettanti vari (tanto cloruro di calcio) e poi iniziava la fase delle visite. Noi si dava una mano ai due ufficiali medici, si facevano le terapie e il disbrigo delle pratiche d’ufficio..

Mi hanno sempre affascinato le medicine dello Stabilimento Chimico Farmaceutico Militare di Firenze di cui avevamo un bel deposito (oltre agli armadi della sala visite) e che andavamo, una volta al mese, a prelevare, con la Campagnola, all’Ospedale Militare di Padova. Ho visto che ora l’istituto è stato incaricato di produrre la Cannabis ad uso terapeutico.

Avevamo un po’ di tutto: antibiotici iniettabili (pennicillina e streptomicina), tetraciclina in capsule, sulfamdici, antisettici, antireumatici, antidolorifici, spasmolitici, sedativi come il Valium e il Talofen, complessi vitaminici ed epatoprotettori, pomate, tra cui tanto Foille, essenziale in artiglieria (ustioni dei serventi al pezzo), garze e bende a non finire, il palloncino Ambu, attrezzi vari di immobilizzazione, vaccini e, in un armadio protetto, la morfina che non abbiamo mai usato.

Poi c’erano due cose ad uso esclusivo della infermeria: il brandy e soprattutto l’elisir di china che avevamo in bottiglioni da due litri. Ho visto sul sito che lo fanno ancora e lo vendono (“Pregiato liquore ottenuto per estrazione a freddo da corteccia di china e scorza di arancio amaro invecchiato almeno un anno in botti di rovere secondo la storica ricetta presente nella Farmacopea Militare del 1877“). Era proprio pregiato, e per quello lo tenevamo per noi.

Il lavoro con quelli che marcavano visita era molto di routine e ci voleva un attimo a distinguere i malati, dai furbi a cui, comunque, si dava servizio e non servizio punibile. I casi meno gravi ricevevano il riposo in branda e quelli più seri venivano ricoverati.

Ogni tanto capitavano i casi gravi: traumi ed incidenti connessi al lavoro sugli obici (in un caso ci fu la amputazione della mano) e crisi psicomotorie di poveri cristi del sud che ogni tanto schizzavano e magari si aiutavano (con qualche sostanza) per essere mandati all’ospedale militare in psichiatria e da lì in convalescenza o magari in congedo.

Si mormorava di strani intrugli e di metodi per scatenare un brusco rialzo della temperatura; qualcuno praticava forme di autolesionismo. Spesso le crisi di agitazione psicomotoria si sovrapponevano a quelle di grande male epilettico e si interveniva in tre o quattro per sedare il paziente (tra Talofen, Valium, barbiturici, straccio in bocca per evitare che si masticassero la lingua, cinghie di contenimento).

Il lavoro per le terapie prevedeva le iniezioni, i lavaggi auricolari per la estrazione dei tappi di cerume, i cambi di medicazione, le misurazioni di pressione e temperatura.

il rito dell puntura con il vaccino tri e pentavalente

Quando arriva un nuovo contingente c’era il rito della vaccinazione (antitetanica, antivaiolosa, antidifterica).

La antivaiolosa sul braccio e l’altra nel muscolo vicino a un capezzolo. Si disinfettava con batuffoli di cotone impregnati di tintura di iodio e dopo un po’ di quel lavoro, anche se si tenevano le finestre aperte, tutti i locali erano inondati dai vapori della tintura e dal puzzo dei corpi sudati.

Mi ricordo di una vaccinazione antivaiolosa in cui il medico, che lo faceva per la prima volta, ci dette dentro un po’ troppo in profondità con i graffi nel muscolo del braccio. Ci trovammo con un paio di compagnie a letto con febbre alta, qualche caso di encefalite e delle croste e cicatrici di quelle che poi si vedono per sempre.

Ho conosciuto 4 ufficiali medici e se si esclude il primo, tal Straface di Reggio Calabria, che non valeva nulla e quindi si dava un sacco di arie, con gli altri tre (uno di Vittorio Veneto, uno di Este e l’altro di Mestre) sono stato benissimo e, il dr Vincenzo Guariento, quello di Este, sono anche andato a trovarlo anni dopo. Il rapporto era di assoluta parità e lo stesso valeva per gli altri aiutanti di sanità con cui si faceva vita comune (uno di Cremona, uno di Roma, uno di Pistoia e uno di Treviso).

Durante quei mesi mi sono fatto altre tonsilliti e una notte ebbi un violento attacco d’asma. Mi svegliai che non riuscivo più a respirare. Per fortuna ero in infermeria e avevamo la teofillina. Comunque fu l’occasione per smettere di fumare, per sempre.

I fratelli soldato

Nei primi mesi del 71, di noi 5 fratelli eravamo a militare in tre. Fabio, il terzo, era partito con il primo 50 ed era a Gorizia, Sandro, il maggiore con il secondo 50 era ad Udine e io con il terzo 50 a Treviso. Era stata appena abolita la norma che esentava dal servizio il terzo fratello delle famiglie numerose e in quel caso sarebbe toccato a me visto che Fabio, non avendo fatto l’Università, era partito per primo. Così, alla fine, il militare lo abbiamo fatto tutti e cinque.

Sandro, dopo essere stato a Palmanova, era arrivato a Udine alla famosa caserma Spaccamela e lì, lui che aveva sempre fatto poca politica, aveva incominciato a lavorare con quelli di Proletari in Divisa (volantinaggi, sciopero del rancio, …).

C’erano degli infiltrati, li beccarono tutti, qualcuno finì a Peschiera, qualcuno in CPR (camera di punizione di rigore), tutti vennero trasferiti e sparpagliati e Sandro fu mandato a Gradisca di Isonzo al distaccamento del 33° artiglieria.

Andai dal colonnello Danese a vedere se, nell’ambito dei trasferimenti interni, si poteva farlo venire a Treviso; fu molto cortese, persino elogiativo verso di me e il mio curriculum di studi, mi promise che lo avrebbe fatto. Io non avevo detto nulla sulle ragioni del trasferimento di Sandro, ma poi, evidentemente arrivarono le note informative e Sandro restò a Gradisca per gli ultimi mesi del suo servizio.

A Treviso: comandi !?

A Treviso la gente voleva bene ai soldati e c’era tanta gentilezza a partire dal fatto che quando chiedevi qualcosa iniziavano a risponderti dicendo “comandi?“.  A pranzo facevamo da noi con la cucina della infermeria e con materie prime che arrivavano direttamente dagli addetti alle cucine, ma tutte le sere andavamo a cena in una trattoria a ridosso di piazza dei Signori, nel vecchio centro attraversato da canali che finiscono nel Sile. La trattoressa, che aveva un figlio a militare, ci trattava tutti come figli suoi. Si beveva il Raboso del Piave e fuori pasto si andava ad ombre con il Prosecco in caraffa.

Treviso a ridosso del centro storico tra canali e osterie

Nel Veneto si dice ombre, andare ad ombre, richiamando una tradizione veneziana degli ambulanti, con il carrettino per la mescita del Prosecco, che si spostavano in piazza San Marco seguendo l’ombra del campanile. E Bruno, l’autante di Sanità di Treviso, ci portava ad ombre (prosecco, acciughe, soppressa e uova sode), in tutte le osterie sino alla Colonna, dove si beveva il Clintòn, una variante del fragolino, nella scodella di maiolica bianca.

Con gli ufficiali medici mi è capitato di andare (in borghese) a prendere l’aperitivo al bar Borsa, quello reso famoso dal film Signore e signori: tramezzini di tutti i tipi, prosecco in caraffa e anche il Karkadé che ho conosciuto in quella occasione.

Negli ultimi mesi del servizio ho acquisito il diritto alla cameretta dell’aiutante anziano e me la sono arredata. Di pomeriggio e il sabato e domenica davo anche qualche lezione privata a domicilio di matematica e di fisica e, con i proventi, ho comperato un po’ di libri alla agenzia Einaudi. Faceva impressione entrare in un locale della caserma e trovare Il capitale monopolistico di Baran e Sweezy, I quaderni dal carcere di Gramsci e le Teorie sul plusvalore di Marx.

matrimonio e congedo

Nel corso dell’estate si liberò, a Villasanta, un appartamento di proprietà della zia Giovanna (Giuanina dal Cereda) in piazza Camperio e Bruna, che non ne poteva più di stare in famiglia, prese la palla al balzo; una occasione così non si può perdere.

Qualche mese prima, nel corso di una licenza eravamo stati a vedere una casa nei pressi della stazione del metrò di Villa San Giovanni perché il nostro progetto di vita prevedeva di vivere su Milano. Non se ne fece nulla e così la mia vita, sino al trasferimento in Toscana, è poi rimasta centrata su Villasanta.

Si è occupata lei di tutto e, nel mese di settembre mi sono sposato. Ci fu qualcosa di comico perché per sposarsi bisognava essere autorizzati dal comndo e così mi toccò fare domanda. L’autorizzazione mi fu concessa ma, nella domanda, dovetti precisare che mi volevo sposare anche se Bruna non era incinta (la cosa era sconvolgente per i militari, evidentemente abituati al matrimonio riparatore). Ricordo che la domanda di autorizzazione si chiudeva con “in fede, subordinatamente“. Mi vergognavo ma era obbligatorio.

Non avevo ancora usufruito della licenza ordinaria di 10 giorni e me ne spettava un’altra di 5 giorni per una donazione di sangue; le sommarono e così non mi diedero la licenza matrimoniale; generosi sino alla fine.

Il fazzoletto giallo del 33° artiglieria; il mio ce l’ho ancora; negli anni 70 ci avevo fatto sopra una grande falce e martello rossa e lo usavo alle manifestazioni

Tornai a casa il 23 dicembre con il congedo illimitato e, dopo le vacanze di Natale presi servizio all’ITIS di Sesto San Giovanni: docente di fisica, cattedra di 15 ore di cui 6 di laboratorio.

Avevo tutto il tempo di dedicarmi alla costruzione di AO a Monza, ma negli anni successivi tra i sogni ricorrenti, espressione di paure ed angosce, è entrato a far parte anche quello del richiamo in servizio.

Da allora nell’esercito è cambiato quasi tutto. Sono finite certe angherie; dapprima hanno avuto il permesso di girare in borghese fuori dal servizio senza avere più l’ossessione della ronda o il salutare mettendosi sugli attenti se passava un ufficiale, si è ammorbidito il regolamento di disciplina e, alla fine, è stato abolita la coscrizione obbligatoria.

Se guardo ai ragazzi di adesso credo che sia sbagliato non aver mantenuto una forma di servizio alla comunità da farsi lontano da casa: fa bene alla autonomia, fa bene alla formazione della personalità e fa bene alla comunità. Il servizio civile su base volontaria e, spesso, a due passi da casa, non è la stessa cosa.


La pagina con l’indice della mia autobiografia da cui potete scegliere i capitoli da leggere e vedere una sintesi di ciascuno


 




Premierato e riforma-trappola

I presupposti di fatto che comandano il dibattito sul premierato sono due. Primo: gli Italiani hanno necessità oggettiva di un governo che sia capace di districarsi tra la giungla degli interessi individuali e di gruppo – tutti legittimi o quasi – per far prevalere l’interesse collettivo del Paese, che non è semplicemente la somma algebrica dei medesimi. Si tratta della somma della paralisi.

Secondo: la necessità oggettiva non si tramuta in una massiccia domanda soggettiva, perché i partiti e i movimenti che dovrebbero rappresentarla non ne sono convinti loro per primi. Quando si trovano a governare, si rendono conto che i bottoni della famosa stanza sono soltanto dei “trompe l’oeil” (inganni per la vista).Premono fortemente, ma non succede nulla. E perciò vorrebbero un governo “forte”. Ma quando passano all’opposizione sono ben lieti che il governo sia “debole”. Perché avviene questa “alternanza del non-governo”? Perché i partiti non riescono a porsi dal punto di vista generale del Paese, benché producano accese verbigerazioni sulla Resistenza, sulla Costituzione, sulla Patria, sulla Nazione. La fazionalità prevale sul Bene comune, comunque immaginato, per un intreccio di ragioni storiche più volte e da molti indagate.

Il Premier necessario e il premierato pasticciato

Questa breve premessa serve a spiegare perché il premierato che la Meloni sta cucinando rischi di bruciare in padella, prima di essere servito in tavola. Si intrecciano, in questa storia destinata ad un poco lieto fine, tre componenti: un’antica paura, la campagna elettorale in corso, i cattivi ingredienti della pietanza.

L’antica paura è quella de “l’uomo solo al comando”.  Il semi-presidenzialismo della Commissione D’Alema del 1998 “spaventò” Berlusconi: c’era il rischio del “Prodi al comando”.

Nel 2006 il premierato di Berlusconi spaventò i DS: c’era il rischio del “Berlusconi al comando”. Nel 2016 fu Renzi con il suo referendum a spaventare la destra e molta sinistra, unite nella lotta contro “l’uomo solo al comando”. Nel 2024 è il premierato, targato Meloni, a far temere alla sinistra un capo “fascista”.

In questo maggio 2024, tuttavia, majora premunt! Servono voti per le elezioni europee. Tutti i sondaggi danno l’astensionismo in aumento. I partiti corrono pertanto a fidelizzare/fanatizzare l’elettorato più stretto. Perciò accendono i toni, fanno mosse teatrali. Così la sinistra chiama alla difesa finale della Democrazia.

Quanto ai cattivi ingredienti della pietanza, qui la prima responsabilità è della maggioranza di governo, che, dopo mesi di melina interna, è corsa alla presentazione di un modello di premierato gravemente lacunoso.

La melina interna: aveva come oggetto lo scambio premierato/autonomia differenziata tra FdI e Lega. La lacuna grave: i punti chiave della legge elettorale, elemento essenziale della nuova forma di governo, saranno decisi solo dopo il varo della riforma costituzionale.

Il disegno di Legge che sarà discusso al Senato il 18 giugno prevede l’elezione diretta del Premier, stabile per cinque anni. Ottimo! Ma, con quale maggioranza minima? Con ballottaggio? E come garantire che il Premier abbia la maggioranza dei voti nelle due Camere?

Se si usa la proporzionale, occorre un premio di maggioranza. Ma a quale altezza? Si era partiti dal 55%, si è scesi al 42-43%, ma la Lega scenderebbe anche sotto il 40%. Si tratterebbe di un’iper-minoranza reale nel Paese. La maggioranza di governo si riserva di rispondere a queste domande solo dopo l’approvazione della riforma costituzionale.

Se la maggioranza ha deciso sconsideratamente per pura propaganda elettorale di partire dal tetto, giacché le fondamenta – cioè la legge elettorale – non le ha neppure progettate, è però riuscita a fornire un alibi perfetto all’opposizione, che, Pd in testa, si è blindata nella ridotta valtellinese – absit injuria verbis! – della “Costituzione più bella del mondo” e della denuncia non del “salto nel buio”, ma nella dittatura. Alla Benito? Alla Orban?

Quando una “riforma” istituzionale diventa una trappola

Poiché ambedue gli schieramenti sono convinti di vincere, rifiutano accordi in Parlamento e puntano al referendum confermativo, che non abbisogna di quorum: un’altra anomalia pirandelliana.

Così ci troviamo stretti da una tenaglia: se il premierato non passa, il “non-governo” continuerà come prima e, perciò, peggio di prima. Perché il meglio/peggio non si definisce da tempo in Italia e poco anche in Europa: è il quadro geopolitico che decide e che sta peggiorando. Un governo istituzionalmente forte è la richiesta minimale dell’attuale situazione internazionale.

Se il premierato non passa, allora finiremo in una trappola di conflitti istituzionali, che sono l’anticamera di conflitti radicali tra soggetti sociali e soglia di guerre civili. “O la va o la spacca!” ha dichiarato la Meloni in TV. Se perdo, lascio la politica, aveva dichiarato bullescamente Renzi. Se perdo, “chissene frega!” declama spavaldamente la Meloni. Già, ma se si spacca l’Italia?

La sconsolante morale di questa storia è che sui partiti non soffia nessuno spirito costituente. Nessuna Pentecoste, solo una fragile Torre di Babele, nella quale tutti parlano e nessuno si capisce. A quanto pare, l’unico terreno condiviso di unità nazionale dei partiti è la spesa pubblica e, perciò, il debito pubblico. Terreno che una vasta parte della società civile frequenta volentieri. Perché lì i conflitti si sedano, dando a ciascuno qualcosa, secondo un efficace anacoluto ambrosiano, quello dei mercati del bestiame: “Chi al vusa pü sé, la vaca l’è sua”!  E quando la biada finisce?  “Stiamo consumando le sementi”, scrisse profetico il grande teologo protestante Karl Barth nel 1925, in piena Repubblica di Weimar.




Brescia 50 anni dalla strage

Era il 28 maggio del 74, un martedì, tarda mattinata, Filippo Castrezzati era a metà del suo comizio, quando di sentì un suono secco e poi le grida.

Pioveva e sotto i portici di piazza della Loggia, proprio dove si era rifugiato il gruppo di attivisti della CGIL Scuola esplose una bomba collocata in uno di quei cestini metallici della spazzatura che si trovano ovunque nelle nostre città.

Morirono sùbito in 6 dilaniati dalla bomba, altri due erano gravissimi e morirono nei giorni successivi. I feriti, colpiti dalle schegge furono oltre un centinaio.

Piazza della Loggia un attimo prima dello scoppio della bomba

le vittime

  • Giulietta Banzi Bazoli, 34 anni, insegnante di francese.
  • Livia Bottardi in Milani, 32 anni, insegnante di lettere alle medie.
  • Alberto Trebeschi, 37 anni, insegnante di fisica.
  • Clementina Calzari Trebeschi, 31 anni, insegnante.
  • Euplo Natali, 69 anni, pensionato, ex partigiano.
  • Luigi Pinto, 25 anni, insegnante.
  • Bartolomeo Talenti, 56 anni, operaio.
  • Vittorio Zambarda, 60 anni, operaio.

Tra gli 8 morti si contano 5 professori, attivisti della CGIL Scuola, due di essi Giulietta Banzi e Luigi Pinto sono anche militanti di Avanguardia Operaia.

l’attentato

Potete ascoltare qui il documento sonoro del comizio con lo scoppio intorno al minuto 9 della registrazione.

Si era concluso da poco il referendum sul divorzio voluto da Fanfani e Almirante con la grande vittoria del no alla abrogazione e la provincia di Brescia, da alcuni mesi era stata teatro di iniziative fasciste di vario genere; la manifestazione, con sciopero generale era stata convocata pensando ad una protesta che facesse da argine.

Invece ci fu l’attentato seguito poi dalla rivendicazione da parte di organizzazioni fasciste nate per filiazione dopo lo scioglimento di Ordine Nuovo

Brescia Oggi il quotidiano progressista di Brescia uscì con una edizione straordinaria nel pomeriggio stesso della strage

Sono stati giorni tristi e frenetici; ero il segretario regionale lombardo di AO e con la mia Aermacchi 350 mi recai a Brescia tutti i pomeriggi sino al giorno dei funerali, venerdì 31, per stare vicino ai compagni che fino al giorno prima avevano lavorato fianco a fianco di Giulietta e Luigi.

il numero del settimanale di AO con la notizia

Luigi era ancora vivo, sarebbe spirato il 1 giugno per gli effetti del gravissimo trauma spinale che aveva subìto. Nel preparare questo articolo ho trovato anche la testimonianza del medico che lo accolse in ospedale, era cosciente e voleva sapere del suo stato.

Da Milano organizzammo un treno speciale in occasione dei funerali. Erano altri tempi; i funerali  furono grandiosi con una partecipazione popolare tra le 500 e le 600 mila persone (4 volte la popolazione di Brescia). Peccammo certamente di estremismo (compagna Giulietta sarai vendicata) e in assenza dei fascisti cercammo di prendercela con le istituzioni dello stato, in primis con la DC mettendo sullo stesso piano il Presidente Leone o Rumor e la DC bresciana notoriamente di sinistra, popolare e antifascista. Se ne trova traccia nei documenti e nelle tesi di laurea. La gente sapeva di Giulietta, della sua militanza, e quando entrammo in piazza con lo striscione di AO fummo accolti da una marea di applausi.

che persone erano?

comunicazione CGIL

La CGIL di Brescia comunica al nazionale la morte degli iscritti

I 5 docenti morti erano, ciascuno con le sue peculiarità, persone eccezionali impegnate nella costruzione del sindacato scuola CGIL, nato da pochissimi anni e ciascuno di loro si portava dietro storie di impegno politico-culturale, di famiglia, di alpinismo, di emigrazione.

In questi anni un po’ di istituzioni locali si sono preoccupate del ricordo, esiste un sito con diverso materiale documentario, sono state fatte delle tesi di laurea su alcuni di questi protagonisti e, nelle loro scuole e/o città di provenienza sono ricordati con delle lapidi.

Giulietta Banzi

Giulietta Banzi insegnava francese al liceo Arnaldi, aveva tre figli piccoli che ricordano lo sballottolamento per le riunioni e le manifestazioni. Il figlio mschio, Afredo, che allora aveva 5 anni, è senatore del Partito Democratico.

Giulietta Banzi con i tre figli e sotto il diario impagabile di Beatrice, la figlia maggiore per la manifestazione del XXV aprile

Era sposata con un avvocato democristiano di sinistra che, ai tempi della strage, era assessore all’Urbanistica al comune di Brescia. Aveva iniziato il suo spostamento a sinistra nella seconda metà degli anni 60 aderendo ad un circolo culturale in cui si approfondiva, lavorando sui testi, il pensiero di Marx e di Lenin; da qualche mese entrata in contatto con il Comitato di Agitazione degli insegnanti (creatura milanese messa in piedi da Maria Teresa Torre Rossi e Claudio Annarratone) aveva aderito ad Avanguardia Operaia.

Tra i ricordi di lei mi è piaciuto quello di una ex studentessa: ci dava del lei, come forma di rispetto nei nostri confronti e ci diceva che la letteratura francese, che lei insegnava, era importante, ma che era più importante non scordarsi della Rivoluzione Francese.

Strane le vite vere, non vi pare? Le nostre analisi di allora non prevedevano queste cose, una compagna che vive una vita felice con un marito democristano, ma questo marito democristiano fece portare sulla bara di Giulietta la sua bandiera rossa creando scandalo in certi ambienti.

Qualcosa del lavoro politico di allora di Avanguardia Operaia a Brescia è rimasto con la esperienza di Brescia anticapitalista. La CGIL Scuola, che ora si chiama Federazione Lavoratori della Conoscenza (FLC), in questi anni ha fatto un meritorio lavoro per ricordare le vittime producendo un libricino biografico di ciascuno. Questo è quello dedicato a Giulietta. La tête bien faite che richiama un famoso aforisma di Montaigne a proposito di scuole ed educazione, aforisma ripreso da Egadgar Morin: meglio una testa ben fatta piuttosto che una testa ben piena.

Alberto Trebeschi

Al momento della strage sapevo poco o nulla di lui. Era un insegnante di fisica, come me appassionato degli aspetti culturali e formativi di questa disciplina. Si occupava di storia della scienza e di problematiche  di unità del sapere. E’ morto con la moglie, entrambi erano appassionati di montagna. Alberto, prima di approdare al partito comunista aveva avuto una lunga militanza nel partito radicale ed era tra gli animatole del circolo culturale Antonio Banfi frequentato da tutto il gruppo impegnato nella costruzione del sindacato scuola.

Qualche anno dopo la strage, quando avevo ripreso ad insegnare ho scoperto che gli Editori Riuniti avevano pubblicato un suo lavoro postumo, frutto del riassemblaggio di appunti e materiale didattico: Lineamenti di Storia del Pensiero Scientifico. Ne feci un largo uso nei primi tre anni di ritorno al Frisi dopo il 1977. Questa è la sua biografia Alberto. Una questione scientifica

Luigi Pinto

No alla scuola di classe, no alla selezione, corsi abilitanti occupazione

Luigi veniva dal sud, dalla provincia di Foggia, era perito industriale e nella vita, prima di approdare all’insegnamento a tempo indeterminato di Applicazioni Tecniche nella scuola media, aveva fatto un po’ di tutto, concorso per le ferrovie, lavoro al Petrolchimico di Marghera, cambi frequenti di residenza nel tentativo di costruirsi una vita come capita ai giovani volenterosi del sud.

Ma anche l’insegnamento nel bresciano non è semplice, levatacce per andare con i mezzi pubblici da Brescia a Montisola, sul lago di Iseo, traghetto incluso. Riprendo dalla biografia di FLC Luigi una storia semplice

due sembrano, tra le altre, le principali qualità dell’uomo: la generosità e il senso di responsabilità.

La prima significava,  per Luigi, disponibilità, attenzione, rispetto, cura degli altri: parenti, amici, alunni, colleghi, compagni del partito e del sindacato.

La seconda, dovere, coerenza, serietà, consapevolezza, rigore nel lavoro e nella militanza politica e sindacale. L’espletamento del dovere comportava per lui, animato da un profondo senso di giustizia sociale, la rivendicazione dei diritti dei lavoratori, il miglioramento delle loro condizioni di vita, l’innalzamento della qualità della scuola, l’allargamento delle possibilità occupazionali.

A ciò lo sollecitavano i suoi convincimenti politici, la sua simpatia per Avanguardia Operaia e il suo impegno sindacale, ma anche la sua condizione di emigrante, di proletario, di giovane meridionale, costretto, come tanti lavoratori del Sud, a cercare fortuna lontano dal luogo d’origine e dalla famiglia.

per chiudere

31 maggio 1974 – i funerali

Ogni volta che mi imbatto nelle stragi fasciste mi prende una sorta di malinconica rassegnazione tra processi che non finiscono mai, condanne da cui restano fuori una bella fetta di mandanti, una specie di storia infinita che, si spera, sia finita negli anni 80. E ti resta sempre una domanda, che non mi rimane quando mi documento sul terrorismo rosso: sappiamo tutto? Li abbiamo presi tutti? Chi ha organizzato e commesso le stragi sta pagando?

E’ questa la ragione per cui è necessario che la destra italiana non abbia paura di tirare la riga nei confronti non tanto e non solo dei fascisti stragisti ma anche di tutto quel mondo ambiguo che le circonda fatto di tolleranze  e di va beh.

 




Ilaria Salis + o –

Ilaria sorridente e non ammanettata

Ieri si è tenuta la prima udienza di merito del processo a Ilaria Salis e l’abbiamo vista arrivare in taxi accompagnata dai genitori, finalmente senza manette e catene.

Ho cercato di documentarmi sul processo,  ma l’unica cosa che sembrava fare notizia era la protesta del padre circa il fatto che il tribunale ha reso pubblico il suo domicilio.

Astrattamente si potrebbe pensare ad un rischio di pericolosità (indirizzo già presente sui social della estrema destra ungherese) ma se come pare, Ilaria arriva in Taxi e non ha particolari protezioni da parte delle autorità, a qualunque mal o ben intenzionato bastava una mezza giornata di ricerca per capire da dove arrivava. Mi pare dunque che questo sia un elemento da far decadere. Ormai si sa e da oggi i giornalisti inizieranno a presidiare la zona.

In aula sono stati sentiti due testimoni e una delle vittime e nessuno di loro ha riconosciuto Ilaria; riconoscimento difficile visto che la aggressione sarebbe avvenuta a viso coperto e alle spalle e dunque gli elementi a favore o sfavore di Ilaria andrebbero cercati in elementi di dettaglio corporeo.

Prossima udienza a settembre e, per quanto ho capito, l’accusa cercherà di seguire la linea del processo indiziario; per questa ragione sarà importante da parte della difesa procedere a contro-interrogatori accurati e presentare prove del tipo “a quell’ora e quel giorno Ilaria stava in quest’altro posto e dunque non poteva essere parte del commando di pestatori“.

In assenza di dati descrittivi più dettagliati ho visto il video con la lunga dichiarazione di uno dei suoi due avvocati italiani e in essa ci sono degli elementi convincenti e altri che lo sono meno.

costituzione fuori termine

Zoltan Toth, l’aggredito sentito oggi non era previsto in questa udienza perché a gennaio, quando è scaduto il termine per farlo, non si era costituito e oggi la corte ha deciso di accoglierne la richiesta fuori termine. Lo stesso Zoltan ha presentato un referto per tre costole rotte redatto tre mesi dopo la aggressione mentre a caldo, l’ospedale di Budapest non aveva riscontrato nulla. Sembra di capire che l’aggredito ci marci, visto che contemporaneamente ha presentato, sempre fuori termine, una cospicua richiesta di risarcimento. Al giudice monocratico, che più che un giudice terzo sembra un PM tutto ciò va bene perché serve ad avvalorare la imputazione di lesioni che, potenzialmente, avrebbero potuto condurre a morte.

Come sanno tutti, il rispetto delle procedure in un processo, è la base della civiltà giuridica.

atti in ungherese

Gli atti continuano ad essere disponibili solo in ungherese; la corte dichiara che non ci sarebbe alcun problema perché in udienza Ilaria dispone di un interprete. Ma il rito ungherese è di tipo inquisitorio e non accusatorio. E’ l’accusato a dover dimostrare la sua innocenza e non il contrario e dunque le carte sono importanti, molto importanti, perché vanno eventualmente contestate, bisogna impedire che siano a disposizione del solo giudice e non delle parti creando uno squilibrio palese, bisogna poterle usare durante la testimonianza di vittime e testimoni. Attualmente tutto ciò lo fa il giudice che ha anche il potere di emettere ordinanze inappellabili.

la linea difensiva del rinvio

L’avvocato protesta ma, contemporaneamente, fa una dichiarazione che mi ha lasciato allibito: abbiamo incaricato della traduzione una società specializzata di Milano e le traduzioni saranno disponibili solo a novembre. Su questa baseaveva richiesto il rinvio a novembre del dibattimento. Ora io mi rendo conto che nel regno del bollo tondo bisogna mettere a posto tutti i bolli, ma non credo che ci voglia più di una settimana per tirar fuori quello che conta ai fini processuali, tradurlo e prepararsi al controinterrogatorio; a settembre mancherà qualche timbro e qualche atto inessenziale ma la difesa si dovrebbe poter fare senza grandi problemi.

Ho avuto difficoltà a raccogliere notizie. Lo ha fatto solo il Manifesto. Mi chiedo se i quotidiani italiani abbiano inviato a Budapest dei cronisti giudiziari o degli esperti di cronaca rosa: le manette, la diffusione dell’indirizzo e le proteste del padre. Sul merito del processo nulla.

Io sono dalla parte di Ilaria, del suo diritto ad un processo giusto e rapido, ma non sono per la linea  del fare di ogni erba un fascio. I fasci li lascerei ai fasci e alle demokrature. Se ci saranno novità significative aggiornerò questo articolo.