Hannah Arendt – Margarethe von Trotta

Margarethe Von Trotta: Hanna ArendtHanna Arendt (2012) avrebbe potuto essere una biografia della grande filosofa tedesca, magari una biografia intellettuale, intorno al suo lavoro monumentale sulle "Origini del totalitarismo" che ha portato la cultura europea a rivedere quello che era stato un dogma: il nazifascismo è stato un momento di impazzimento della nostra civiltà, lo stalinismo e il comunismo sono stati un regime dispotico ma che, rispetto al nazismo, va messo su un altro piano e merita un diverso giudizio morale. Hanna Arendt ha scavato in profondità alla ricerca degli elementi comuni. Così, da lei in poi, si parla di totalitarismo e le distinzioni si fanno dopo.

Il mio commento a caldo, anche sotto l'influenza della interpretazione asciutta di "Barbara Sukowa", è stato "una donna di cui innamorarsi": le pause, i silenzi, gli spiazzanti cambi di fronte.

Margarethe von Trotta non se l'è sentita di affrontare un tema del genere in meno di 2 ore di immagini e dialoghi. Non si può condensare la complessità, per di più su di un argomento così spinoso, in cui la teoria politica deve fare i conti con l'etica, con la filosofia e con la storia.

Così si è concentrata sul personaggio e lo ha fatto prendendo spunto dal processo ad Adolf Eichmann (Gerusalemme 1961) cui la Arendt presenziò, su sua stessa richiesta, come inviata della rivista "The New Yorker".

Eichmann fu condannato a morte ed impiccato nel maggio del 1962. Allora avevo 15 anni e da buon quindicenne pensavo ad altro e non ne ho memoria se non per qualche fuggevole inmmagine del TG nazionale di allora.

Il resoconto della Arendt uscì in 5 puntate nel 1963 e scatenò molte polemiche, in particolare sul tema della "collaborazione di fatto" data da esponenti delle comunità ebraiche alla organizzazione di Eichmann.

In realtà l'obiettivo di Hanna Arendt era un altro, quello di riflettere sul grigiume, sulla oggettività, sulla pervasività del male, sulla capacità del nazismo di trasformare tutti, carnefiici e vittime in complici atraverso la segmentazione delle responsabilità.

Nel film c'è lei, ci sono le sue riflessioni, le repliche spiazzanti, l'abtudine a pensare. Mi ha fatto venir voglia di rileggere "la banalità del male" alla luce della sceneggiatura della Von Trotta e magari riprendere in mano alcuni libri letti solo un paio d'anni fa come "sulla rivoluzione – 1963", "la disobbedienza civile ad altri saggi – 1953", "la condizione umana – 1958". Per inciso il titolo originale è "Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil".

Di fronte alle autorità accademiche che ne minacciano l'esonero Hanna Arendt tiene un vera lezione magistrale di fronte ai suoi studenti che la ascoltano come si ascolta un grande maestro. Il tema è lo stesso anazzito da Primo Levi nella "zona grigia".


Quando il New Yorker mi ha mandato a fare il reportage sul processo di Adolf Eichmann, supponevo che la corte avesse un unico interesse: di soddisfare le esigenze della giustizia.
Non era un compito facile, perche' la corte che processava Eichmann aveva a che fare con un crimine che non poteva trovare nei codici di legge.
E un criminale come quello era sconosciuto ai tribunali prima dei processi di Norimberga. Eppure, la corte doveva definire Eichmann come un uomo da giudicare per i suoi atti.
Non si processava un sistema, ne' la storia, ne' alcun -ismo, nemmeno l'antisemitismo, ma solo una persona.
Il problema con un criminale nazista come Eichmann era che lui insisteva nel rifiutare ogni implicazione personale, come se non ci fosse rimasto nessuno da punire ne' da perdonare.
Contraddiceva continuamente le affermazioni del pubblico ministero sostenendo che non aveva mai fatto nulla di sua propria iniziativa, che non aveva mai fatto nulla di sua intenzione ne' in bene ne' in male, che aveva solo obbedito agli ordini.
Questa scusa tipica dei nazisti mostra chiaramente che il piu' grande male del mondo e' il male compiuto da persone insignificanti, il male compiuto da persone che non hanno nessun motivo, nessuna convinzione, senza cuore malvagio o  volonta' demoniaca.
Da esseri umani che rifiutano di essere persone. Ed e' questo fenomeno che io ho chiamato "la banalita' del male".


Non ho mai incolpato il popolo ebraico!
La resistenza era impossibile. Ma forse c'e' una via di mezzo tra la resistenza e la collaborazione. E solo in questo senso dico che forse alcuni capi ebrei avrebbero potuto comportarsi diversamente.
E' estremamente importante porsi queste domande, perche' il ruolo dei dirigenti ebrei da' la visione piu' scioccante dell'ampiezza del tracollo morale che i nazisti hanno provocato
nella rispettabile società europea.
E non solo in Germania ma in quasi tutti i paesi. Non solo tra i persecutori. Ma anche tra le vittime.


Io sono, naturalmente, come sapete, ebrea. E sono stata attaccata come ebrea autolesionista che difende i nazisti e disprezza il suo stesso popolo.
Questo non e' un argomento. Quella e' diffamazione!
Non ho scritto nessuna difesa di Eichmann. Ma ho cercato di conciliare la sconvolgente mediocrita' dell'uomo con le sue orrende azioni.
Cercare di capire non e' lo stesso che perdonare. Considero mia responsabilita' capire. E' il dovere di chiunque osi scrivere su questo argomento. Fin da Socrate e da Platone, noi consideriamo il pensiero come il dialogo silenzioso dell'io con se stesso.
Rifiutando di essere una persona, Eichmann ha completamente abbandonato quell'unica qualita' essenzialmente umana: la capacita' di pensare.
E di conseguenza, non era piu' in grado di produrre giudizi morali. Questa incapacita' di pensare ha permesso a molti uomini ordinari di commettere azioni malvagie di eccezionale portata, che non si erano mai viste prima.


Tutti cercano di dimostrarmi che sbaglio. Ma nessuno riconosce il mio vero unico errore.
Il male non puo' essere banale e radicale insieme.
Il male e' sempre estremo. Mai radicale.
Puo' essere profondo e radicale soltanto il bene.

 




L’ultimo treno (Edges of the Lord): Yurek Bogayevicz

L'ultimo treno (2001) di Yurek Bogayevicz ha avuto titoli diversi a seconda dei paesi in cui è uscito e mi pare che siano tutti più efficaci di quello scelto per l'Italia: Edges of the Lord (originale USA), Hiver 42 au nom des enfants, Hijos de un mismo Dios. Il treno c'è (quello che porta gli ebrei ai campi di sterminio e passa tutte le notti) ma si trova sullo sfondo ed entra in scena solo nel finale. Nelle locandine di quasi tutti i paesi c'è scritto "nella tradizione inaugurata da La Vita è bella" e mi pare che sia così: si guarda alla tragedia con gli occhi di bambini, ma questi bambini, intanto crescono.

Il film me lo sono guardato ieri per una prima volta e, viste le emozioni che ha suscitato in me, me lo sono riguardato stamattina prendendo un po' di appunti. La Shoa è vista con gli occhi degli adolescenti o meglio essa rappresenta il contesto in cui avviene rapidamente il passaggio alla condizione di adulto.

Con l'eccezione del prete (William Defoe che interpreta bene il suo ruolo ma secondo me è, fisicamente, troppo americano) i protagonisti sono dei bambini nella fase di passaggio alla adolescenza (tra i 7 e i 12 anni) e la loro interpretazione è assolutamente di alto livello (in particolare Tolo con la sua faccia innocente, gli occhioni azzurri e la capacità di interpretare la follia con estrema naturalezza).

la storia

Romek vive a Cracovia in una bella casa quando i genitori, che attendono le deportazioni naziste, nel tentativo si salvarlo lo affidano (contro la sua volontà) ad un contadino (Gniecio) che lo farà passare per un lontano parente sfollato per i bombardamenti. Così Romek approda in questo paesino di campagna di cui vediamo panorami grandiosi e in particolare quella che sembra una vecchia cava di marna trasformata in un lago (pareti di calcare, acqua limpida e boschi). Qualche casa qua e là, una chiesa cattolica il cui prete (che conosce la provenienza di Romek) ha il difficile compito di fare da educatore a dei ragazzini tra loro diversi (per sensibilità, cultura e religione).

La famiglia di Gniecio è composta da una moglie, da due figli Vladek (coetaneo di Romek, duro, disincantato e un po' chiuso) e Tolo (sugli 8 anni, che vivrà una sorta di innamoramento mistico nel quale farà da Redentore e Salvatore). C'è poi Maria (anche lei coetanea, ma fisicamente più sviluppata e con i primi turbamenti del sesso) . Accanto alla famiglia di Gniecio c'è quella del vicino Kluba che, a sua volta ha due figli, il minore coetaneo del gruppo e Robal, più grande (sui 15 anni) e senza scrupoli (come il padre).

Gniecio, come molti contadini, nasconde un maiale nella cantina della sua isba e sarà Kluba ad uccidere Gniecio quando vanno insieme in città  per venderlo di nascosto. Kluba che ha ucciso per appropriarsi del danaro riporta il cadavere di Gniecio fingend una sparatoria con i tedeschi. Il prete scoprirà la responsabilità di Kluba ma sarà ricattato sul fatto di nascondere un bambino ebreo proprio mentre Romek, di nascosto ascolta la conversazione.

La vita dei 5 ragazzini scorre tra un alternarsi di scene di violenza del mondo esterno e la normalità della vita contadina, il gioco tra adolescenti, le prime pulsioni di sesso,il rapporto con il prete.

Sarà lui, nell'ambito del catechismo a scatenare il progressivo allontanamento dalla realtà da parte di Tolo. Il prete propone un gioco in cui ciascuno dei ragazzi dovrà (estraendo un bastoncino con scritti i nomi) immedesimarsi con uno degli apostoli, documentarsi ed identificarsi con il personaggio. Tolo si accorge che ce ne è uno bianco e decide che sarà il suo, rappresenterà Gesù. Ed è così che Tolo si immerge progressivamente in un altro mondo in cui lui dovrà svolgere il ruolo di redentore, sacrificarsi per consentire il trionfo del bene e il ritorno dei papà (il suo, quello di Romek, quello di Maria).

Romek e Vladek scoprono che i due figli del vicino, di notte, vanno a depredare i deportati ebrei che saltano dalle bocche di lupodel treno merci ed è in questa occasione che che Romek informa Vladek delle responsabilità di Kluba nella morte di Gniecio. Vladek decide di vendicarsi e, in occasione di un'altra notte al treno, spara e uccide Robal che sta depredando dei deportati ("noi non abbiamo più un padre, tuo padre non avrà più un figlio".

Arrivano i nazisti e trovano Romek con in mano la machine-pistole e, a terra il bottino. Lo prendono per uno che ruba agli ebrei e ne fanno un idolo. Gli mettono il berretto da colonnello delle SS e lo fanno girare su un sidecar. Si fa mattina e mentre i deportati vengono ricaricati sul treno Romek viene costretto a mostrare pubblicamente le tecniche con cui fa saltar fuori i gioielli nascosti dagli ebrei (sul corpo o nei tacchi delle scarpe). Vladek viene scambiato per un ebreo e viene salvato da Romek che lo dichiara suo complice mentre questi grida "non sono ebreo, sono polacco". Vladek viene creduto perché il suo pene non è circonciso. Per ultimo, da sotto il treno sbuca Tolo che, mentre Vladek grida che è suo fratello, nega e (preso dal suo ruolo di Gesù Redentore) si fa mettere sul treno per il campo di sterminio.

Alla fine c'è la scena della prima comunione; la fa anche Romek con il prete che gli passa un ritaglio di ostia non consacrato. E Romek conclude, su un panorama di campagna mozzafiato: non dimenticherò mai Tolo e la generosità di quelli che mi hanno aiutato a rimanere quello che sono.

il film

Nel film il nazismo rimane sullo sfondo e fa delle rapide apparizioni come in una delle prime scene in cui due poveri vecchi, che avevano nascosto dei maialini, vengono ammazzati a freddo davanti ai bambini mentre il prete è costretto a rincorrere i maiali per cattturarli.

Ci sono invece tutti gli effetti di distruzione delle persone, di crudeltà, di violenza generati dal nazismo ma soprattutto dalla guerra: l'antisemitismo di un certo mondo e cattolicesimo polacco di cui si è già scritto molto, la trasformazione di ragazzini in belve. Robal mette nel piatto delle elemosine uno degli anelli che ha rapinato e quando Romek gli fa osservare che "se non è di sua madre sarà della madre di qualcun altro" la risposta sarà un pestaggio violento e tentativo di annegamento seguito dallo stupro di Maria.

Il tentato omicidio di Romek e lo stupro di Maria sono particolarmente crudi eppure non c'è mai violenza gratuita; si intuisce ma non si vede e la scena di Maria che, in posizione fetale, si butta nell'acqua per lavarsi e purificarsi è bellissima.

Segnalo ancora tutto l'itenerario mistico di Tolo: la corona di spine nascosta sotto il berretto, il tentativo di ficcarsi dei chiodi nella mano, la scena del battesimo degli amici mentre lui fa il Cristo, la danza sotto la pioggia come rito di purificazione, la crocefissione con delle corde su di un albero con i rami a V.

Romek, quando arriva in campagna, è spaesato; è un cittadino e diventa pian piano grande in mezzo alle tragedie e ai riti di campagna: la sera in cui Gniecio dovrà portare il maiale in città i tre ragazzi, dal solaio dove dormono, fanno il verso ai mugolii, ai sì sì, no no, ancora ancora, della madre che fa all'amore prima del distacco dal marito (la imitazione di Tolo è esilarante). Ad un certo punto, dopo aver visto i treni, Romek capisce che il papà non verrà mai più a prenderlo e butta via i ciotoli che cumulava ogni sera come contatore del tempo. I tre una sera vanno in cantina e schiacciano la pancia del maiale per produrre flatulenze di metano e usando una candela fanno una specie di lanciafiamme, Maria (che era la fidanzata di Vladek, dopo che il prete le ha parlato della Maddalena), porta Romek nel granaio e gli chiede se vuole vederla o se almeno può guardarlo; Vladek è imbarazzato mentre Maria fa tutto con naturalezza e con pulizia; alla fine dentro una botte piena di grano giocheranno a buttarselo addosso.


Il mio voto: 10 – assolutamente da vedere


 




Fuga per la libertà – l’aviatore: Carlo Carlei

L'aviatore (2007) è un film per la TV coprodotto da mediaset e dalla Angelo Rizzoli e racconta in forma romanzata la storia vera di Massimo Teglio (Sergio Castellitto) e della sua attività svolta a favore degli ebrei genovesi tra il 1943 e il 1945.

Essendo un film per la TV a target Mediaset la parte un po' da foeilleton è stata accentuata e sono queste le parti che mi hanno dato più fastidio nel corso della visione, che mi è però servita a conoscere l'attività del DELASEM (Delegazione per l'Assistenza degli Emigranti Ebrei) – si veda).

Massimo Teglio è un industriale genovese (ebreo), pilota di idrovolanti e amico di Italo Balbo e la vicenda del film (ambientato tra il 43 e il 44) riguarda i primi rastrellamenti di ebrei operati dai nazisti con la collaborazione dei fascisti.

C'è il colonnello delle SS Feuerbach fanatico e corrotto (che oltre che agli ebrei si dedica alla confisca ed esportazione in Svizzera di opere d'arte). C'è Osvaldo Farina (Marco Giallini) gerarca della RSI e amico di Massimo Teglio che rappresenta bene l'ambivalenza di molti personaggi della RSI che vedevano nella collaborazione con i nazisti un male necessario.

Quanto Teglio è coraggioso, idealista e progressivamente dedito alla causa umanitaria, Farina è ambivalente: ha i suoi valori morali e tra questi c'è l'amicizia, ma è anche interno al piccolo potere che gestisce, sempre incerto tra il subire e il ribellarsi. L'amicizia finisce quando ci va di mezzo la propria vita ed è la scoperta che il colonnello nazista, oltre che un sanguinario assassino, è un ladro a far scattare il meccanismo della redenzione.

Ho trovato migliore la prima parte del film quando la sceneggiatura descrive il contesto e non è ancora piegata alle esigenze del polpettone. Buone le interpretazioni di Castellitto e soprattutto di Giallini.


Il mio voto: 6 scarso




Jona che visse nella balena: Roberto Faenza

Jona che visse nella balena (1993) è iun film che quando uscì fu molto utilizzato nelle scuole non solo per parlare della Shoa ma per affrontare il tema della crescita.

Jona è un bambino olandese e il film racconta la sua storia, ma non si tratta di una fiction perché il film è tratto dal romanzo autobiografico "Anni d'infanzia" in cui Jona Obersky, un fisico olandese ebreo nato nel 1938 racconta i suoi anni dal 1942 al 1945 quando, insieme alla sua famiglia, seguì tutto l'iter del processo di annientamento studiato dai nazisti.

Se non la conoscete incominciate con l'ascoltare Gam gam, la canzone hyddish che fa un po' da tormentone all'intero film. Ne trovate diverse versioni su youtube e questo è il link alla versione tratta dal film.

E' un film per i grandi che, insieme ai genitori, può essere visionato anche da bimbi sopra i sei anni (meglio 10) perchè ci parla di tante cose che riguardano il diventare grandi e questo a Jona capita forse troppo in fretta e attraverso il dolore ma Roberto Faenza ce lo racconta in maniera soffice sapendo unire alla perfezione la storia e le immagini ed utilizzando sempre e comunque il punto di vista di un bambino.

La famiglia Obersky sogna di andare in Palestina e passa attraverso tutte le fasi della Shoa: la perdita del lavoro, la discriminazione, la spersonalizzazione, la ghettizzazzione, il non sapere, la deportazione a Bergenbelsen e poi il viaggio finale verso Auschwitz (di Jona e della mamma dopo che il padre è già morto nel lager) che non si conclude perché il treno viene bombardato dai russi.

Il fatto di adottare il punto di vista di un bambino fa sì che il lager ci appaia meno crudele del solito: c'è una infermeria, c'è il cuoco che, di nascosto, dà da mangiare ai bambini gli avanzi delle SS, il lavoro del padre (che morirà di stenti) non si vede mai, nella infermeria di Bergenbelsen, con la complicità del medico (corrotto con dei preziosi sigari) mamma e papà provano persino a fare l'amore con il problema di dove mettere Jona.

Come ci ha raccontato Primo Levi, vediamo semmai come il sistema gerarchico trasformi anche le vittime in carnefici. La cerimonia di iniziazione di Jona da parte dei compagni più grandi prevede di mandarlo allo sbaraglio a schernire un guardiano (gli va bene) e in un secondo momento il rimanere chiuso dentro un magazzino-obitorio pieno di cadaveri. Per il suo coraggio i compagni lo nomineranno "caporale".

La crescita accelerata di Jona avviene quando anche la madre muore di stenti e di esaurimento mentale dopo che la tragedia è finita (sono ospiti in un villaggio dell'est dove si mangia, si circola liberamente e la mamma sta in ospedale).

La comunicazione che la mamma è morta da parte di una contadina che pensa che lui sappia, l'amica che se ne va ma gli lascia un pupazzo di pezza uguale a quello con cui giocava a 4 anni, il ritorno ad Amsterdam dagli amici del padre che gli erano stati vicini nella prima fase della ghettizzazione, una bicicletta in regalo che lo riporta ad una delle scene iniziali quando il padre fa funzionare un ciclostile che ruota azionato dalla catena di una bici, la scelta di ricominciare a mangiare: attraverso il dolore Jona ricomincia a vivere e, alla fine, batte sui tasti della macchina da scrivere JONAH come gli aveva insegnato papà.

Bel film da usare nelle scuole.




Amen. Costa Gavras

Della uscita de "Il vicario" (1963) di Rolf Hochhuth ho un vago ricordo di polemiche (avevo 17 anni). Nella prima metà degli anni 60 era una colpa grave affrontare il tema della scarsa azione del Vaticano nei confronti del nazismo. Nel 1965 il tentativo di rappresentare l'opera a Roma durò un solo giorno. La pièce venne allestita all'interno di un seminterrato trasformato in sala teatrale, con la partecipazione di Gian Maria Volonté. Il giorno successivo la Polizia fece chiudere il teatro per mancanza del certificato di agibilità dei locali e, nei giorni seguenti, il Prefetto di Roma vietò lo spettacolo in quanto contrario alle norme contenute nel Concordato.

Costa Gravas, il regista più politico del cinema europeo (Z l'orgia del potere è quello più noto), non fa mai dei documentari: parla di cose vere e ci mette dentro una storia il che rende il risultato ancora più efficace.

Il tema del film è quello della "cautela" del Vaticano nei confronti del nazismo, ma ci sono anche una serie di comprimari perché accanto a Pio XII, alla diplomazia vaticana, alla Curia (che fa venire in mente il "non ce la faccio più" di Ratzinger), ci sono anche i diplomatici americani ed inglesi accreditati presso la Santa Sede. Nelle prime scene che acommpagnano i titoli di testa un giovane ebreo si reca a Ginevra alla Società delle Nazioni e si spara al cuore per denunciare la indifferenza del mondo. Il "punto" dopo Amen non è un vezzo. Così sia e non c'è altro da dire. Per questo la locandina con la croce che diventa svastica e viceversa, disegnata da Oliviero Toscani riassume bene il messaggio del film (ne fu vietata l'affissione tranne nelle sale, ed eravamo ormai nel 2003).

Il Vaticano aveva due problemi: non schierarsi per poter essere un riferimento religioso anche nei paesi di lingua tedesca, trovare il modo di battere il comunismo la cui ossessione era superiore al pericolo nazista. In una scena del film PioXII lo dice esplcitamente all'ambasciatore americano (che rimane allibito): lasciamo al signor Hitler il compito di sconfiggere Stalin e poi cercheremo un accordo.

Nelle prime scene si vedono visite ai bimbi tedeschi handicappati: suore, medici che sorridono, cartelle cliniche nelle mani dei ragazzi che si recano al controllo. Poi gli autobus del programma eutanasia, la doccia, le suore che escono e la connessione del tubo di areazione allo scarico di un grande motore diesel. In questo modo muore la nipote di Kurt Gerstein, ufficiale delle SS, chimico che lavora presso l'ufficio disinfestazione e si occupa di depurazione delle acque e lotta al tifo attraverso la disinfestazione dai pidocchi con lo Ziklon B (l'acido cianidrico, detto anche acido prussico). Gerstein vuole capire, la Chiesa si muove, qualcosa si inceppa nel meccanismo nazista che uccide e comunica poi la morte per malattia, come se fossero tanti casi individuali. Il progetto ad un certo punto verrà fermato o comunque molto rallentato. Per la Chiesa gli handicappati e gli Ebrei erano cose molto diverse.

Il tenente per via delle competenze viene utilizzato dalla macchina di morte per migliorare il meccanismo (cristalli migliori, modalità di conservazione dello Ziklon, cautele) e l'errore, se di errore si può parlare, è quello di portarlo a vedere lo Ziklon in azione. Gerstein rimane sconvolto, si sente un buon tedesco e un buon cristiano e cerca in tutti i modi di informare. Nei suoi comportamenti c'è qualcosa di strano: l'alternarsi dell'orrore, della voglia di boicottare, e la professionalità nel fare il suo lavoro. Nel film vediamo anche un suo vecchio compagno che lavora nella Wermacht che inorridisce nello scoprire che è un SS, ma nel contempo si occupa di efficienza nella organizzazione dei treni e non vuol sapere cosa trasportino.

Il treno (vedi locandina) è una trovata filmica di grande efficacia; lo vediamo comparire più volte nel succedersi delle stagioni con un sottofondo musicale molto coinvolgente. I treni vanno con i vagoni ben chiusi e tornano con i vagoni aperti e Gerstein li vede. Nessuno lo ascolta; le autorità vaticane a Berlino minimizzano e non vogliono sentire ragioni, tranne un giovane prete, gesuita e figlio di un nobile romano addetto al soglio del Papa. Riccardo Fontana è a Berlino ad imparare la diplomazia, conosce bene la curia vaticana ed è tra quelli che possono arrivare al Papa.

Adesso sono in due a tentare di far sapere ma nemmeno l'esistenza di un testimone oculare smuove le cose. Non le smuove nemmeno la deportazione degli ebrei romani che avviene mentre Gerstein e Fontana sono a Roma. Il giovane prete, già deluso dalla promessa di un discorso radio di denuncia da parte del papa, discorso si rivelerà invece banale e precotto, decide di testimoniare in proprio, si mette la stella gialla e parte con gli dalla Tiburtina con gli ebrei romani. Finirà nei forni e la scena dello smistamento degli abiti da parte del Sonderkommando che trova la tonaca nera è particolarmente efficace.

Dal punto di vista della logica delle SS il film è dominato dalla figura del "dottore" un personaggio, cinico, efficiente, gentile e intelligente che, nelle ultime sequenze, rivediamo a Roma mentre uno dei cardinali della diplomazia vaticana gli organizza l'espatrio in Argentina.

Gerstein, nella fase finale del nazismo, sconvolto dall'assassinio di Fontana cerca rifugio presso gli Americani. Lo mettono in galera, scrive un memoriale che si rivelerà decisivo sul piano storico, non viene creduto per quanto riguarda la sua battaglia per informare e si impicca in cella. Sarà riabilitato venti anni dopo. Non dobbiamo farci ingannare da un facile anticlericalismo. Costa Gavras non ce l'ha solo con il Vaticano e con i silenzi di Pio XII ce l'ha con le responsabilità di tutti: di quelli che hanno taciuto, di quelli che hanno fatto affari, di quelli che hanno obbedito.

 




Defiance – I giorni del coraggio: Edward Zwick

Defiance (2008) è la trasposizione cinematografica di un romanzo del 1993 Gli ebrei che sfidarono Hitler basato su fatti realmente accaduti. Gli americani ne hanno fatto un film semi-colossal in cui si mescolano l'abilità nel produrre war-film e il tentativo di cogliere gli aspetti speciali di questa storia. Per saperne di più si può vedere la storia dei fratelli Bielski dalla Enciclopedia dell'Olocausto dove è possibile anche farsi una idea, con una cartina dettagliata, delle zone di resistenza attiva degli ebrei nella zona delle foreste tra Polonia, Bielorussia e Lituania.

Defiance si traduce con disfida ma anche, in questo caso, con Resistenza. La vicenda si svolge nella Polonia Orientale che, dopo la spartizione Hitler-Stalin era diventata Bielorussia (sotto il controlo dell'URSS)  e venne poi invasa dai nazisti nell'estate del 1941 (operazione Barbarossa). L'azione dei nazisti si caratterizzò subito con la decisione di sterminare gli ebrei dell'est attraverso l'azione degli Einsatzgruppen che ammazzarono sul posto (prima dei campi di sterminio) circa un milione e mezzo di ebrei tra la Polonia orientale, i paesi baltici, la Bielorussia e l'Ucraina. Gli ebrei venivano fatti ammassare nelle città avvalendosi dell'azione di collaborazionisti ucraini e bielorussi e poi ammazzati in grandi fosse uno sull'altro prevalentemente con il colpo alla nuca. Nel film ad un certo punto, ai margini della foresta ci si imbatte in una di queste fosse.

Il film (girato nelle foreste della Lituania) non poteva essere totalmente fedele alla vicenda, per la quale rinvio al link già citato, ma salva la sostanza della storia dei fratelli Bielski Tuvia, Zus e Asael. L'audio è in taliano quando gli intepreti parlano in polacco-bielorusso mentre è in lingua originale per le numerose parti in russo e anche in tedesco e dunque va associato ai sottotitoli perché i colloqui in russo sono essenziali per la comprensione di alcune dinamiche.

Tuvia è il capo carismatico ed ideologo; il suo obiettivo è di salvare quanti più ebrei si possa dando loro la possibilità di vivere senza necessariamente combattere anche se combattere si rivelerà necessario ("preferisco salvare una vecchia donna ebrea piuttosto che uccidere dieci soldati tedeschi").

Zus è per la lotta aperta e per garantire le condizioni della sopravvivenza. Lo scontro tra i due fratelli sarà su questo punto e porterà Zus, per un certo periodo, a spostare i suoi combattenti nelle file dell'Armata Rossa. Per il primo bisogna salvare quanti più ebrei sia possibile e, quando giungerà la notizia dell'imminente distruzione di un ghetto, Tuvia si occuperà attivamente perchè la intera comunità vada nella foresta. L'approccio è quello di salvare tutti (le donne, i vecchi, i bambini) e le fonti ci dicono che dei 1'200 ebrei costituenti il gruppo che alla fine si salverà dopo 3 anni di vita nei boschi, circa il 70% era costituito da queste categorie.

Nelle oltre due ore di proiezione si tratta della prima fase della storia dei Bielski con il primo inverno nella foresta ed un gruppo relativamente ridotto. Si susseguono scene di lotta armata, il rapporto con i contadini per gli approvvigionamenti, la costruzione e lo spostamento dei campi, il rapporto con i partigiani dell'Armata Rossa, il freddo, la fame, una epidemia di tifo, la costruzione di rapporti affettivi, l'analisi di un po' di figure di ebrei tipici (il rabbino, l'intellettuale socialista, le donne, gli artigiani).

L'azione dei nazisti costringe a spostarsi più a nord, superare le paludi ed addentrarsi ulteriormente nelle foreste dove, nei due anni successivi si arriverà alla costruzione di un vero e proprio villaggio con scuola, ospedale ed attività di tipo logistico in cui si mettono a frutto le abilità degli artigiani (metalli, concia delle pelli, mulino) come si vede nella mappa del campo cui sovraintendeva Tuvia.

Primo Levi aveva romanzato un episodio di resistenza ebraica in Se non ora quando qui siamo di fronte a un fatto storico. Dei tre fratelli Asael, che nel film è il più giovane ed inesperto, si arruolerà poi nella Armata Rossa e morirà in battaglia nel 1945; gli altri due, apparentemente diversi, combatteranno in Israele nei primi anni di costruzione del focolare ebraico e si trasferiranno poi negli USA. Tutte le volte che mi imbatto in un episodio in cui il popolo ebraico non si è limitato a portare pazienza mi ci appassiono.


Il mio voto: 9




La zona grigia: Tim Blake Nelson

La zona grigia (2001) prende il nome da uno dei capitoli dei Sommersi e salvati di Primo Levi e tratta la vicenda della ribellione di uno dei Sonderkommando di Auschwitz.

Levi ne parla nel suo ultimo libro di riflessione sulla Shoa e lascio a lui la parola perché il film altro non è che la sua trasposizione cinematografica. Le parti in corsivo sono di Levi mentre quelle in tondo sono le mie aggiunte, incluse le emozioni suscitate dalla visione del film. Per ragioni legate alla recensione ho spostato in fondo le considerazioni di Levi sulla Zona Grigia che stavano invece prima del racconto.

Miklos Nyiszli, medico ungherese, è stato fra i pochissimi superstiti dell'ultima Squadra Speciale di Auschwitz. Era un noto anatomo-patologo, esperto nelle autopsie, ed il medico capo delle SS di Birkenau, quel Mengele che è morto pochi anni fa sfuggendo alla giustizia, si era assicurato i suoi servizi; gli aveva riservato un trattamento di favore, e lo considerava quasi come un collega. Nyiszli doveva dedicarsi in specie allo studio dei gemelli: infatti, Birkenau era l'unico luogo al mondo in cui esistesse la possibilità di esaminare cadaveri di gemelli uccisi nello stesso momento. Accanto a questo suo incarico particolare, a cui, sia detto per inciso, non risulta che egli si sia opposto con molta determinazione, Nyiszli era il medico curante della Squadra, con cui viveva a stretto contatto.

Ebbene, egli racconta un fatto che mi pare significativo. Le SS, come ho detto, sceglievano accuratamente, dai Lager o dai convogli in arrivo, i candidati alle Squadre, e non esitavano a sopprimere sul posto coloro che si rifiutavano o si mostravano inadatti alle loro mansioni. Nei confronti dei membri appena assunti, esse mostravano lo stesso comportamento sprezzante e distaccato che usavano mostrare verso tutti i prigionieri, e verso gli ebrei in specie: era stato loro inculcato che si trattava di esseri spregevoli, nemici della Germania e perciò indegni di vivere; nel caso più favorevole, potevano essere obbligati a lavorare fino alla morte per esaurimento. Non così si comportavano invece nei confronti dei veterani della Squadra: in questi, sentivano in qualche misura dei colleghi, ormai disumani quanto loro, legati allo stesso carro, vincolati dal vincolo immondo della complicità imposta. Nyiszli racconta dunque di aver assistito, durante una pausa del "lavoro", ad un incontro di calcio fra SS e SK (Sonderkommando), vale a dire fra una rappresentanza delle SS di guardia al crematorio e una rappresentanza della Squadra Speciale; all'incontro assistono altri militi delle SS e il resto della Squadra, parteggiano, scommettono, applaudono, incoraggiano i giocatori, come se, invece che davanti alle porte dell'inferno, la partita si svolgesse sul campo di un villaggio.

Niente di simile è mai avvenuto, né sarebbe stato concepibile, con altre categorie di prigionieri; ma con loro, con i "corvi del crematorio", le SS potevano scendere in campo, alla pari o quasi. Dietro questo armistizio si legge un riso satanico: è consumato, ci siamo riusciti, non siete più l'altra razza, l'anti-razza, il nemico primo del Reich Millenario: non siete più il popolo che rifiuta gli idoli. Vi abbiamo abbracciati, corrotti, trascinati sul fondo con noi. Siete come noi, voi orgogliosi: sporchi del vostro sangue come noi. Anche voi, come noi e come Caino, avete ucciso il fratello. Venite, possiamo giocare insieme.

Nel film non si vedono partite di calcio, ma rispetto alle testimonianze scritte e filmate, la vita del Sonderkommando che si vede nel film è del tutto simile a quella delle SS: libertà di movimento, cibo, gioielli in cambio della efficienza nel fare il lavoro sporco.

Per la prima volta ho visto la dinamica dell'ingresso nelle camere a gas, la processione degli ebrei disciplinati, l'orchestrina dei detenuti, i praticelli con l'impianto di innaffiamento, il lavaggio dei cadaveri nudi ammassati sul pavimento, l'espianto delle protesi dentarie, i montacarichi e il funzionamento in parallelo dei forni: un disimpegno e tante bocche da caricare con carrelli semimanuali. Nei campi che ho visitato ho visto i forni a Guisen e a Mathausen ma si trattava di unità di pochi posti perché erano campi di annientamento attraverso il lavoro e non campi di sterminio. Vedere certi processi non è come leggerne la descrizione e, nel film, pur senza andare nel macabro la rappresntazione è molto rigorosa e realistica.

Altrettanto impressionante è il ruolo di tranqullizzazione verso le persone che gli addetti al Sonderkommando svolgono. Come per tanti altri aspetti della organizazion e nazista le SS stanno un passo indietro. La macchina è stata studiata alla perfezione e funziona in ogni dettaglio. Un detenuto dall'aria paciosa ti rassicura di più di un militare con il cane lupo: appendete i vostri vestiti al gancio numerato e ricordatevi il numero, legate tra di loro le scarpe per evitare che nella confusione si disperdano, …

Nyiszli racconta un altro episodio da meditare. Nella camera a gas sono stati stipati ed uccisi i componenti di un convoglio appena arrivato, e la Squadra sta svolgendo il lavoro orrendo di tutti i giorni, districare il groviglio di cadaveri, lavarli con gli idranti e trasportarli al crematorio, ma sul pavimento trovano una giovane ancora viva. L'evento è eccezionale, unico; forse i corpi umani le hanno fatto barriera intorno, hanno sequestrato una sacca d'aria che è rimasta respirabile. Gli uomini sono perplessi; la morte è il loro mestiere di ogni ora, la morte è una consuetudine, poiché, appunto, "si impazzisce il primo giorno oppure ci si abitua", ma quella donna è viva. La nascondono, la riscaldano, le portano brodo di carne, la interrogano: la ragazza ha sedici anni, non si orienta nello spazio né nel tempo, non sa dov'è, ha percorso senza capire la trafila del treno sigillato, della brutale selezione preliminare, della spogliazione, dell'ingresso nella camera da cui nessuno è mai uscito vivo. Non ha capito, ma ha visto; perciò deve morire, e gli uomini della Squadra lo sanno, così come sanno di dover morire essi stessi e per la stessa ragione. Ma questi schiavi abbrutiti dall'alcool e dalla strage quotidiana sono trasformati; davanti a loro non c'è più la massa anonima, il fiume di gente spaventata, attonita, che scende dai vagoni: c'è una persona.

La giovane sopravvissuta diventerà un problema perché il Sonderkommando ungherese è prossimo alla scadenza dei 4 mesi (trascorsi i quali i componenti vengono uccisi e fatti bruciare dalle nuove reclute). Si sta organizzando una rivolta in contatto con un altro commando di polacchi. Si pensa di far saltare i forni e di scegliere la morte combattendo come forma di espiazione. La giovane sopravvissuta, per il fatto di esserne uscita viva diventa portatrice di nuovi diritti e d'altra parte rischia di creare problemi organizzativi.

Come non ricordare l'"insolito rispetto" e l'esitazione del "turpe monatto" davanti al caso singolo, davanti alla bambina Cecilia morta di peste che, nei Promessi Sposi, la madre rifiuta di lasciar buttare sul carro confusa fra gli altri morti? Fatti come questi stupiscono, perché contrastano con l'immagine che alberghiamo in noi, dell'uomo concorde con se stesso, coerente, monolitico; e non dovrebbero stupire, perché tale l'uomo non è. Pietà e brutalità possono coesistere, nello stesso individuo e nello stesso momento, contro ogni logica; e del resto, la pietà stessa sfugge alla logica. Non esiste proporzionalità tra la pietà che proviamo e l'estensione del dolore da cui la pietà è suscitata: una singola Anna Frank desta più commozione delle miriadi che soffrirono come lei, ma la cui immagine è rimasta in ombra. Forse è necessario che sia così; se dovessimo e potessimo soffrire le sofferenze di tutti, non potremmo vivere. Forse solo ai santi è concesso il terribile dono della pietà verso i molti; ai monatti, a quelli della Squadra Speciale, ed a noi tutti, non resta, nel migliore dei casi, che la pietà saltuaria indirizzata al singolo, al Mitmensch, al co-uomo: all'essere umano di carne e sangue che sta davanti a noi, alla portata dei nostri sensi provvidenzialmente miopi.

Viene chiamato un medico, Nyiszli, che rianima la ragazza con una iniezione: sì, il gas non ha compiuto il suo effetto, potrà sopravvivere, ma dove e come? In quel momento sopraggiunge Muhsfeld, uno dei militi SS addetti agli impianti di morte; il medico lo chiama da parte e gli espone il caso. Muhsfeld esita, poi decide: no, la ragazza deve morire; se fosse più anziana il caso sarebbe diverso, avrebbe più senno, forse la si potrebbe convincere a tacere su quanto le è accaduto, ma ha solo sedici anni: di lei non ci si può fidare. Tuttavia non la uccide di mano sua, chiama un suo sottoposto che la sopprima con un colpo alla nuca. Ora, questo Muhsfeld non era un misericorde; la sua razione quotidiana di strage era trapunta di episodi arbitrari e capricciosi, segnata da sue invenzioni di raffinata crudeltà. Fu processato nel 1947, condannato a morte e impiccato a Cracovia, e questo fu giusto; ma neppure lui era un monolito. Se fosse vissuto in un ambiente ed in un'epoca diversi, è probabile che si sarebbe comportato come qualsiasi altro uomo comune.

Nei Fratelli Karamazov, Grušen'ka racconta la favola della cipollina. Una vecchia malvagia muore e va all'inferno, ma il suo angelo custode, sforzando la memoria, ricorda che essa, una volta, una sola, ha donato ad un mendicante una cipollina che ha cavata dal suo orto: le porge la cipollina, e la vecchia vi si aggrappa e viene tratta dal fuoco infernale. Questa favola mi è sempre sembrata rivoltante: quale mostro umano non ha mai donato in vita sua una cipollina, se non ad altri ai suoi figli, alla moglie, al cane? Quel singolo attimo di pietà subito cancellata non basta certo ad assolvere Muhsfeld, basta però a collocare anche lui, seppure al margine estremo, nella fascia grigia, in quella zona di ambiguità che irradia dai regimi fondati sul terrore e sull'ossequio.
Non è difficile giudicare Muhsfeld, e non credo che il tribunale che lo ha condannato abbia avuto dubbi; per contro, il nostro bisogno e la nostra capacità di giudicare si inceppano davanti alla Squadra Speciale. Subito sorgono le domande, domande convulse, a cui è dura impresa dare una risposta che ci tranquillizzi sulla natura dell'uomo. Perché hanno accettato quel loro compito? Perché non si sono ribellati, perché non hanno preferito la morte?

Nel film la parte della rivolta è, giustamente, molto breve. La superiorità in armi ed organizzazione dei nazisti ha la meglio, ma alcuni forni vengono fatti saltare e non saranno ripristinati (siamo nell'autunno del 44). I superstiti vengono fatti allineare a terra e giustiziato con un colpo alla nuca. Per ultima viene uccisa la giovane sopravvissuta.


Nel caso dei Sonderkommando si esita a parlare di privilegio: chi ne faceva parte era privilegiato solo in quanto (ma a quale costo!) per qualche mese mangiava a sufficienza, non certo perché potesse essere invidiato. Con questa denominazione debitamente vaga, "Squadra Speciale", veniva indicato dalle SS il gruppo di prigionieri a cui era affidata la gestione dei crematori. A loro spettava mantenere l'ordine fra i nuovi arrivati (spesso del tutto inconsapevoli del destino che li attendeva) che dovevano essere introdotti nelle camere a gas; estrarre dalle camere i cadaveri; cavare i denti d'oro dalle mascelle; tagliare i capelli femminili; smistare e classificare gli abiti, le scarpe, il contenuto dei bagagli; trasportare i corpi ai crematori e sovraintendere al funzionamento dei forni; estrarre ed eliminare le ceneri. La Squadra Speciale di Auschwitz contava, a seconda dei periodi, da 700 a 1000 effettivi.

Queste Squadre Speciali non sfuggivano al destino di tutti; anzi, da parte delle SS veniva messa in atto ogni diligenza affinché nessun uomo che ne avesse fatto parte potesse sopravvivere e raccontare. Ad Auschwitz si succedettero dodici squadre; ognuna rimaneva in funzione qualche mese, poi veniva soppressa, ogni volta con un artificio diverso per prevenire eventuali resistenze, e la squadra successiva, come iniziazione, bruciava i cadaveri dei predecessori. L'ultima squadra, nell'ottobre 1944, si ribellò alle SS, fece saltare uno dei crematori e fu sterminata in un diseguale combattimento. I superstiti delle Squadre Speciali sono dunque stati pochissimi, sfuggiti alla morte per qualche imprevedibile gioco del destino. Nessuno di loro, dopo la liberazione, ha parlato volentieri, e nessuno parla volentieri della loro spaventosa condizione. Le notizie che possediamo su queste Squadre provengono dalle scarne deposizioni di questi superstiti; dalle ammissioni dei loro "committenti" processati davanti a vari tribunali; da cenni contenuti in deposizioni di "civili" tedeschi o polacchi che ebbero casualmente occasione di venire a contatto con le squadre; e finalmente, da fogli di diario che vennero scritti febbrilmente a futura memoria, e sepolti con estrema cura nei dintorni dei crematori di Auschwitz, da alcuni dei loro componenti. Tutte queste fonti concordano tra loro, eppure ci riesce difficile, quasi impossibile, costruirci una rappresentazione di come questi uomini vivessero giorno per giorno, vedessero se stessi, accettassero la loro condizione.
In un primo tempo, essi venivano scelti dalle SS fra i prigionieri già immatricolati nei Lager, ed è stato testimoniato che la scelta avveniva non soltanto in base alla robustezza fisica, ma anche studiando a fondo le fisionomie. In qualche raro caso, l'arruolamento avvenne per punizione. Più tardi, si preferì prelevare i candidati direttamente sulla banchina ferroviaria, all'arrivo dei singoli convogli: gli "psicologi" delle SS si erano accorti che il reclutamento era più facile se si attingeva da quella gente disperata e disorientata, snervata dal viaggio, priva di resistenze, nel momento cruciale dello sbarco dal treno, quando veramente ogni nuovo giunto si sentiva alla soglia del buio e del terrore di uno spazio non terrestre.

Le Squadre Speciali erano costituite in massima parte da ebrei. Per un verso, questo non può stupire, dal momento che lo scopo principale dei Lager era quello di distruggere gli ebrei, e che la popolazione di Auschwitz, a partire dal 1943, era costituita da ebrei per il 90-95%; sotto un altro aspetto, si rimane attoniti davanti a questo parossismo di perfidia e di odio: dovevano essere gli ebrei a mettere nei forni gli ebrei, si doveva dimostrare che gli ebrei, sotto-razza, sotto-uomini, si piegano ad ogni umiliazione, perfino a distruggere se stessi. D'altra parte, è attestato che non tutte le SS accettavano volentieri il massacro come compito quotidiano; delegare alle vittime stesse una parte del lavoro, e proprio la più sporca, doveva servire (e probabilmente servì) ad alleggerire qualche coscienza.

Beninteso, sarebbe iniquo attribuire questa acquiescenza a qualche particolarità specificamente ebraica: delle Squadre Speciali fecero parte anche prigionieri non ebrei, tedeschi e polacchi, però con le mansioni "più dignitose" di Kapos; ed anche prigionieri di guerra russi, che i nazisti consideravano solo di uno scalino superiori agli ebrei. Furono pochi, perché ad Auschwitz i russi erano pochi (vennero in massima parte sterminati prima, subito dopo la cattura, mitragliati sull'orlo di enormi fosse comuni): ma non si comportarono in modo diverso dagli ebrei.

Le Squadre Speciali, in quanto portatrici di un orrendo segreto, venivano tenute rigorosamente separate dagli altri prigionieri e dal mondo esterno. Tuttavia, come è noto a chiunque abbia attraversato esperienze analoghe, nessuna barriera è mai priva di incrinature: le notizie, magari incomplete e distorte, hanno un potere di penetrazione enorme, e qualcosa trapela sempre. Su queste Squadre, voci vaghe e monche circolavano già fra noi durante la prigionia, e vennero confermate più tardi dalle altre fonti accennate prima, ma l'orrore intrinseco di questa condizione umana ha imposto a tutte le testimonianze una sorta di ritegno; perciò, oggi ancora è difficile costruirsi un'immagine di "cosa volesse dire" essere costretti ad esercitare per mesi questo mestiere. Alcuni hanno testimoniato che a quegli sciagurati veniva messa a disposizione una grande quantità di alcolici, e che essi si trovavano permanentemente in uno stato di abbrutimento e di prostrazione totali. Uno di loro ha dichiarato: "A fare questo lavoro, o si impazzisce il primo giorno, oppure ci si abitua". Un altro, invece: "Certo, avrei potuto uccidermi o lasciarmi uccidere; ma io volevo sopravvivere, per vendicarmi e per portare testimonianza. Non dovete credere che noi siamo dei mostri: siamo come voi, solo molto più infelici".

È evidente che queste cose dette, e le altre innumerevoli che da loro e fra di loro saranno state dette ma non ci sono pervenute, non possono essere prese alla lettera. Da uomini che hanno conosciuto questa destituzione estrema non ci si può aspettare una deposizione nel senso giuridico del termine, bensì qualcosa che sta fra il lamento, la bestemmia, l'espiazione e il conato di giustificarsi, di recuperare se stessi. Ci si deve aspettare piuttosto uno sfogo liberatorio che una verità dal volto di Medusa.
Aver concepito ed organizzato le Squadre è stato il delitto più demoniaco del nazionalsocialismo. Dietro all'aspetto pragmatico (fare economia di uomini validi, imporre ad altri i compiti più atroci) se ne scorgono altri più sottili. Attraverso questa istituzione, si tentava di spostare su altri, e precisamente sulle vittime, il peso della colpa, talché, a loro sollievo, non rimanesse neppure la consapevolezza di essere innocenti. Non è facile né gradevole scandagliare questo abisso di malvagità, eppure io penso che lo si debba fare, perché ciò che è stato possibile perpetrare ieri potrà essere nuovamente tentato domani, potrà coinvolgere noi stessi o i nostri figli. Si prova la tentazione di torcere il viso e distogliere la mente: è una tentazione a cui ci si deve opporre. Infatti, l'esistenza delle Squadre aveva un significato, conteneva un messaggio: "Noi, il popolo dei Signori, siamo i vostri distruttori, ma voi non siete migliori di noi; se lo vogliamo, e lo vogliamo, noi siamo capaci di distruggere non solo i vostri corpi, ma anche le vostre anime, così come abbiamo distrutto le nostre ".

In certa misura, i fatti di cui disponiamo ci permettono di tentare una risposta. Non tutti hanno accettato; alcuni si sono ribellati sapendo di morire. Di almeno un caso abbiamo notizia precisa: un gruppo di quattrocento ebrei di Corfù, che nel luglio 1944 era stato inserito nella Squadra, rifiutò compattamente il lavoro, e venne immediatamente ucciso col gas. È rimasta memoria di vari altri ammutinamenti singoli, tutti subito puniti con una morte atroce (Filip Müller, uno fra i pochissimi superstiti delle Squadre, racconta di un suo compagno che le SS introdussero vivo nella fornace), e di molti casi di suicidio, all'atto dell'arruolamento o subito dopo. Infine, è da ricordare che proprio dalla Squadra Speciale fu organizzato, nell'ottobre 1944, l'unico disperato tentativo di rivolta nella storia dei Lager di Auschwitz, a cui già si è accennato.

Le notizie che di questa impresa sono pervenute fino a noi non sono né complete né concordi; si sa che i rivoltosi (gli addetti a due dei cinque crematori di Auschwitz-Birkenau), male armati e privi di contatti con i partigiani polacchi fuori del Lager e con L'organizzazione clandestina di difesa entro il Lager, fecero esplodere il crematorio n. 3 e diedero battaglia alle SS. Il combattimento finì molto presto; alcuni degli insorti riuscirono a tagliare il filo spinato ed a fuggire all'esterno, ma furono catturati poco dopo. Nessuno di loro è sopravvissuto; circa 450 furono immediatamente uccisi dalle SS; di queste, tre furono uccise e dodici ferite.

Quelli di cui sappiamo, i miserabili manovali della strage, sono dunque gli altri, quelli che di volta in volta preferirono qualche settimana in più di vita (quale vita!) alla morte immediata, ma che in nessun caso si indussero, o furono indotti, ad uccidere di propria mano. Ripeto: credo che nessuno sia autorizzato a giudicarli, non chi ha conosciuto 1'esperienza del Lager, tanto meno chi non l'ha conosciuta. Vorrei invitare chiunque osi tentare un giudizio a compiere su se stesso, con sincerità, un esperimento concettuale: immagini, se può, di aver trascorso mesi o anni in un ghetto, tormentato dalla fame cronica, dalla fatica, dalla promiscuità e dall'umiliazione; di aver visto morire intorno a sé, ad uno ad uno, i propri cari; di essere tagliato fuori dal mondo, senza poter ricevere né trasmettere notizie; di essere infine caricato su un treno, ottanta o cento per vagone merci; di viaggiare verso l'ignoto, alla cieca, per giorni e notti insonni; e di trovarsi infine scagliato fra le mura di un inferno indecifrabile. Qui gli viene offerta la sopravvivenza, e gli viene proposto, anzi imposto, un compito truce ma imprecisato. È questo, mi pare, il vero Befehlnotstand, lo "stato di costrizione conseguente a un ordine": non quello sistematicamente ed impudentemente invocato dai nazisti trascinati a giudizio, e più tardi (ma sulle loro orme) dai criminali di guerra di molti altri paesi. Il primo è un aut-aut rigido, l'obbedienza immediata o la morte; il secondo è un fatto interno al centro di potere, ed avrebbe potuto essere risolto (in effetti spesso fu risolto) con qualche manovra, con qualche ritardo nella carriera, con una moderata punizione, o, nel peggiore dei casi, col trasferimento del renitente al fronte di guerra.

L'esperimento che ho proposto non è gradevole; ha tentato di rappresentarlo Vercors, nel suo racconto Les armes de la nuit (Albin Michel, Paris 1953) in cui si parla della "morte dell'anima", e che riletto oggi mi appare intollerabilmente infetto di estetismo e di libidine letteraria. Ma è indubbio che di morte dell'anima si tratta; ora, nessuno può sapere quanto a lungo, ed a quali prove, la sua anima sappia resistere prima di piegarsi o di infrangersi. Ogni essere umano possiede una riserva di forza la cui misura gli è sconosciuta: può essere grande, piccola o nulla, e solo l'avversità estrema dà modo di valutarIa. Anche senza ricorrere al caso-limite delle Squadre Speciali, accade spesso a noi reduci, quando raccontiamo le nostre vicende, che l'interlocutore dica: "Io, al tuo posto, non avrei resistito un giorno". L'affermazione non ha un senso preciso: non si è mai al posto di un altro. Ogni individuo è un oggetto talmente complesso che è vano pretendere di prevederne il comportamento, tanto più se in situazioni estreme; neppure è possibile antivedere il comportamento proprio. Perciò chiedo che la storia dei "corvi del crematorio" venga meditata con pietà e rigore, ma che il giudizio su di loro resti sospeso.


Il mio giudizio sul film: 9 per la capacità di rendere, senza eccedere, la realtà dello sterminio e della sua organizzazione. Questa volta le immagini valgono di più della descrizione cartacea

 




Sommersi, salvati, testimoni

Le dichiarazioni di Berlusconi al Binario 21 della Stazione Centrale di Milano mi hanno imposto una piacevole forma di espiazione: la rilettura di Se questo è un uomo a cui ho aggiunto  Sommersi e i salvati il libro di ripensamento scritto da Primo Levi un anno prima della morte.

Levi è sempre emozionante perché da ogni sua frase emergono la storia personale, la cultura millenaria del popolo ebraico cui venne forzatamente assimilato contro la sua volontà di ateo, la formazione scientifica, la passione della testimonianza.

Se questo è un uomo non lo rileggevo dal 1993 e come allora mi sono rifatto le stesse domande: come è potuto accadere? L'ideologia sul primato e destino del popolo tedesco, il razzismo, la predicazione cristiana durata per 15 secoli sul crimine di deicidio del popolo ebraico, … Anche Levi dice che sono tutte spiegazioni corrette e plausibili ma non convincono pienamente. Anche lui pensa che ci sia stato l'impazzimento di un intero popolo che, spera, non si ripresenti mai più. Anche per questo occorre testimoniare.

Non ci sono scorciatoie, non dobbiamo fidarci delle verità rivelate: studio, discussione, ragionamento.

Occorre dunque essere diffidenti con chi cerca di convincerci con strumenti diversi dalla ragione, ossia con i capi carismatici: dobbiamo essere cauti nel delegare ad altri il nostro giudizio e la nostra volontà. Poiché è difficile distinguere i profeti veri dai falsi, è bene avere in sospetto tutti i profeti; è meglio rinunciare alle verità rivelate, anche se ci esaltano per la loro semplicità e il loro splendore, anche se le troviamo comode perché si acquistano gratis. E meglio accontentarsi di altre verità più modeste e meno entusiasmanti, quelle che si conquistano faticosamente, a poco a poco e senza scorciatoie, con lo studio, la discussione e il ragionamento, e che possono essere verificate e dimostrate (Primo Levi, Se questo è un uomo).

I Sommersi e i salvati è un libro meno immediato: il testimone riflette. E' stato scritto 40 anni dopo quella esperienza e il testimone Primo Levi ci sconcerta con la sua capacità di guardarsi e di guardarci dentro. Tutti coloro che sono ritornati dai lager si sono chiesti perché io? C'è chi ha taciuto per 40 anni e poi ha parlato di colpo come Shlomo Venezia che fece parte del Sonderkommando di Auschwitz.

Levi dedica uno dei primi capitoli alla Zona grigia alla non esistenza di un confine netto tra i buoni e i cattivi. Siamo stati capaci, noi reduci, di comprendere e di far comprendere la nostra esperienza? Ciò che comunemente intendiamo per «comprendere» coincide con «semplificare »: senza una profonda semplificazione, il mondo intorno a noi sarebbe un groviglio infinito e indefinito, che sfiderebbe la nostra capacità di orientarci e di decidere le nostre azioni. Siamo insomma costretti a ridurre il conoscibile a schema: a questo scopo tendono i mirabili strumenti che ci siamo costruiti nel corso dell'evoluzione e che sono specifici del genere umano, il linguaggio ed il pensiero concettuale.

Chi come me ha avuto una formazione scientifica capisce molto bene di cosa stiamo parlando: per comprendere bisogna semplificare. L'importante è ricordarselo perché una cosa sono i modelli e un'altra è il mondo reale con la sua complessità.

Tendiamo a semplificare anche la storia; ma non sempre lo schema entro cui si ordinano i fatti è individuabile in modo univoco, e può dunque accadere che storici diversi comprendano e costruiscano la storia in modi fra loro incompatibili; tuttavia, è talmente forte in noi, forse per ragioni che risalgono alle nostre origini di animali sociali, l'esigenza di dividere il campo fra «noi» e «loro», che questo schema, la bipartizione amico-nemico, prevale su tutti gli altri. La storia popolare, ed anche la storia quale viene tradizionalmente insegnata nelle scuole, risente di questa tendenza manichea che rifugge dalle mezze tinte e dalle complessità: è incline a ridurre il fiume degli accadimenti umani ai conflitti, e i conflitti a duelli, noi e loro, gli ateniesi e gli spartani, i romani e i cartaginesi. Certo è questo il motivo dell'enorme popolarità degli sport spettacolari, come il calcio, il baseball e il pugilato, in cui i contendenti sono due squadre o due individui, ben distinti e identificabili, e alla fine della partita ci saranno gli sconfitti e i vincitori. Se il risultato è di parità, lo spettatore si sente defraudato e deluso: a livello più o meno inconscio, voleva i vincitori ed i perdenti, e li identificava rispettivamente con i buoni e i cattivi, poiché sono i buoni che devono avere la meglio, se no il mondo sarebbe sovvertito. Questo desiderio di semplificazione è giustificato, la semplificazione non sempre lo è. È un'ipotesi di lavoro, utile in quanto sia riconosciuta come tale e non scambiata per la realtà; la maggior parte dei fenomeni storici e naturali non sono semplici, o non semplici della semplicità che piacerebbe a noi.

Il desiderio di semplificare è naturale ma la semplificazione non sempre è opportuna o giustificata. Non tutto è riconducibile ad uno scontro tra gli Orazi e i Curiazi e non sempre il bene sta dalla parte degli Orazi.

Ora, non era semplice la rete dei rapporti umani all'interno dei Lager: non era riducibile ai due blocchi delle vittime e dei persecutori. In chi legge (o scrive) oggi la storia dei Lager è evidente la tendenza, anzi il
bisogno, di dividere il male dal bene, di poter parteggiare, di ripetere il gesto di Cristo nel Giudizio Universale: qui i giusti, là i reprobi. Soprattutto i giovani chiedono chiarezza, il taglio netto; essendo scarsa la loro esperienza del mondo, essi non amano l'ambiguità. La loro aspettazione, del resto, riproduce con esattezza quella dei nuovi arrivati in Lager, giovani o no: tutti, ad eccezione di chi avesse già attraversato un'esperienza analoga, si aspettavano di trovare un mondo terribile ma decifrabile, conforme a quel modello semplice che atavicamente portiamo in noi, «noi» dentro e il nemico fuori, separati da un confine netto, geografico.

Levi, nei suoi scritti sottolinea più volte che si coglieva la differenza tra i neo arrivati e i veterani da un dettaglio: i neo arrivati facevano le domande inutili, quelle che non potevano avere risposta.

L'ingresso in Lager era invece un urto per la sorpresa che portava con sé. Il mondo in cui ci si sentiva precipitati era sì terribile, ma anche indecifrabile: non era conforme ad alcun modello, il nemico era intorno ma anche dentro, il « noi » perdeva i suoi confini, i contendenti non erano due, non si distingueva una frontiera ma molte e confuse, forse innumerevoli, una fra ciascuno e ciascuno. Si entrava sperando almeno nella solidarietà dei compagni di sventura, ma gli alleati sperati, salvo casi speciali, non c'erano; c'erano invece mille monadi sigillate, e fra queste una lotta disperata, nascosta e continua. Questa rivelazione brusca, che si manifestava fin dalle prime ore di prigionia, spesso sotto la forma immediata di un'aggressione concentrica da parte di coloro in cui si sperava di ravvisare i futuri alleati, era talmente dura da far crollare subito la capacità di resistere. Per molti è stata mortale, indirettamente o anche direttamente: è difficile difendersi da un colpo a cui non si è preparati.

In questa aggressione si possono distinguere diversi aspetti. Occorre ricordare che il sistema concentrazionario, fin dalle sue origini (che coincidono con la salita al potere del nazismo in Germania), aveva lo scopo primario di spezzare la capacità di resistenza degli avversari: per la direzione del campo, il nuovo giunto era un avversario per definizione, qualunque fosse l'etichetta che gli era stata affibbiata, e doveva essere demolito subito, affinchè non diventasse un esempio, o un germe di resistenza organizzata.

Ciò che distingue l'uomo dagli altri mammiferi è la capacità di pensare, di progettare il futuro, di agire sulla base di un disegno.

Su questo punto le SS avevano le idee chiare, e sotto questo aspetto è da interpretare tutto il sinistro rituale, diverso da Lager a Lager, ma unico nella sostanza, che accompagnava l'ingresso; i calci e i pugni sùbito, spesso sul viso; l'orgia di ordini urlati con collera vera o simulata; la denudazione totale; la rasatura dei capelli; la vestizione con stracci. E difficile dire se tutti questi particolari siano stati messi a punto da qualche esperto o perfezionati metodicamente in base all'esperienza, ma certo erano voluti e non casuali: una regia c'era, ed era vistosa.

La spoliazione del nome, dell'abito, dei peli, il freddo, la fame, l'isolamento, la solitudine, la babele delle lingue non bastano; bisogna rompere la solidarietà interna perché è dalla solidarietà interna che può nascere la resistenza. Persino il compagno di cuccetta era un potenziale nemico perché se era lungo ti toglieva la coperta, se era vecchio si alzava a pisciare ogni due ore e ti svegliava. La penuria di tutto (dal cucchiaio ad uno straccio alle scarpe di legno) rendeva tutti ladri e tutti sospettosi.

Tuttavia, al rituale d'ingresso, ed al crollo morale che esso favoriva, contribuivano più o meno consapevolmente anche le altre componenti del mondo concentrazionario: i prigionieri semplici ed i privilegiati. Accadeva di rado che il nuovo venuto fosse accolto, non dico come un amico, ma almeno come un compagno di sventura; nella maggior parte dei casi, gli anziani (e si diventava anziani in tre o quattro mesi: il ricambio era rapido!) manifestavano fastidio o addirittura ostilità. Il «nuovo» (Zugang: si noti, in tedesco è un termine astratto, amministrativo; significa «ingresso », «entrata») veniva invidiato perché sembrava che avesse ancora indosso l'odore di casa sua, ed era un'invidia assurda, perché in effetti si soffriva assai di più nei primi giorni di prigionia che dopo, quando l'assuefazione da una parte, e l'esperienza dall'altra, permettevano di costruirsi un riparo. Veniva deriso e sottoposto a scherzi crudeli, come avviene in tutte le comunità con i «coscritti» e le «matricole », e con le cerimonie di iniziazione presso i popoli
primitivi: e non c'è dubbio che la vita in Lager comportava una regressione, riconduceva a comportamenti, appunto, primitivi.

E probabile che l'ostilità verso lo Zugang fosse in sostanza motivata come tutte le altre intolleranze, cioè consistesse in un tentativo inconscio di consolidare il « noi » a spese degli « altri », di creare insomma quella solidarietà fra oppressi la cui mancanza era fonte di una sofferenza addizionale, anche se non percepita apertamente. Entrava in gioco anche la ricerca del prestigio, che nella nostra civiltà sembra sia un bisogno insopprimibile: la folla disprezzata degli anziani tendeva a ravvisare nel nuovo arrivato un bersaglio su cui sfogare la sua umiliazione, a trovare a sue spese un compenso, a costruirsi a sue spese un individuo di rango più basso su cui riversare il peso delle offese ricevute dall'alto.

Tutti coloro che sono ritornati, anche i testimoni attivi della memoria, si sono salvati perché sono riusciti ad avere un privilegio (qualcosa da barattare in cambio di una porzione di zuppa in più, un lavoro in un posto meno freddo, una malattia di quelle giuste nel momento giusto).


Per quanto riguarda i prigionieri privilegiati, il discorso è più complesso, ed anche più importante: a mio parere, è anzi fondamentale. È ingenuo, assurdo e storicamente falso ritenere che un sistema infero, qual era il nazionalsocialismo, santifichi le sue vittime: al contrario, esso le degrada, le assimila a sé, e ciò tanto più quanto più esse sono disponibili, bianche, prive di un'ossatura politica o morale. Da molti segni, pare che sia giunto il tempo di esplorare lo spazio che separa (non solo nei Lager nazisti!) le vittime dai persecutori, e di farlo con mano più leggera, e con spirito meno torbido, di quanto non si sia fatto ad esempio in alcuni film. Solo una retorica schematica può sostenere che quello spazio sia vuoto: non lo è mai, è costellato di figure turpi o patetiche (a volte posseggono le due qualità ad un tempo), che è indispensabile conoscere se vogliamo conoscere la specie umana, se vogliamo saper difendere le nostre anime quando una simile prova si dovesse nuovamente prospettare, o se anche soltanto vogliamo renderci conto di quello che avviene in un grande stabilimento industriale.

I prigionieri privilegiati erano in minoranza entro la popolazione dei Lager, ma rappresentano invece una forte maggioranza fra i sopravvissuti; infatti, anche se non si tenga conto della fatica, delle percosse, del freddo, delle malattie, va ricordato che la razione alimentare era decisamente insufficiente anche per il prigioniero più sobrio: consumate in due o tre mesi le riserve fisiologiche dell'organismo, la morte per fame, o per malattie indotte dalla fame, era il destino normale del prigioniero. Poteva essere evitato solo con un sovrappiù alimentare, e per ottenere questo occorreva un privilegio, grande o piccolo; in altre
parole, un modo, octroyé o conquistato, astuto o violento, lecito o illecito, di sollevarsi al di sopra della norma.

Ora, non si può dimenticare che la maggior parte dei ricordi dei reduci, raccontati o scritti, incomincia così: l'urto contro la realtà concentrazionaria coincide con l'aggressione, non prevista e non compresa, da parte di un nemico nuovo e strano, il prigioniero-funzionario, che invece di prenderti per mano, tranquillizzarti, insegnarti la strada, ti si avventa addosso urlando in una lingua che tu non conosci, e ti percuote sul viso. Ti vuole domare, vuole spegnere in te la scintilla di dignità che tu forse ancora conservi e che lui ha perduta. Ma guai a te se questa tua dignità ti spinge a reagire: questa è una legge non scritta ma ferrea,
il zurückschlagen, il rispondere coi colpi ai colpi, è una trasgressione intollerabile, che può venire in mente appunto solo a un «nuovo». Chi la commette deve diventare un esempio: altri funzionari accorrono a difesa dell'ordine minacciato, e il colpevole viene percosso con rabbia e metodo finché è domato o morto. Il privilegio, per definizione, difende e protegge il privilegio. Mi torna a mente che il termine locale, jiddisch e polacco, per indicare il privilegio era «protekcja», che si pronuncia «protekzia» ed è di evidente origine italiana e latina; e mi è stata raccontata la storia di un «nuovo» italiano, un partigiano, scaraventato in un Lager di lavoro con l'etichetta di prigioniero politico quando era ancora nel pieno delle sue forze. Era stato malmenato durante la distribuzione della zuppa, ed aveva osato dare uno spintone al funzionario-distributore: accorsero i colleghi di questo, e il reo venne affogato esemplarmente immergendogli la testa nel mastello della zuppa stessa.

L'ascesa dei privilegiati, non solo in Lager ma in tutte le convivenze umane, è un fenomeno angosciarne ma immancabile: essi sono assenti solo nelle utopie. È compito dell'uomo giusto fare guerra ad ogni privilegio non meritato, ma non si deve dimenticare che questa è una guerra senza fine. Dove esiste un potere esercitato da pochi, o da uno solo, contro i molti, il privilegio nasce e prolifera, anche contro il volere del potere stesso; ma è normale che il potere, invece, lo tolleri o lo incoraggi. Limitiamoci al Lager, che però (anche nella sua versione sovietica) può ben servire da «laboratorio»: la classe ibrida dei prigionieri-funzionari ne costituisce l'ossatura, ed insieme il lineamento più inquietante. E una zona grigia, dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi. Possiede una struttura interna incredibilmente complicata, ed alberga in sé quanto basta per confondere il nostro bisogno di giudicare.

La zona grigia della «protekcja» e della collaborazione nasce da radici molteplici. In primo luogo, l'area del potere, quanto più è ristretta, tanto più ha bisogno di ausiliari esterni; il nazismo degli ultimi anni non ne poteva fare a meno, risoluto com'era a mantenere il suo ordine all'interno dell'Europa sottomessa, e ad alimentare i fronti di guerra dissanguati dalla crescente resistenza militare degli avversari. Era indispensabile attingere dai paesi occupati non solo mano d'opera, ma anche forze d'ordine, delegati ed amministratori del potere tedesco ormai impegnato altrove fino all'esaurimento. Entro quest'area vanno catalogati, con sfumature diverse per qualità e peso, Quisling di Norvegia, il governo di Vichy in Francia, il Judenrat di Varsavia, la Repubblica di Salò, fino ai mercenari ucraini e baltici impiegati dappertutto per i compiti più sporchi (mai per il combattimento), ed ai Sonderkommandos di cui dovremo parlare. Ma i collaboratori che provengono dal campo avversario, gli ex nemici, sono infidi per essenza: hanno tradito una volta e possono tradire ancora. Non basta relegarli in compiti marginali; il modo migliore di legarli è caricarli di colpe, insanguinarli, comprometterli quanto più è possibile: così avranno contratto coi mandanti
il vincolo della correità, e non potranno più tornare indietro. Questo modo di agire è noto alle associazioni criminali di tutti i tempi e luoghi, è praticato da sempre dalla mafia, e tra l'altro è il solo che spieghi gli eccessi, altrimenti indecifrabili, del terrorismo italiano degli anni '70.

In secondo luogo, ed a contrasto con una certa stilizzazione agiografica e retorica, quanto più è dura l'oppressione, tanto più è diffusa tra gli oppressi la disponibilità a collaborare col potere. Anche questa disponibilità è variegata da infinite sfumature e motivazioni: terrore, adescamento ideologico, imitazione pedissequa del vincitore, voglia miope di un qualsiasi potere, anche ridicolmente circoscritto nello spazio e nel tempo, viltà, fino a lucido calcolo inteso a eludere gli ordini e l'ordine imposto. Tutti questi motivi, singolarmente o fra loro combinati, sono stati operanti nel dare origine a questa fascia grigia, i cui componenti, nei confronti dei non privilegiati, erano accomunati dalla volontà di conservare e consolidare il loro privilegio.

Prima di discutere partitamente i motivi che hanno spinto alcuni prigionieri a collaborare in varia misura con l'autorità dei Lager, occorre però affermare con forza che davanti a casi umani come questi è imprudente precipitarsi ad emettere un giudizio morale. Deve essere chiaro che la massima colpa pesa sul sistema, sulla struttura stessa dello Stato totalitario; il concorso alla colpa da parte dei singoli
collaboratori grandi e piccoli (mai simpatici, mai trasparenti!) è sempre difficile da valutare. E un giudizio che vorremmo affidare soltanto a chi si è trovato in circostanze simili, ed ha avuto modo di verificare su se stesso che cosa significa agire in stato di costrizione. Lo sapeva bene il Manzoni: «I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano l'animo degli offesi». La condizione di offeso non esclude la colpa, e spesso questa è obiettivamente grave, ma non conosco tribunale umano a cui delegarne la misura. Se dipendesse da me, se fossi costretto a giudicare, assolverei a cuor leggero tutti coloro per cui il concorso nella colpa è stato minimo, e su cui la costrizione è stata massima.

Intorno a noi, prigionieri senza gradi, brulicavano i funzionari di basso rango. Costituivano una fauna pittoresca: scopini, lava-marmitte, guardie notturne, stiratori dei letti (che sfruttavano a loro minuscolo vantaggio la fisima tedesca delle cuccette rifatte piane e squadrate), controllori di pidocchi e di scabbia, portaordini, interpreti, aiutanti degli aiutanti. In generale, erano poveri diavoli come noi, che lavoravano a pieno orario come tutti gli altri, ma che per mezzo litro di zuppa in più si adattavano a svolgere queste ed altre funzioni «terziarie»: innocue, talvolta utili, spesso inventate dal nulla. Raramente erano violenti, ma
tendevano a sviluppare una mentalità tipicamente corporativa, ed a difendere con energia il loro «posto di lavoro» contro chi, dal basso o dall'alto, glie lo insidiava. Il loro privilegio, che del resto comportava disagi e fatiche supplementari, fruttava loro poco, e non li sottraeva alla disciplina ed alle sofferenze degli altri; la loro speranza di vita era sostanzialmente uguale a quella dei non privilegiati. Erano rozzi e protervi, ma non venivano sentiti come nemici.

Il giudizio si fa più delicato e più vario per coloro che occupavano posizioni di comando: i capi (Kapos: il termine tedesco deriva direttamente da quello italiano, e la pronuncia tronca, introdotta dai prigionieri francesi, si diffuse solo molti anni dopo, divulgata dall'omonimo film di Pontecorvo, e favorita in Italia proprio per il suo valore differenziale) delle squadre di lavoro, i capibaracca, gli scritturali, fino al mondo (a quel tempo da me neppure sospettato) dei prigionieri che svolgevano attività diverse, talvolta delicatissime, presso gli uffici amministrativi del campo, la Sezione Politica (di fatto, una sezione della Gestapo),
il Servizio del Lavoro, le celle di punizione. Alcuni fra questi, grazie alla loro abilità o alla fortuna, hanno avuto accesso alle notizie più segrete dei rispettivi Lager, e, come Hermann Langbein ad Auschwitz, Eugen Kogon a Buchenwald, e Hans Marsalek a Mauthausen, ne sono poi diventati gli storici. Non si sa se ammirare di più il loro coraggio personale o la loro astuzia, che ha concesso loro di aiutare concretamente i loro compagni in molti modi, studiando attentamente i singoli ufficiali delle SS con cui erano a contatto, ed intuendo quali fra questi potessero essere corrotti, quali dissuasi dalle decisioni più crudeli, quali ricattati, quali ingannati, quali spaventati dalla prospettiva di un redde rationem a guerra finita. Alcuni fra loro, ad esempio i tre nominati, erano anche membri di organizzazioni segrete di difesa, e perciò il potere di cui disponevano grazie alla loro carica era controbilanciato dal pericolo estremo che correvano, in quanto «resistenti» e in quanto detentori di segreti.

I funzionari ora descritti non erano affatto, o erano solo apparentemente, dei collaboratori, bensì piuttosto degli oppositori mimetizzati. Non così la maggior parte degli altri detentori di posizioni di comando, che si sono rivelati esemplari umani da mediocri a pessimi. Piuttosto che logorare, il potere corrompe; tanto più intensamente corrompeva il loro potere, che era di natura peculiare. Il potere esiste in tutte le varietà dell'organizzazione sociale umana, più o meno controllato, usurpato, investito dall'alto o riconosciuto dal basso, assegnato per merito o per solidarietà corporativa o per sangue o per censo: è verosimile che una certa misura di dominio dell'uomo sull'uomo sia inscritta nel nostro patrimonio genetico di animali gregari. Non è dimostrato che il potere sia intrinsecamente nocivo alla collettività.

Ma il potere di cui disponevano i funzionari di cui si parla, anche di basso grado, come i Kapos delle squadre di lavoro, era sostanzialmente illimitato; o per meglio dire, alla loro violenza era imposto un limite inferiore, nel senso che essi venivano puniti o destituiti se non si mostravano abbastanza duri, ma nessun limite superiore. In altri termini, erano liberi di commettere sui loro sottoposti le peggiori atrocità, a titolo di punizione per qualsiasi loro trasgressione, o anche senza motivo alcuno: fino a tutto il 1943, non era raro che un prigioniero fosse ucciso a botte da un Kapo, senza che questo avesse da temere alcuna sanzione. Solo più tardi, quando il bisogno di mano d'opera si era fatto più acuto, vennero introdotte alcune limitazioni: i maltrattamenti che i Kapos potevano infliggere ai prigionieri non dovevano ridurne
permanentemente la capacità lavorativa; ma ormai il mal uso era invalso, e non sempre la norma venne rispettata.

Si riproduceva così, all'interno dei Lager, in scala più piccola ma con caratteristiche amplificate, la struttura gerarchica dello Stato totalitario, in cui tutto il potere viene investito dall'alto, ed in cui un controllo dal basso è quasi impossibile. Ma questo «quasi» è importante: non è mai esistito uno Stato che fosse realmente « totalitario » sotto questo aspetto. Una qualche forma di retroazione, un correttivo all'arbitrio totale, non è mai mancato, neppure nel Terzo Reich né nell'Unione Sovietica di Stalin: nell'uno e nell'altra hanno fatto da freno, in maggiore o minor misura, l'opinione pubblica, la magistratura, la stampa estera, le chiese, il sentimento di umanità e giustizia che dieci o vent'anni di tirannide non bastano a sradicare. Solo entro il Lager il controllo dal basso era nullo, ed il potere dei piccoli satrapi era assoluto. È comprensibile come un potere di tale ampiezza attirasse con prepotenza quel tipo umano che di potere è avido: come vi aspirassero anche individui dagli istinti moderati, attratti dai molti vantaggi materiali della carica; e come questi ultimi venissero fatalmente intossicati dal potere di cui disponevano.

Chi diventava Kapo? Occorre ancora una volta distinguere. In primo luogo, coloro a cui la possibilità veniva offerta, e cioè gli individui in cui il comandante del Lager o i suoi delegati (che spesso erano buoni psicologi) intravedevano la potenzialità del collaboratore: rei comuni tratti dalle carceri, a cui la carriera di aguzzini offriva un'eccellente alternativa alla detenzione; prigionieri politici fiaccati da cinque o dieci anni di sofferenze, o comunque moralmente debilitati; più tardi, anche ebrei, che vedevano nella particola di autorità che veniva loro offerta l'unico modo di sfuggire alla «soluzione finale». Ma molti, come accennato,
aspiravano al potere spontaneamente: lo cercavano i sadici, certo non numerosi ma molto temuti, poiché per loro la posizione di privilegio coincideva con la possibilità di infliggere ai sottoposti sofferenza ed umiliazione.

Lo cercavano i frustrati, ed anche questo è un lineamento che riproduce nel microcosmo del Lager il macrocosmo della società totalitaria: in entrambi, al di fuori della capacità e del merito, viene concesso  generosamente il potere a chi sia disposto a tributare ossequio all'autorità gerarchica, conseguendo in questo modo una promozione sociale altrimenti irraggiungibile. Lo cercavano, infine, i molti fra gli oppressi che subivano il contagio degli oppressori e tendevano inconsciamente ad identificarsi con loro. Su questa mimesi, su questa identificazione o imitazione o scambio di ruoli fra il soverchiatore e la vittima, si è molto discusso. Si sono dette cose vere e inventate, conturbanti e banali, acute e stupide: non è un terreno vergine, anzi, è un campo arato maldestramente, scalpicciato e sconvolto. La regista Liliana Cavani, a cui era stato chiesto di esprimere in breve il senso di un suo film bello e falso, ha dichiarato: « Siamo tutti vittime o assassini e accettiamo questi ruoli volontariamente. Solo Sade e Dostoevskij
l'hanno compreso bene»; ha detto anche di credere «che in ogni ambiente, in ogni rapporto, ci sia una dinamica vittima-carnefice più o meno chiaramente espressa e generalmente vissuta a livello non cosciente».

Non mi intendo di inconscio e di profondo, ma so che pochi se ne intendono, e che questi pochi sono più cauti; non so, e mi interessa poco sapere, se nel mio profondo si annidi un assassino, ma so che vittima incolpevole sono stato ed assassino no; so che gli assassini sono esistiti, non solo in Germania, e ancora esistono, a riposo o in servizio, e che confonderli con le loro vittime è una malattia morale
o un vezzo estetistico o un sinistro segnale di complicità; soprattutto, è un prezioso servigio reso (volutamente o no) ai negatori della verità. So che in Lager, e più in generale sul palcoscenico umano, capita tutto, e che perciò l'esempio singolo dimostra poco. Detto chiaramente tutto questo, e riaffermato che confondere i due ruoli significa voler mistificare dalle basi il nostro bisogno di giustizia, restano da fare alcune considerazioni. Rimane vero che, in Lager e fuori, esistono persone grige, ambigue, pronte al compromesso. La tensione estrema del Lager tende ad accrescerne la schiera; esse posseggono in proprio una quota (tanto più rilevante quanto maggiore era la loro libertà di scelta) di colpa, ed oltre a questa sono i vettori e gli strumenti della colpa del sistema. Rimane vero che la maggior parte degli oppressori, durante o (più spesso) dopo le loro azioni, si sono resi conto che quanto facevano o avevano fatto era iniquo, hanno magari provato dubbi o disagio, od anche sono stati puniti; ma queste loro sofferenze non bastano ad arruolarli fra le vittime. Allo stesso modo, non bastano gli errori e i cedimenti dei prigionieri per allinearli con i loro custodi: i prigionieri dei Lager, centinaia di migliaia di persone di tutte le classi sociali, di quasi tutti i paesi d'Europa, rappresentavano un campione medio, non selezionato, di umanità: anche se non si volesse tener conto dell'ambiente infernale in cui erano stati bruscamente precipitati, è illogico pretendere da loro, ed è retorico e falso sostenere che abbiano sempre e tutti seguito, il comportamento che ci si aspetta dai santi e dai filosofi stoici. In realtà, nella enorme maggioranza dei casi, il loro comportamento è stato ferreamente obbligato: nel giro di poche settimane o mesi, le privazioni a cui erano sottoposti li hanno condotti ad una condizione di pura sopravvivenza, di lotta quotidiana contro la fame, il freddo, la stanchezza, le percosse, in cui lo spazio per le scelte (in specie, per le scelte morali) era ridotto a nulla; fra questi, pochissimi hanno sopravvissuto alla prova, grazie alla somma di molti eventi improbabili: sono insomma stati salvati dalla fortuna, e non ha molto senso cercare fra i loro destini qualcosa di comune, al di fuori forse della buona salute iniziale.


La citazione è stata lunga, ma ne valeva la pena. Il capitolo prosegue esaminando due casi particolari di prominenti, quello dei Sonderkommando che si occupavano del prima, del durante e del dopo nel funzionamento delle camere a gas e quello di Chaim Rumkowski l'ebreo che gestì l'ascesa e la morte del ghetto di Lòdtz.

I titoli dei diversi capitoli sono autoesplicativi e mi auguro che invoglino i lettori di questo blog alla lettura: la memoria dell'offesa, lazona grigia, la vergogna, comunicare, violenza inutile, l'intellettuale ad Auschwitz, stereotipi, lettere di tedeschi.




L’isola in via degli uccelli: Søren Kragh-Jacobsen

L’isola in Via degli Uccelli (1997) è basato sul'omonimo romanzo, parzialmente autobiografico, di Uri Orlev che ha vissuto nel ghetto di Varsavia nascosto con la madre e una sorellina, dal 39 al 41 prima di essere deportato a Bergen Belsen. Ora Orlev vive in Israele. Nel film la vicenda dura 5 mesi e il protagonista, l'undicenne Alexander, è solo. Il ghetto è già stato evacuato e Alexander aspetta l'arrivo del papà che gli ha promesso che tornerà.

La vera storia del ghetto di Varsavia, che fu circondato da un muro o isolato murando le finestre e le porte degli edifici perimetrali (come nel film), la potete trovare qui con i problemi legati al contenimento delle persone (arrivarono sino a 500 mila) in uno spazio abbastanza ristretto, al suo smantellamento per deportazione degli abitanti, alla rivolta.

Non ho letto il libro, ma il film si presta bene all'intento di emozionare positivamente senza ingannare; si soffre e alla fine si partecipa con piacere alla soluzione positiva della vicenda e alla tostaggine di questo bimbo molto autonomo e geniale. E' un film che può essere tranquillamente proiettato a bimbi dalla quarta elementare sino alla terza media ed essere occasione per allargare il discorso sui ghetti dell'Europa Orientale che furono luogo oltre che di segregazione, di sfruttamento e poi di deportazione in vista dello sterminio.

Il padre di Alexander lavora in una fabbrica di cordami insieme allo zio Boruch che fa da guardiano; siamo nell'autunno del 43 e i nazisti si preparano a smantellare completamente il ghetto e cedere area ed edifici alla popolazione di Varsavia. Gli adulti con bambini, i vecchi e le donne verranno deportati nei campi di sterminio, gli adulti (come il padre di Alexander) saranno avviati al lavoro coatto.

Nel ghetto si sta sempre sul chi vive; la selezione può arrivare in qualsiasi momento e il ghetto è pieno di rifugi sotterranei, passaggi più o meno segreti, locali nascosti dove si cerca di vivere normalmente. Un giorno la selezione arriva e i tre (padre, figlio e zio) vengono scoperti nel magazzino dietro una riserva di cordami; qualcuno ha fatto la spia e Alexander viene affidato a Baruch per consentire la sopravvivenza almeno al padre. Ma Baruch ha deciso che lo farà fuggire a costo della vita; Alexander scappa e riesce a rifugiarsi nell'edificio diroccato di via degli Uccelli.

Ha 11 anni ma deve diventare grande; dove stare? Cosa mangiare? Persino l'acqua è stata tagliata. E' solo, insieme a Neve, un topolino bianco che ha ammaestrato e insieme a Robinson Crosue, il romanzo di DeFoe che corrisponde alla sua vita: Neve è Venerdì, il palazzo diroccato è la sua isola separata dal resto del mondo dal muro perimetrale.

Neve è bravissimo a scoprire tra le macerie degli appartamenti abbandonati i nascondigli di cibo e Alexander incontra anche gli sciacalli del ghetto. L'acqua è il problema principale e si accorge che in alto, tre piani sopra, si intravvede un lavandino metallico a cui si stanno abbeverando dei piccioni. Il ragazzino sta diventando un uomo: va alla fabbrica di cordami e fa incetta di corde, argani, carrucole, legname e si costruisce una scala a pioli (vedi immagine). Con il vecchio sistema della corda e del sasso riesce ad issarla e a salire in alto dove trova l'acqua, due metri di pavimento e un rifugio dove stare (la scala viene ogni volta distesa e poi raccolta in modo di risultare invisibile).

Guarda il mondo dall'alto, con un binocolo che ha recuperato, usando una griglia di areazione affacciata dalla parte del mondo vietato. Fuori c'è la città che vive; c'è una bimba simpatica (Stasya) che lo trarrà di impaccio in un paio di occasioni, ci sono i polacchi collaborazionisti, c'è un medico che ama giocare a scacchi, c'è un prete che collabora con la resistenza. Alexander imparerà ad uscire e a mimetizzarsi.

Aiuta due membri delle squadre di resistenza ebraica che hanno organizzato la rivolta nel ghetto (spara con la pistola del padre ed uccide l'SS che li inseguiva); ospita e cura (con l'aiuto del medico al di là del muro) il resistente ferito (Henryk) dopo che l'altro, partito per cercare aiuto, non è mai tornato. Sotto le macerie di via degli Uccelli le SS, allertate da un torturato, scoprono un bunker fornitissimo e che ospitava 8 persone e così Alexander si farà una doccia nell'intervallo tra la cattura degli occupanti e la demolizione con l'esplosivo che avviene il giorno dopo.

Passa l'inverno e il tempo scorre misurato da un graticcio da muratore in cui Alexander infila un fiammifero al giorno. Stasya e sua madre stanno per traslocare in campagna e si offrono di ospitarlo anche perché il ghetto, ormai svuotato, sta per essere ceduto a famiglie di polacchi-cristiani, ma il ragazzino tiene duro, ha dato la sua parola al papà e lo aspetta.

Le nevicate di primavera fanno crollare i rimasugli del tetto e con lui il rifugio ai piani alti. Dopo la caduta arriva un'altra sorpresa negativa. Dentro la sua scatola di metallo c'è il corpo di Neve  senza vita. Ma Alexander è tosto, aspetta nella buca in cortile che gli ha salvato tante volte la vita e con la primavera, dopo 5 mesi, arriva il papà. Forse c'è un eccesso di ottimismo, ma nella Shoah, c'è anche qualcuno che se la cava e nella lotta si fa adulto.


Il mio voto: 8.5




Senza destino – Fateless: Lajos Koltai

Fateless (2004) è tratto da un romanzo autobiografico del premio Nobel ungherese Imre Kertesz e ha un inizio sinceramente troppo lungo anche se interessante perché ci consente di cogliere la specificità della persecuzione ebraica nei diversi paesi d'Europa.

Il film, per essere sicuro di averlo capito, me lo sono guardato tre volte e, in mezzo, sono andato a Siena alla Feltrinelli, mi sono comperato il libro di Kertesz "Essere senza destino" e l'ho letto di getto, ritornando, a lettura ultimata, sulle parti che avevo trovato problematiche nel film. Il romanzo è in offerta nelle librerie Feltrinelli, costa solo 6 € e li merita tutti. Sono due cose diverse, con il film guardi e poi pensi, con il libro vai nei dettagli e poi, se vuoi, immagini. Non c'è fiction, Kertesz racconta di sè, della sua storia e Koltai fa un film su una sceneggiatura assolutamente fedele (solo un po' ristretta per le esigenze cinematografiche).

Siamo nella primavera del 1944 a Budapest. I tedeschi hanno occupato l'Ungheria da qualche mese ed Eichman progetta ed organizza il genocidio dell'ultima comunità di Ebrei ancora intatta in Europa. La maggioranza di loro finiranno direttamente nelle camere a gas di Auschwitz (4 trasporti al giorno per qualche mese)

Gyurka, non ha ancora 15 anni, fa il liceo ed è figlio di un ricco commerciante di legname che è stato destinato al lavoro obbligatorio (morirà di consunzione nel campoi di Mauthausen). Il film inizia con la partenza del padre mentre Gyurka rimane con la matrigna (a monte c'è un divorzio). L'ambiente è quello della borghesia cittadina ricca. Gli ebrei sono stati obbligati a portare la stella gialla, ma tutto, all'inizio è molto civile mentre iniziano le prime restrizioni alimentari.

Come tanti coetanei anche Gyurka viene comandato al lavoro e ne è felice; va a fare il muratore in una raffineria della Shell fuori città. Un mattino un poliziotto pacioso, dall'aria un po' tonta, ferma l'autobus e lo fa scendere. Nel fosso a lato della strada ci sono altri come lui. Il poliziotto è il primo ad essere stupito; i documenti sono a posto ma lui attende ordini e nella attesa gioca con loro alla "sberla del soldato".

La banalità del male inizia così. Gli ordini arrivano, bisogna andare in caserma per il controllo dei documenti e, alla caserma, gli ebrei, tutti fermati a piccoli gruppi, arrivano come un fiume in piena: famiglie, dirigenti industriali, sfigati e studenti. Le cose cambiano pian piano: i miliziani (con piume di gallo cedrone sulla testa) sono più duri, antisemiti ed arraffoni. Gli ebrei vengono portati in una fabbrica di laterizi; bisogna andare a lavorare in Germania, chi parte per primo viaggia meglio e il gruppo di quindicenni parte con i primi convogli.

C'è il viaggio di qualche giorno (Ungheria, Slovacchia, Polonia) e con l'arrivo ad Auschwitz compaiono i tedeschi. Nel film, e più ancora nel libro, è tutto naturale: la separazione tra chi lavorerà e chi andrà nella camera a gas, la registrazione, la consegna degli ultimi beni nascosti, la rapatura, la doccia, gli abiti a strisce, la baracca, la noia. L'ottimismo e la fiducia nel sistema tedesco, dove tutto è ordinato e funziona, pian piano si attenua nella attesa che dura qualche giorno. Si riparte e si va in Germania, a Buchenwald e poi in un sottocampo con le tende al posto delle baracche a Zeitz..

I nazisti sono quasi invisibili; nel sistema concentrazionario tutto funziona sulla base di una rigida divisione dei compiti e facciamo conoscenza con un tremendo kapo (ladro, zingaro e omossessuale), con la fame, con i piccoli baratti per sopravvivere e con Bandi Citrom, un ungherese al quinto anno di deportazione, che farà da fratello maggiore a Gyurka.

Giù il cappello, su il cappello te lo raccontano ossessivamente i sopravvissuti di tutti i lager; il conrtrappello serale prima della cena che può durare un'ora, due o tre ore, fermi mentre ti contano e ti ricontano e mentre i deportati oscillano per non cadere (scene molto efficaci nel film).

Passa l'estate arrivano l'autunno e l'inverno; la testa e il fisico di Gyurka cedono: il deperimento, la diarrea, la scabbia e un flemmone che trasforma il ginocchio in un sacco rosso. I compagni riescono a farlo ricoverare; il flemmone viene inciso e Gyurka viene rispedito a Buchenwald (dove c'è il crematorio) insieme a quelli considerati irrecuperabili. Le sequenze sono molto dure e qualche critico ha ironizzato sulla scena in cui Gyurka toglie la carta dalla ferita e vede che i pidocchi si sono istallati per campare meglio. Nel libro c'è tutto così come la evoluzione verso la rassegnazione in scene di trasporto verso la morte sempre più raccrapiccianti.

Nel libro e nel film non si capisce cosa accade, ma dopo una doccia da cui si aspetta l'uscita del gas, qualcuno lo raccoglie e lo porta in un ospedale vero (le federe hanno il timbro delle SS) dove passa l'inverno, viene curato e accudito sino alla liberazione del campo in aprile.

Si torna a Budapest: Bandi Citrom non è tornato, la casa di Gyurka è occupata da un'altra famiglia ma ci sono ancora i due vecchi ebrei della porta accanto. Ascoltate e riascoltate i dialoghi finali. Chi è ritornato è su un altro mondo rispetto a chi è restato e la fine di Primo Levi è lì a ricordarcelo.


"Non dobbiamo forse immaginare il campo di concentramento come un inferno? … e io, disegnando con il tacco un paio di cerchi nella polvere, gli ho detto che ce lo si poteva immaginare come si voleva; quanto a me io potevo solo immaginarmi il campo di concentramento, perché, entro certi limiti lo conoscevo, l'inferno no – "E se dovessi immaginarlo?" – Allora lo immaginerei come un luogo dove non ci si può annoiare, mentre in un campo di concentramento era possibile, lo era persino ad Auschwitz, a certe condizioni, è ovvio.


“Prima di tutto,” ha detto, “devi dimenticare gli orrori.” Ancora più stupito ho chiesto: “Perché?”. “Per poter vivere,” mi ha risposto e il signor Fleischmann ha annuito e ha aggiunto: “Vivere liberamente”, e l’altro a sua volta ha annuito e ha aggiunto: “Con un simile peso non si può cominciare una vita nuova”, e in questo aveva ragione, dovevo ammetterlo. Solo che io non capivo come potessero pretendere una cosa impossibile, ho fatto notare che l’accaduto era accaduto e che non potevo dare ordini alla mia memoria. Una vita nuova — ho obiettato — potevo incominciarla solo se fossi rinato, oppure se una qualche disgrazia, una malattia o qualcosa del genere si fosse impadronita della mia coscienza, e speravo proprio che loro non mi augurassero questo. “E in generale,” ho aggiunto, “io non mi sono accorto degli orrori,” e allora li ho visti tutti piuttosto sbalorditi. Cosa significava che “non mi ero accorto”? Ma a quel punto ho domandato che cosa avessero fatto loro in questi “tempi difficili”. “Be’… abbiamo vissuto,” ha risposto il primo con aria pensierosa. “Abbiamo cercato di sopravvivere”, ha aggiunto l’altro. Dunque anche loro avevano fatto un passo dopo l’altro — ho osservato. Quali passi, hanno voluto sapere, e allora ho spiegato anche a loro come erano andate le cose, per esempio, ad Auschwitz. Per ogni convoglio ferroviario — non voglio sostenere che sia necessariamente andata sempre così, poiché non posso saperlo — quanto meno nel nostro caso, però, bisogna calcolare circa tremila persone. Supponiamo che tra esse vi fossero più o meno mille uomini. Calcoliamo uno, due secondi, più uno che due, per la visita. Il primo e l’ultimo li lasciamo perdere, tanto non contano mai. In mezzo, però, dove mi trovavo anch’io, bisognava calcolare un tempo di attesa tra i dieci e i venti minuti prima di arrivare al punto dove viene presa la decisione: subito il gas oppure per questa volta scampato. Intanto, però, la fila continua a muoversi, ad avanzare, ciascuno fa sempre un passo, corto o lungo, a seconda della velocità di regime. A quel punto è calato un silenzio che è stato interrotto solo da un rumore: la signora Fleischmann mi ha tolto il piatto vuoto e l’ha portato via, non l’ho più vista tornare indietro. I due vecchi però mi hanno domandato cosa c’entrasse e cosa intendessi dire. Niente in particolare, però non era vero che le cose semplicemente fossero “arrivate”, perché anche noi ci eravamo mossi. Solo che adesso tutto dava l’impressione di essere finito, concluso, immutabile, definitivo, così mostruosamente rapido e terribilmente confuso, proprio come se tutto fosse “arrivato”: ma soltanto adesso, guardandolo a posteriori, diciamo da dietro. E, ovviamente, anche conoscendone il destino. Perché così, in effetti, ci rimane solo l’evidente cognizione che il tempo trascorre. Perché così, per esempio, uno stupido bacio ha lo stesso grado di necessità, diciamo, di un giorno di immobilità nel casello daziario oppure delle camere a gas. Ma sia guardare da dietro sia guardare da davanti, sono prospettive sbagliate, questa era la mia opinione. In fin dei conti anche venti minuti, presi in se stessi, sono un tempo lungo. Ogni minuto era cominciato, era durato ed era terminato prima che fosse cominciato quello successivo. Ma adesso — ho detto — proviamo a considerare questo: ciascuno di quei minuti avrebbe potuto portare qualcosa di nuovo. In realtà non ha portato niente, naturalmente — eppure bisogna ammettere che avrebbe potuto, in fondo durante ciascuno di quei minuti sarebbe potuto succedere qualcosa di diverso da quello che casualmente era accaduto, e questo ad Auschwitz esattamente come, supponiamo, qui a casa, quando avevamo preso commiato da mio padre. Quell’ultima frase ha in qualche modo scosso il vecchio Steiner. “Ma cosa avremmo potuto fare?!” ha domandato con un’espressione tra l’arrabbiato e il lamentoso. Io ho detto: niente, naturalmente; oppure, ho aggiunto, qualunque cosa, che sarebbe stato altrettanto irragionevole quanto il non aver fatto niente, è naturale, naturale come sempre.


Il mio voto al film e al libro: 9