1965-1970: volevamo cambiare il mondo

III edizione – giugno 2024

Alla fine del 65 ho iniziato l’Università e, contemporaneamente, ho interrotto i rapporti con la Fgsi, pur avendo ripreso la tessera del 66 funzionale a ingrossare le fila del neonato Movimento Socialista Autonomo (poi confluito nella Sinistra Indipendente).

Non mi convincevano la prospettata unificazione con i socialdemocratici e la impronta poco coraggiosa che aveva preso il centro sinistra. C’era poi aperta la ferita della guerra con il Vietnam. In quegli anni la politica ed i suoi riferimenti erano ancora un elemento di contorno rispetto ai mille altri interessi: più che militare ci si documentava.

prima del 68

Il mio riferimento politico culturale, piano piano, divenne il PCI, un rapporto mediato dalla lettura sistematica di Rinascita che, per almeno 7 anni, sarebbe stato il mio strumento di riflessione e crescita politica.

le riviste

Non ebbi mai rapporti diretti con il partito nè a Villasanta nè a Monza e mi limitai a farmi recapitare, all’indirizzo di Federico Ripamonti, il capo storico del PCI di Villasanta, ma anche amico di papà, l’abbonamento al settimanale.

Passavo da casa sua a ritirarlo la domenica mattina. Era la applicazione delle tecniche non conflittuali da adottare in famiglia; noltre l’abbonamento per gli studenti era davvero conveniente in termini di costo. Un anno vinsi pure una bici Bottecchia sport rossa che utilizzai poi per parecchio tempo e alla fine l’ho regalata ad un immigrato che ne aveva bisogno.

Tramite la versione on line sono finalmente riuscito a recuperare una breve lettera, che ricordavo di avere mandato, e che con titolo Checchè ne dica Ottaviani venne pubblicata; è nel numero 30 del 23 luglio del 66. ll cardinale Alfredo Ottaviani, prefetto del Sant’Uffizio, che amava autodefinirsi il carabiniere dell’Ortodossia, era il nemico giurato di ogni rinnovamento all’interno del mondo cattolico.

A Monza ci si vedeva e si dialogava intorno alla Biblioteca Civica e, per un certo periodo, insieme a Maurizio Antonietti, che ne prospettava il rinnovamento e lo spostamento in senso progressista, aderii e mi diedi da fare per la FUCI (la federazione degli universitari cattolici) mentre a Milano avevo aderito alla Intesa Universitaria (la associazione dei cattolici progressisti).

alcune delle riviste e dei periodici che hanno segnato la mia evoluzione politica: cattolici del dissenso, sinistra socialista, PCI

Tra il 66 e il 67 ci fu un fiorire di riviste e settimanali facenti capo al mondo cattolico progressista: Questitalia del veneziano Vladimiro Dorigo democristiano, ma molto di sinistra, Testimonianze del gruppo fiorentino raccolto intorno a padre Ernesto Balducci, Settegiorni un settimanale sponsorizzato da Carlo Donat Cattin e diretto da Ruggero Orfei e Piero Pratesi. Il mio spostamento a sinistra andava di pari passo ad una sofferta battaglia per il rinnovamento della religione e per aperture culturali tra mondo cattolico e movimento operaio; iniziai a leggere anche l’Astrolabio diretto da Ferruccio Parri e Problemi del socialismo di Lelio Basso (uno dei padri costituenti, socialista di sinistra, poi psiuppino che pensava ad una sinistra non comunista di tipo luxemburghiano).

gli angeli del fango

Nel novembre 1966, in occasione della alluvione di Firenze, partimmo in un buon gruppo per partecipare al progetto di estrazione dalla fanghiglia dei libri della Biblioteca Nazionale. Organizzavano Ugi e Intesa di Matematica e Fisica e fu così che incominciammo a conoscerci e a fare gruppo.

Mi ricordo una loggia, tipo quello di piazza Signoria (ma più piccola), e noi pieni di fango (un fango liquido tra l’ocra e il verdastro) che ci riposiamo un po’. Il fango era dovunque e ce n’era tantissimo nei sotterranei della Biblioteca Nazionale. Sento il sapore di un panino con il pane senza sale con il salame toscano, quello con il grasso non macinato e inserito a pezzi grandi, che vedevo per la prima volta.

Forse abbiamo fatto più scena che sostanza; ogni tanto ci penso. Ma siamo andati subito e ci era chiaro che bisognava andare.

hanno fatto un deserto …

il manifesto di convocazione, con il teschio, la bandiera americana e la citazione di Tacito

Passò qualche mese e l’UGI raccolse un appello internazionale, mi pare  partito dagli studenti americani, per manifestare a fianco del Vietnam.

Hanno fatto un deserto e lo hanno chiamato pace, diceva una frase di Tacito stampata su una bandiera americana con il teschio. E’ stata la mia prima manifestazione.

Ci sono andato in pulman con Flavio Crippa e i suoi amici della Fgci di Lecco; tanti giovani, tante bandiere vietnamite, un po’ di bandiere rosse. Non mi piaceva la guerra del Vietnam; ma quelli come me ci tenevano a sottolineare che non eravamo antiamericani, eravamo contro quello che gli americani stavano facendo. C’era stato in Grecia il golpe dei colonnelli e il clima si stava surriscaldando.

Dopo quello di Lelio Basso, che rappresentava il tribunale Russel, ci fu il tentato comizio di Giorgio La Pira sindaco di Firenze. Per me, allora, La Pira era un un mito, come lo erano padre Balducci, don Milani o la comunità dell’Isolotto; erano l’esempio che si poteva essere cattolici ed essere in prima linea nella lotta contro l’ingiustizia.

Quella sera ebbi il primo incontro con quelle che avremmo poi chiamato le contraddizioni in seno al popolo. La Pira aveva appena iniziato a parlare con il suo stile profetico che lo portava a fare il Sindaco delle città della pace, a viaggiare tra Mosca e Washington per fare l’ambasciatore dei diritti del Vietnam. Dopo poche parole fu subito subissato dai fischi dei marxisti leninisti. E poi, a manifestazione finita, ci fu lo scontro con la polizia accuratamente ricercato da alcuni. Che paura; città sconosciuta; botti dei lacrimogeni; cercammo di arrivare al pullman; ma perché i fischi, ma perché gli scontri? Non eravamo venuti per la pace?

convegno dell’Intesa a Castelveccana

Estate 1967 Castelveccana: convegno estivo dell’Intesa in un convento di suore sul Lago Maggiore. Si discute della imminente lotta alla Cattolica contro l’aumento delle tasse. Ci sono anche due dei tre che più tardi saranno espulsi, Pero e Spada (ma non c’è Capanna). L’Intesa per noi giovani cattolici impegnati a sinistra è lo sbocco naturale: progressismo, incontro con la sinistra laica dell’Ugi.

C’è anche il segretario nazionale Pierluigi Covatta, che ha 3 o 4 anni più di noi, è cresciuto nelle file del movimento giovanile democristiano e ha guidato l’organizzazione all’incontro con i comunisti. Brillante, ironico; ricordo un piccolo aneddoto sulla ignoranza nel mondo democristiano. Era ad una riunione di deputati DC e fu presentato come presidente nazionale dell’UNURI (l’organismo nazionale delle rappresentante studentesche). Venne avvicinato da un deputato che gli fece i complimenti: lei così giovane e già così esperto di cavalli. Il deputato aveva confuso l’UNURI con l’UNIRE (unione nazionale per l’incremento delle razze equine).

Ha diretto MondoOperaio, la rivista teorica del PSI dopo aver fatto il maitre a penser del PSI nel primo progetto riformista di Craxi.  Covatta è morto nel 2021.

il terzo mondo

Acccanto a Rinascita la mia formazione politica sta avvenendo con la lettura di libri di taglio terzomondista (non si diceva ancora antimperialista). Il giorno precedente quello dei miei 21 anni, che allora era la maggiore età, arrivò la notizia della morte di Che Guevara. Era il 7 ottobre 1967.

il cadavere di Che Guevara mostrato in pubblico dai suoi assassini.

Quelle foto di Che Guevara massacrato di botte prima di essere riempito di pallottole lasciarono il segno. Sembrava il Cristo morto del Mantegna e quella foto avrebbe inciso nelle coscienze di molti giovani.

Il mondialismo era quello che ci sentivamo dentro. Non dicevamo lotta all’imperialismo o internazionalismo proletario; mondialismo mi pare più attinente alle pulsioni della mia generazione. Era qualcosa che aveva a che fare con una sorta di senso di colpa del ricco Occidente nei confronti del resto del mondo.

Gli anni ‘60 sono stati gli anni del disfacimento degli ex imperi coloniali, della conquista dell’indipendenza da parte di molti stati di Asia e Africa, mentre in America Latina si guardava all’esempio di Cuba, alla Trilaterale, al movimento dei non allineati. Non ci sorreggevano grandi analisi su ciò che accadeva o sulle nuovi classi dirigenti di quei paesi, ci bastava l’idea che forse qualcosa stesse cambiando e che si potesse andare verso un ordine internazionale più giusto.

Si navigava a vista, accanto a qualche libro di Pierre Jalée come “il saccheggio del terzo mondo”, che ci introduceva ai problemi del mercato mondiale e a quello delle materie prime, ricordo un articolo di Rinascita in cui, per la prima volta, scoprii che, invece di parlare di primo, secondo e terzo mondo, meglio sarebbe stato parlare di paesi sottosviluppati e paesi sottosviluppanti, con le ovvie conseguenze del caso in termini di responsabilità.

il 1968, la prima occupazione, le mie prime elezioni

antefatto

I movimenti hanno sempre una causa immediata di tipo casuale e, nel caso di fisica, tutto partì dalla reazione esagerata del direttore di istituto, professor Caldirola ad un problema banale: una assemblea non terminata nell’orario previsto. La presiedeva Roberto Biorcio, più vecchio di noi di un paio d’anni. Biorcio era il presidente del parlamentino studentesco di tutta la Statale.

Il professor Caldirola non voleva che l’assemblea continuasse nella sua ora e non mi ricordo proprio perché la volessimo fare. Biorcio lo incalzava e si muoveva secondo i moduli della non violenza; me lo ricordo a braccia alzate che resiste davanti alla lavagna mentre Caldirola tenta di buttarlo fuori.

Alla fine, per poter continuare, ci prestò l’aula il professor Loinger, fisico teorico, uno dei decani di Fisica. Tanta voglia di fare qualcosa, ma cosa? Si dice che l’appetito vien mangiando. Iniziò un lungo dibattito durato giorni; si fece strada, pian piano, l’idea di occupare l’Università (come stava accadendo in giro per l’Italia).

una ciliegia tira l’altra …

assemblea generale di scienze in aula A – si riconoscono tra gli altri Giorgio De Michelis, Sergio Bianchini, Bruno Manelli e Daniele Marini – dietro di lui il mitico Robuschi, detto Robuschiele per il tono profetico dei suoi intrventi (Ezechiele)

Si trattava di una assemblea vera; noi con tanta voglia di essere; gli altri, i nostri compagni di corso, perplessi e incuriositi; alcuni ci accusarono di essere pagati dai comunisti con le semplificazioni che la destra qualunquista ha sempre avuto e che aveva anche allora. Ma si discuteva, tutti avevano diritto di parola e si replicava cercando di convincere

Si andava affermando la democrazia assembleare; alla fine venne il momento di decidere sul da farsi; ci fu una votazione per appello nominale di coloro che nei giorni precedenti, libretto alla mano, si erano iscritti al voto; una votazione durata ore ed ore.

Le aule B e C furono collegate via audio con l’aula A (grazie ai prodigi di Flavio Crippa, fin da allora eccezionale addetto alla logistica). Si veniva chiamati e ci si dichiarava favorevoli o contrari; quando il numero dei favorevoli raggiunse il quorum, a chiamata ancora in corso, scoppiò un applauso liberatorio; quel quorum significava OCCUPAZIONE.

Era il 28 febbraio 1968 e il documento per la occupazione diceva tra l’altro:


Nella lezione, il professore impartisce nozioni che gli studenti sono tenuti ad apprendere con lo studio individuale. I contenuti dell’insegnamento sono proposti in forma frammentaria senza che sia mai richiesta una sintesi a livello di critica della scienza e una chiarificazione dei nessi tra attività universitarie, professioni, sviluppo sociale ed economico.

Durante l’esame il professore controlla, in modo spesso arbitrario, l’apprendimento nozionistico. L’imposizione di questo sterile nozionismo porta lo studente a uno studio mnemonico che limita o impedisce lo sviluppo critico e la maturazione della sua personalità.

Una volta laureato, lo studente si troverà di fronte a una società che non conosce e che non sa criticare, nella quale dovrà inserirsi per vivere diventando inconsciamente lo strumento che garantisce la stabilità di questo ordine sociale. Questa situazione della didattica si perpetua grazie alle condizioni di totale passività degli studenti, assuefatti ormai ai metodi autoritari presenti a tutti i livelli scolastici. Si presenta quindi l’importanza dell’obiettivo della contestazione dell’autoritarismo accademico mediante l’introduzione del dibattito a tutti i livelli delle attività universitarie e della affermazione delle esigenze di cui gli studenti sono portatori.


in aula A durante la assermblea di occupazione

Su Pensieri in Libertà c’è una pagina di documentazione con la mozione integrale, il regolamento di assemblea, il regolamento per la affissione dei manifesti, …

Eravamo in una facoltà scientifica e dunque, ci siamo dettidobbiamo essere seri:  a dormire i ragazzi da una parte le ragazze da un’altra. Bisogna rimettere bene in ordine tutto la mattina. Ciascuno contrattò con la famiglia il diritto di dormire nella facoltà occupata: fortunati quelli con la famiglia di sinistra che non avevano problemi.

Il movimento raggruppava tutti i corsi di laurea di scienze, con la eccezione di chimica, che confluirà nel 68/69.

la contestazione

Abbiamo scoperto che il mondo dei formalismi, delle persone per bene, non ci stava più bene che, per noi, volevamo decidere noi. Volevamo dare un taglio alle cose più assurde, in una parola volevamo la democrazia diretta. Quando ce la siamo presa, ci siamo accorti quasi subito di essere finiti in un mondo magico da cui non volevamo più uscire, perché dentro quel mondo non valevano più le regole assurde dell’altro mondo.

Poiché non si poteva vivere solo in assemblea, abbiamo incominciato ad inventare altre forme di organizzazione: strutture decentrate come le commissioni a tema, i gruppi di lavoro, i gruppi di intervento; obiettivi di lotta contro la selezione e contro la scuola di classe, che avevano come strumento primario quello di controllare i ritmi di insegnamento in modo che non andassero in contrasto con quelli di apprendimento.

un po’ di colore

Una foto mostra le ragazze che fanno le pulizie la mattina perché noi di scienze della prima ora siamo molto moralisti e ci teniamo a smentire quello che dicono certi giornali sulla università trasformata in un bordello. Deve essere tutto in ordine; peccato che a pulire siano le ragazze.

sullo sfondo Alberto Bertoni

Come siamo diversi: Basilio (Rizzo) è un mito: non è battezzato ed è di famiglia comunista, ma gioca alle carte come gli altri, anzi di più, a briscola con suo nonno.

Ci sono i cattolici compresi quelli che tra breve daranno vita a Comunione e Liberazione sulle ceneri della implosione di Gioventù studentesca, i cattolici di sinistra già toccati da Fuci e Intesa, gli studenti di sinistra, quelli di sinistra ma che forse sono ancora più a sinistra, quelli dello Psiup, gli anarchici, gli hippies, i situazionisti, qualche operaista in gestazione.

I bidelli di fisica sono con noi (quante partite a tressette e al due con Gino e Giancarlo).

la organizzazione

Si mette in piedi il Comitato di Agitazione nella ex sala della facoltà (di fronte alla biblioteca) dove si facevano le sedute di laurea e dove un tavolo gigantesco ci permetterà di fare riunioni ordinate. Il Comitato di Agitazione è una sorta di ufficio di direzione che serve a dare continuità al lavoro.

Incominciamo a fare i tatse bao (i giornali murali ripresi dalla rivoluzione culturale cinese) usando i fondi delle bobine di carta da quotidiano procurati da Flavio. I nostri tatse bao hanno il titolo rigorosamente a pennello con vernice ad acqua di colore rosso e sono inconfondibili nella storia del movimento milanese. I titoli dei gruppi in cui si articola l’assemblea li vedete nella foto: didattica di massa, ricerca di massa, preparazione all’insegnamento, scuola – società – ristrutturazione, diritto allo studio, sbocchi professionali.

non chiedetemi perché quel giorno fossi in giacca e cravatta – non mi ricordo

Poi il grande lavoro su Lettera ad una professoressa che viene ristampata in migliaia di copie e che leggeremo e discuteremo pagina per pagina nei gruppi di studio. Me la sono riletta un paio d’anni fa e direi che c’era del buono e del meno buono (si veda l’articolo rileggendo Lettera ad una professoressa).

L’occupazione è finita. Non ricordo cosa abbiamo ottenuto perché i ricordi si sovrappongono tra le mie tre occupazioni (68,69 e 70).

Ci fu un tentativo di controllo dei ritmi di insegnamento e di quelli di apprendimento (una esigenza giusta con un obiettivo improponibile e irrealizzabile se assunto senza mediazioni) e comunque dopo quella occupazione e la successiva portammo a casa: i semestri, i corsi serali, le dispense oltre ad alcun piccole liberalizzazioni sui piani di studio.

le elezioni della primavera 1968 e lo PSIUP

In quella primavera si tennero le elezioni politiche e io votavo per la prima volta (solo alla Camera). Politicamente mi stavo avvicinando allo PSIUP che avevo iniziato a frequentare in quel di Monza con due amici (Mao Soardi e Lino Di Martino) che poi fecero i professori a Matematica.

Votai PSIUP e in quei mesi lessi e rilessi un  libro per me importante “Il socialismo difficile” di Andrè Gorz condirettore (con Sartre) di Les Temps Modernes. Si incominciava a cercare una nuova teoria; eravamo curiosi di marxismo; si trattava di un’opera a più mani cui avevano collaborato esponenti del movimento operaio italiano come Foa, Garavini e Trentin. Si esponeva un modello di lotta per il socialismo che passava attraverso profonde riforme di struttura e ci si respirava aria di libertà. Erano i cosiddetti riformisti rivoluzionari, una definizione che trovavo consona alle mie idee.

Nel corso dell’estate 1968 accaddero due eventi importanti per la mia evoluzione politica: la invasione della Cecoslovacchia da parte dei carri armati sovietici e il convegno del movimento di scienze a Fontanella presso l’abbazia di padre Turoldo.

Mi ero iscritto allo Psiup da meno di 15 giorni e mi ritrovai immediatamente alla opposizione vista la presa di posizione ambigua di quel partito sui carri armati russi a Praga. Così, fatta eccezione per il lavoro politico a Monza in occasione della lotta della Candy con la fondazione del CUB, il mio frapporto con lo PSIUP finì prima ancora di incominciare.

A Monza la  sede dello PSIUP era in via Anita Garibaldi, sulla destra del Tribunale ed era annessa ad un circolo socialista in riva al Lambro (oggi ci sono solo condomini signorili). Più che per far politica andavamo ad ascoltare i racconti dell’avvocato Giovanbattista Stucchi, uno dei comandanti del CLN Alta Italia, uno di quelli che si vedono sfilare con Longo e Mattei nella famosa foto della liberazione di Milano (rappresentava le brigate Matteotti).

Estate 1968 convegno del movimento a Fontanella

Fontanella è una frazione di Sotto il Monte, il paese di Giovanni XXIII e a Fontanella padre David Maria Turoldo (intellettuale, poeta, predicatore, organizzatore) aveva messo in piedi intorno ad una abbazia medioevale un centro studi dei Servi di Maria l’ordine religioso di cui faceva parte.

A Fontanella abbiamo fatto il convegno residenziale estivo del movimento. Pochi giorni di nuovo insieme (eravamo una cinquantina) per discutere cosa fare nel 68/69. Abbiamo lavorato e a me è rimasto in mente la pace di quel posto. Turoldo ci lasciò discutere per giorni senza mai interferire e poi prese la parola l’ultimo giorno; riprese qualche elemento della sua ricca storia personale che copriva tutto il dopoguerra e ci rivolse un invito esplicito a non farci strumentalizzare. Ricordo ancora la replica irata di Sergio Bianchini che si stava avvicinando ai marxisti leninisti.

A Fontanella ho anche conosciuto Oskian (Aurelio Campi) che nel primo anno di movimento si era mosso nell’ombra (anche perché allora era un greco-armeno apolide) e che durante il convegno esercitò una netta leadership conquistando alla neonata Avanguardia Operaia una buona fetta del gruppo dirigente.

Con lui ebbi modo di approfondire le cose che avevo appreso dal libro di Gorz. Era leninista e me le smontò una per una, ma senza strafare. Era iniziato il mio percorso verso Avanguardia Operaia. Paradossalmente, quando nel 1975, da segretario generale di Avanguardia Operaia si trovo a dover definire la nostra strategia di medio periodo, egli parlò di lotta rivoluzionaria per le riforme.  Gorz aveva ragione?

la religione e il cristianesimo

La rottura con la religione è stata graduale e, come detto, è avvenuta prima con la Chiesa e poi con Dio. Il mio processo di contestazione-rinnovamento è iniziato all’inizio degli anni ‘60 con l’adesione a Gioventù Studentesca: ricerca di rapporti umani autentici e rapporto con il Divino mediato da una comunità: il contrario del formalismo e della disumanità della Chiesa brianzola di paese fatta di riti, organizzazione e mancanza di discussione.

Da GS me ne sono andato quando l’integralismo è diventato dominante e gli spazi per un nuovo umanesimo sono diventati solo quelli interni al cattolicesimo. Lasciata GS, non ho lasciato il cattolicesimo (che ormai preferivo chiamare cristianesimo): attenzione al rinnovamento post conciliare, lettura delle riviste del rinnovamento, frequentazione di sacerdoti e comunità eterodosse, delusione per la figura di Papa Montini sul piano umano (troppo pastina) e sul piano intellettuale e teologico con i passi indietro rispetto a Papa Giovanni il Papa Buono.

abbazia di Sant’Egidio a Fontanella nei pressi di Sotto il Monte

E’ stata una trasformazione lenta che ha avuto il suo strappo decisivo proprio a cavallo del ‘68-‘69, quando mi presi alcuni giorni di riflessione presso la comunità di Padre Turoldo. Lì ho trovato gente molto in gamba disposta a concepire percorsi personali e un po’ eretici dentro la Chiesa (teologi puri, teologi della liberazione).

Oltre a padre Turoldo, fuori classifica sul piano della personalità e della esperienza umana, ebbi modo di conoscere alcuni altri Servi di Maria (intellettuali a tutto tondo e anche frati latino-americani con simpatie per la rivoluzione). In Uruguay era il tempo dei Tupamaros. Scrissi anche un saggio per la loro rivista trimestrale (Servitium). Ma c’erano di mezzo le assurdità del mondo cattolico con i suoi riti, la sua etica reazionaria, il principio di autorità; avevo 22 anni e avevo incominciato a fare sesso con Bruna.

Da Turoldo e dai suoi teologi venni invitato a considerarmi una pecorella con diritto alla autonomia di pensiero, ma dopo alcuni dolorosi ripensamenti, decisi che la cosa non aveva senso e finì così, naturalmente in maniera graduale, prima il mio rapporto con la religione e poi quello con la trascendenza.

intermezzo lavorativo

Come campavo, visto che nel ’65, con i miei avevo preso l’impegno di cavarmela da solo? Nei primi due anni ero molto preso dallo studio e così mi limitai a qualche lezione privata e a partire dal 67 le mie entrate diventarono più regolari:

Docente nelle scuole serali di tipo professionale; ho insegnato sia ad Arcore, sia a Macherio per tre anni; si trattava di fornire rudimenti di matematica in corsi che venivano organizzati in accordo con i comuni entro strutture scolastiche.

Lezioni private; qualche cosa tra Villasanta e Monza, con preferenza a lavori di tipo continuativo (assistenza per l’intero anno scolastico a figli di famiglie facoltose) e poi a Milano; sempre per alunni di liceo.

Ho anche lasciato un credito di almeno centomila lire di allora ad una famiglia di corso Magenta. Palazzo signorile, famiglia con maggiordomo in livrea; capofamiglia un primario dell’ospedale di Vimercate. Il rampollo faceva il Gonzaga (uno dei licei privati prestigiosi di Milano).

Venivo ricevuto dal maggiordomo che mi faceva accomodare e aggiungeva “un momento che le chiamo il signorino“; la cosa mi metteva molto a disagio. Aggiungo che in un paio di occasioni mi fu detto “mi spiace, il signorino non c’è e si è dimenticato di avvertirla“. Da Città Studi, per andare in corso Magenta ci mettevo almeno tre quarti d’ora e la cosa del signorino, che avrei preso a calci nel culo, mi seccava. Al terzo episodio non mi hanno più visto nè sentito. Una questione di dignità e la scelta di non richiedere quanto mi spettava fu un punto di orgoglio.

Redazione di testi per le enciclopedie: la De Agostini, o altri editori, si rivolgevano ad un docente universitario di grido per la redazione di quelle enciclopedie a dispense e liui subappaltava. Non si guadagnava molto ma in compenso non c’erano tempi morti e problemi di viaggio.

Beppo Occhialini

Tecnico universitario: dal 1969 al luglio 70 ho lavorato come tecnico universitario part time (in prova e su fondi CNR) presso il gruppo di Fisica dello Spazio del professor Occhialini. Non si guadagnava molto ma ci pagavo le tasse, i trasporti, la mensa e la cambiale di 23’600 lire mensili per l’acquisto della 500 comperata a inizio ’68 firmando 29 cambiali.

Quel posto di lavoro mi avrebbe poi aperto la strada per la carriera universitaria. Mentre ero a militare il posto fu trasformato in quello di tecnico di ruolo, ed essendomi nel frattempo laureato sarei diventato automaticamente ricercatore universitario di ruolo. Quando tornai da militare il professor Occhialini che mi stimava, stima reciproca, mi chiamò per sapere che intenzioni avevo. Mi guardò negli occhi ed io risposi: la fisica mi piace, ma la politica viene prima. E così rinunciai alla carriera universitaria prima di cominciare.

il 1969 e l’impegno in AO

Lo scopo di questo capitolo è quello di parlare della mia evoluzione politica e dunque vedremo come sono cambiate le mie idee con la adesione al comunismo rivoluzionario e quello che facevo in politica.

il rapporto con Oskian (Aurelio Campi)

Come ho già detto era iniziato un rapporto stretto e continuativo con Oskian del quale mi colpivano favorevolmente la chiarezza, la molteplicità di interessi e la grande cultura.

Quasi tutti i giorni mangiavamo o alla casa dello studente o all’altra mensa di via Venezian e poi si passava a casa sua e di Claudia Sorlini, la sua compagna, per le chiacchiere a ruota libera, ed è da queste chiacchiere che è maturata la adesione al progetto di AO.

Percepivo quanto il lavoro da fare fosse molto, difficile e da svolgere con pazienza. Costruzione del consenso attraverso il dialogo e tanto lavoro politico anche minuto. Su una parete c’erano i 45 volumi delle opere di Lenin ed è a Lenin che Oskian faceva continuamente riferimento come esempio da tenere presente nel lavoro politico. Leggeva regolarmente Le Monde e il settimanale filopadronale “Mondo Economico”. Claudia interveniva ad attenuare certe spigolosità con un po’ di saggio pragmatismo bresciano e femminile.

la prima cellula di AO

Metà del mio tempo lo dedicavo allo studio della storia, della economia politica e a quello dei classici. Quelli li studiavo bene cercando di approfondire il contesto, perché una delle prime cose che mi capitò di fare fu il lavoro di docente in gruppi di studio di formazione politica (a quei tempi, sui giornali, ci chiamavano i professorini di AO).

C’era da mettere in piedi la cellula di AO di fisica, di cui fui il primo segretario (era la prima delle Università, poi Scienze, poi Città Studi dopo il coinvolgimento di Ingegneria, Agraria e Medicina). Tra lavoro politico, lavoro materiale come dipendente universitario part time e pendolarismo, quello fu un anno in cui, scientemente, combinai piuttosto poco in termini di crediti universitari. Avevo finito il III anno in pari con gli esami e nel corso del IV anno non ne diedi nemmeno uno dopo aver rinunciato a dare Elettronica applicata che pure avevo studiato con impegno.

Il rapporto con Avanguardia Operaia nel corso del 1969 passò attraverso la partecipazione ad assemblee di orientamento che si tenevano la domenica mattina alla sede di via Bacchiglione o il sabato pomeriggio in quella di via Giason del Maino.

com’era la AO che incontrai

i primi numeri della rivista mensile di AO

La nascente Avanguardia Operaia, oltre che per il lavoro nei confronti delle grandi fabbriche attraverso i Cub, lavoro in cui non ero direttamente coinvolto, si caratterizzava per la formazione di militanti ideologicamente e politicamente formati su alcuni capisaldi:

  • una tiepida adesione ai processi in atto in Cina, ma senza strafare
  • un riferimento al fallimento della rivoluzione d’ottobre, tradita dallo stalinismo prima e dalla burocrazia poi, ma di cui si salvava l’impianto leninista (con gli annessi e connessi della presa del potere e della dittatura del proletariato)
  • una posizione di appoggio ai movimenti di liberazione in tutto il mondo che strizzava l’occhio ai trascorsi trotskisti di alcuni esponenti del gruppo dirigente. Massimo Gorla (che era stato nella segreteria della IV internazionale) con numerosi di quei movimenti intrattenevano rapporti sistematici anche se con una selezione degli interlocutori eccessivamente viziata da criteri di tipo ideologico. Si veda per esempio l’appoggio al Fronte Democratico Popolare di Liberazione della Palestina, che era DOC dal punto di vista ideologico, ma contava molto poco rispetto ad Al Fatah
  • una visione del processo rivoluzionario in Italia come processo di lungo periodo e la sottolineatura che ci trovavamo nella fase di creazione delle condizioni per la formazione del partito rivoluzionario di tipo leninista (avanguardia del proletariato); di più non si diceva e non si poteva dire, ma era una bella demarcazione da gruppi e partitini che si autoproclavano partito rivoluzionario
  • un giudizio nei confronti del Movimento operaio organizzato e in particolare del Partito Comunista come di partito che aveva tradito, dopo la parentesi gramsciana, la lotta per il socialismo; su questo punto c’erano grande intransigenza e contrapposizione aperta. Nel numero uno di Avanguardia Operaia il PCI è definito essere l’ala sinistra della borghesia  (una sciocchezza che non ho mai digerito). In realtà trovavo che il giudizio sull’impianto teorico del PCI fosse parecchio schematico ma non me la sentivo di affrontare la questione, anche per denolezze teoriche e storiche mie.
  • nei confronti delle altre forze della sinistra rivoluzionaria i giudizi le collocavano nei diversi compartimenti del panorama arlecchino della sinistra rivoluzionaria: spontaneisti, economicisti, stalinisti, filo revisionisti, …Questo modo di procedere era tipico di tutte le organizzazioni allora presenti e si caratterizzava per un alto livello di concorrenza competizione

In sintesi: difesa del leninismo con critica della degenerazione staliniana, lotta per il socialismo senza la pretesa di essere i migliori del mondo, rottura molto netta con PCI e sindacati, sulle questioni centrali del processo rivoluzionario in Italia … si vedrà.

la formazione politico-ideologica

Avanguardia operaia sin dal 1969 prestò grande attenzione alla formazione politica ideologica dei suoi militanti e quindi, da subito, realizzò una rivista bimestrale, poi divenuta mensile, in cui si alternavano saggi di orientamento storico-politico, relazioni relative al lavoro di massa e informative sui rapporti con gli altri gruppi in giro per l’Italia

i classici in un estratto della mia biblioteca

Per quanto mi riguarda continuavo ad utilizzare la lettura attenta di Rinascita come strumento di orientamento relativo alle problematiche del nostro paese, visto che trovavo eccessivamente schematici e deduttivi gli editoriali della rivista.

Alla attenzione alla politica quotidiana affiancavo uno studio sistematico del leninismo, in particolare con le opere che consideravamo fondamentali per la sua comprensione e assimilazione:

  • stato e rivoluzione per le questioni di orientamento generale sul comunismo
  • che fare? sulle problematiche del partito rivoluzionario e della sua costruzione
  • l’imperialismo fase suprema del capitalismo per l’analisi del panorama mondiale
  • l’estremismo malattia infantile del comunismo per comprendere la storia del bolscevismo
  • la rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky sulle problematiche di demarcazione tra socialisti e comunisti

Prima di affrontare Lenin avevo studiato il Trattato di Economia marxista di Ernest Mandel, un’opera in due volumi che costituisce una ottima introduzione non solo alle problematiche della economia politica ma anche al materialismo storico.

Leggiucchiavo qualcosa di Trotsky, che mi piaceva dal punto di vista stilistico e comunicativo, mentre nella prima fase, con la eccezione del Manifesto del Partito Comunista e della concezione materialistica della storia non lessi nulla di Marx, rinviando ad altri momenti la lettura del primo libro del capitale.

idealismo e materialismo

A proposito della concezione materialista della storia (un estratto della Ideologia Tedesca) ho un ricordo kafkiano di un gruppo di studio alla cellula di Fisica sul tema classe in sè e classe per sè. Questioni che rinviavano all’idealismo hegeliano, argomento che mi era del tutto sconosciuto e a cui cercavamo di sopperire leggendo le note del curatore.

Con il senno di poi mi viene da dire, a proposito dell’impegno editoriale degli Editori Riuniti nella diffusione delle opere di Marx e di Lenin, quanto fossero masochisti questi esponenti dell’ala sinistra della borghesia. Confesso, per quanto riguarda gli odiati revisionisti, di essermi sempre rifatto alle fonti dirette leggendo La storia del PCI  di Paolo Spriano che nel 69 era giunta al secondo dei cinque volumi (che continuai poi a leggere negli anni successivi).

Paolo Spriano per me era un mito dopo che mi capitò di leggere un suo corsivo su Rinascita in cui si ironizzava sul giornalismo alla Panorama proposto dal fondatore Lamberto Sechi che con la scusa dei fatti separati dalle opinioni sfornava articoli facili da leggere ma di una superficialità assoluta e simili a chiacchiere da cortile. Spriano sosteneva, in contrapposizione, che sognava un settimanale in cui gli articoli iniziassero dicendo io la penso così e seguivano le argomentazioni.

cosa è mancato al movimento? Le mie colpe

Con l’inizio dell’anno accademico 69/70 ho preso atto che avevo trascorso un intero anno senza dare esami e che bisognava rimediare. Ho continuato il lavoro part-time alla cattedra di Fisica dello Spazio, ma mi sono impegnato per finire l’Università. In pochi mesi recuperai il tempo perduto: 4 esami e tesi di laurea e così alla fine di luglio del 70 mi ritrovai ad essere dottore in fisica e pronto per andare a militare.

Quello che sono ora non è certamente ciò che ero allora, ma nei diversi incontri fatti per il 40° e il 50° del nostro movimento di Scienze mi sono interrogato sul se e quanto avremmo potuto lavorare diversamente, se e quanto la mancanza di una battaglia di natura culturale fosse stata responsabilità nostra.

In quegli anni utilizzammo una impostazione vertenziale con obiettivi strutturati che riguardavano essenzialmente il diritto allo studio, il miglioramento delle condizioni materiali per gli studenti, il diritto di organizzazione politico culturale, la attivazione dei corsi pomeridiani e serali per i lavoratori studenti, la proposta dei semestri e il controllo sui ritmi di insegnamento e di apprendimento. I corsi serali nei primi anni ebbero un grande successo e consentirono a molti tecnici delle aziende milanesi di laurearsi.

Nella scelta degli obiettivi c’era un limite genetico, legato alla scelta di non mischiarci con il dibattito politico ideologico, come si faceva alle facoltà umanistiche. Con il linguaggio di allora parlerei di un vizio di economicismo. Non volevamo aprire la discussione sulla cultura scientifica, sul neopositivismo, sul materialismo dialettico, sul ruolo della ricerca scientifica e al più ci limitavamo ad affermare il carattere non neutrale  della scienza, ma in realtà non ne sapevamo molto.

Eravamo pieni buona volontà, desiderosi di fare meglio, ma anche estremamente ignoranti (nel senso etimologico del termine) e dunque, mentre altrove si tentavano i contro-corsi, noi ci dedicammo a far funzionare meglio (sul piano dei risultati) la macchina universitaria. D’altra parte, con poche eccezioni, non ci aiutarono i docenti, a loro volta piuttosto impreparati e sconcertati nel sentirsi rivolgere domande sui fondamenti o sul senso di ciò che ci proponevano: studenti critici, desiderosi di capire, interessati a fare domande e, dall’altra parte, docenti sconcertati che al più rigiravano la domanda, ma non sapevano cosa rispondere.

Nell’estate del 1969, anziché occuparsi di queste cose il Comitato di Agitazione sfornò un documento, pubblicato con evidenza su uno dei primi numeri di Avanguardia Operaia, in cui il tema principale al termine del secondo anno di movimento sembrava essere la discussione metodologica sul rapporto tra movimento di massa e organizzazioni politiche e sul fatto che il rapporto con la classe operaia dovesse passare attraverso la mediazione della organizzazione rivoluzionaria. Lo potete leggere qui l’ideologia prende il sopravvento (estate 1969) ma vi anticipo che è parecchio noioso.

Mancando la riflessione sulla scienza il movimento moriva per asfissia su obiettivi giusti ma limitati e su cui non si poteva pretendere di campare per anni. Non a caso nell’anno 70/71 (mentre ero a militare) ci fu una grande lotta seguita da una grande sconfitta, perché il movimento, mancando di una strategia propositiva si infilò, senza capacità di mediazione, nel cul de sac del controllo totale dei tempi di insegnamento e apprendimento. Non seppe mediare e non portò a casa nulla.

Mi interrogo spesso sulle mie responsabilità, ma alla fine mi assolvo. Ero un emerito ignorante; per fare la riflessione critica sulla scienza serviva un bagaglio culturale che non avevo e che avrei acquisito solo più tardi.


Questo articolo va letto insieme a 1965-1970 L’Università e la scienza che riguarda lo stesso periodo ma è riferito in senso stretto agli studi universitari.

La pagina con l’indice della mia autobiografia da cui potete scegliere i capitoli da leggere e vedere una sintesi di ciascuno


 


 




1961-1964: gli anni di GS

III edizione – maggio 2024

don Vico Cazzaniga – il Vico

L’esperienza di GS (Gioventù Studentesca) ha segnato un pezzo importante della mia adolescenza ed è stata uno strumento di rottura-allontanamento dal mondo un po’ chiuso e tradizionale di Villasanta.

Non mi ricordo come sono arrivato ad incontrare quelli di GS, facevo la II all’Hensemberger, mi cominciavano a spuntare i peli sulla faccia, si muovevano gli ormoni e urgeva una riflessione e messa in discussione della esperienza cristiana che, all’oratorio, era ancora piena di riti e di frasi fatte.

Così, a differenza di mio fratello Sandro impegnato in oratorio, sono emigrato a Monza e ho trovato un mondo diverso: diverso il prete (don Vico Cazzaniga), diverso il modo di vivere l’esperienza cristiana (meno borghese, dicevamo), diversi i rapporti tra coetanei (maschi e femmine).

Penso che sia normale, in qualunque contesto, che le pulsioni al cambiamento, le inquietudini giovanili, inizino a concretizzarsi a partire dal proprio contesto di riferimento e il mio, tra Collegio e caratteristiche famigliari, non poteva che essere il mondo cattolico. Solo in alcuni momenti, caratterizzati da grandi cambiamenti culturali e sociali, come è stato il 68, si hanno le rotture brusche, gli improvvisi cambiamenti di stile di vita e di retroterra culturale. In Italia è accaduto nel ’68, ma qui sto parlando del 1962.

La sede di GS era all’imbocco della viuzza a destra del Duomo; qualche locale al piano terra e al piano superiore di fianco alla abitazione di uno dei canonici del Duomo (monsignor Cornaggia), e sul retro un giardinetto. Ma le riunioni più grosse, ed in particolare gli inter-raggi, si facevano nella struttura del Duomo in Sala Capitolare. Si costeggiava il lato destro della Basilica partendo dalla casa di don Vico e giunti in fondo (dopo aver costeggiato un convento di suore di clausura) si saliva per uno scalone alla sala Capitolare.

Don Vico è morto nell’estate del 2003 in circostanze misteriose a Medjugorje e il suo corpo è stato ritrovato solo nel 2005 in una zona abbastanza lontana dai percorsi dei pellegrini. Per i suoi funerali ci siamo ritrovati a Lomagna in tanti; persone che non si rivedevano da 40 anni e prima ancora per la celebrazione di una messa di amici preoccupati per la sua scomparsa.

Nei primi anni 60 era un giovane prete che gestiva l’oratorio del Duomo, appassionato di musica. Suonava l’organo e frequentava (non so con quale grado) il conservatorio. Questa sua passione ce la trasmetteva facendoci esercitare nel canto, anche polifonico: il canto gregoriano, le canzoni di montagna e il canto delle canzoni giessine scritte da Adriana Mascagni di Milano o prese a prestito dal mondo scout (Rossa sera a Belo Orizonte, Povera Voce, La Traccia di cui trovate il link per Youtube, …).


Povera voce di un uomo che non c'è
la nostra voce se non ha più un perché:
deve gridare, deve implorare
che il respiro della vita non abbia fine.

Poi deve cantare perché la vita c'è,
tutta la vita chiede l'eternità;
non può morire, non può finire
la nostra voce che la vita chiede all' Amor.

Non è povera voce di un uomo che non c'è,
la nostra voce canta con un perché.


La nostra voce canta un perché; ti sentivi parte di un progetto, di un comune sentire; l’adesione al cristianesimo era una scelta consapevole di vita e lo facevi confrontandoti con dei coetanei.

il raggio e il cineforum

Monza il Duomo e i nostri punti di ritrovo

Il raggio era una via di mezzo tra una riunione di autocoscienza e una assemblea democratica. Si chiamava raggio perché, per discutere, ci si metteva in circolo. Si faceva una volta la settimana, su di un tema stabilito nella settimana precedente. L’ordine del giorno e l’invito lo davamo nelle scuole riprodotto a ciclostile sulla metà di un foglio A4, ed è stato in GS che ho visto il primo ciclostile ad inchiostro. Ci si confrontava, si dibatteva e, alla fine, il caporaggio o don Vico tiravano qualche conclusione.

Il cineforum, il sabato pomeriggio, ma ce ne era una versione anche il venerdì sera, è stato un momento importante nella formazione culturale degli studenti monzesi di quegli anni. Il cinema dell’oratorio del Duomo (don Bosco) era sempre strapieno, con almeno 300 giovani in una atmosfera di assoluta libertà culturale. E dopo il film, una buona metà di quei giovani si fermava a discutere.

Il cineforum era a cicli sui registi e così ho conosciuto Eisenstein (la corazzata Potemkin, Ottobre, Ivan il terribile, Alexander Newsky, i cavalieri dell’ordine teutonico), Fellini (La strada, le notti di Cabiria, i Vitelloni, Otto e mezzo), Dryer (la passione di Giovanna d’Arco, Dies irae, Ordet), Lang (il dottor Mabuse, il mostro di Dusseldorf, Furia), Bergman (il volto, il posto delle fragole, sorrisi di una notte d’estate, il settimo sigillo, la fontana della vergine, il silenzio), il ciclo su Akira Kurosawa (con al centro i 7 samurai) e ovviamente il neorealismo italiano da Rossellini a De Sica, da Zurlini. a Monicelli. Una esperienza decvisamente formativa per la quale sono eternamente grato a GS e a don Vico che lo organizzava.

l’organizzazione

I riferimenti monzesi di GS erano:

  • Augusto Pessina (l’Augusto e basta) maggiore di un anno rispetto a me e di cui presi il posto come caporaggio dell’Hensemberger l’unico che ha continuato il suo impegno in  C.L. e le battaglie conservatrici sui temi della bioetica,
  • Giorgio Migliavacca (presidente) una facccia aperta sempre sorridente,
  • Angelo Colombo (responsabile cultura e un po’ eterodosso)
  • Nico Vailati che avrebbe sposato una delle sorelle Milanese (Luciana, ritrovata a biologia)

e, dopo i padri fondatori, quelli della generazione successiva:

    • Cristina Frigerio dello Zucchi, amica di infanzia di mia moglie, futura moglie di Augusto Pessina, un Alberto Cazzaniga, molto alto che ho ritrovato, assolutamente identico, come genitore di Chiara una mia alunna allo Zucchi nella seconda metà degli anni 90;
    • il nutrito gruppo del Frisi, dove insegnava religione don Vico: Guido Cazzaniga che abitava dietro via Vittorio Emanuele e la cui famiglia riparava radio e TV, Renzo Milanese (futuro prete) che stava sopra la stazione di Monza Sobborghi e aveva due sorelle in GS, Davide Capra piccolo e dalla barba rossa, sempre in attività, Giuseppe Galbiati futuro chirurgo, il mio più caro amico di quegli anni, ultimo fratello dei Galbiati della panetteria di San  Biagio a fianco della chiesa vecchia, Carletto Barlassina (medico che ho ritrovato anni dopo nel Movimento Lavoratori per il Socialismo), Antenore  Amati(campione di hockey a rotelle e molto amato dalle ragazze), Paolo Trojani (a casa del quale abbiamo fatto qualche festicciola in una villetta ai Cazzaniga)

Renzo MIlanese e Giorgio Migliavacca ad una delle serate per ricordare don Vico

    • il gruppo delle Canossiane: la responsabile della prima ora era Rosaria Gaggino, seguita da Mariarosa Mariani (amica di infanzia di mia moglie) con cui, tra alti e bassi, ci si continua a frequentare (ed ora, in Toscana abitiamo nella stessa frazione di Monticiano), la sua compagna di classe Gabriella Vedovati, che mi piaceva e che poi si è accasata con il Rino Panza e ci siamo ritrovati ad andare in montagna dalle stesse parti, Emanuela Colombo (che ritrovai docente di filosofia al Frisi)
    • i due fratelli Sanvito (Piergiorgio e Luisa, quest’ultima dalla vita avventurosa),
    • Gigi Colombo del Mosè Bianchi (futuro proprietario della libreria del Duomo) con cui ho fatto un po’ di viaggi verso Milano nei primi anni di Università ,
    • dell’Hensemberger Sem Cavalletti (mio amico e compagno di classe che però da GS andava e veniva così come Mario Calloni), Sergio Refaldi (compagno di classe), Roberto Contardi (ritrovato in AO), Giovannino Bertanza (futuro psicologo, caro amico di quegli anni e ritrovato per questioni di scuola quando facevo il DS all’Hensemberger), Carlone Oggioni, Diego Pellaccini, che veniva da Sesto, e tanti altri. Roberto Contardi è poi andato a lavorare alla Singer ed è diventato un dirigente della FIOM, Carlo Oggioni studiava lirica e, con il suo vocione già a 16 anni, faceva il basso. Chissa se ha fatto il cantante?
    • Non posso non citare una giovane Annina Pozzi delle Preziosine che mi piaceva assai ma che, con un sotterfugio, mi fu scippata dall’amico (?) Giuseppe Galbiati. Ci piacevano sia lei sia la Bruna (mia moglie) e mi propose un patto: tu mi lasci campo libero con Annina e io ti lascio campo libero con Bruna. C’era un trucco: Bruna era già impegnata, lui lo sapeva e io no (ma poi ci siamo ritrovati).

Ci veniva, anche se un po’ a fasi alterne, la mia futura moglie, Bruna Rovelli, del Mosè Bianchi che ho conosciuto allora. Ad un certo punto a GS si aggiunse GL (gioventù lavoratrice) animata dall’Ottavio Scalet (che ebbe un percorso molto eterodosso, dal movimento giovanile DC ai marxisti leninisti) e. da Carlo Varisco (sindacalista dei tessili ritrovato in AO) scomparso tragicamente qualche anno fa.

le tre giorni e don Giussani

I momenti topici, in cui si mischiavano socializzazione, vacanza ed esercizi spirituali erano di tipo residenziale e si facevano sia nelle vacanze di Natale, sia in quelle estive.

a Varigotti con don Giussani

Per quei tempi era una gran bella novità: giovani di entrambi i sessi facevano vita comune per alcuni giorni in un mondo in cui, per dirne una, persino la comunione si faceva su file separate (gli uomini da una parte e le donne dall’altra). Ricordo una mitica tre giorni a San Fedele in val d’Intelvi con tanta neve.

Ho fatto un paio di tre giorni a Varigotti con quelli di Milano e il mitico don Giussani che, devo dire con sincerità, non mi ha mai convinto più di tanto, essenzialmente per quel modo di parlare per allusioni, per non sensi in cui si smarriva il significato originario delle parole.

Ma proprio per quello è andato per la maggiore e, ad un certo punto, è stato imitato dalla maggioranza degli adepti creando quella che per me era la scuola della incomunicabilità (dopo il 68 con la fondazione di CL). Un altro che non mi piaceva, per le stesse ragioni, era il responsabile milanese della cultura, Gigi Negri che ad un certo punto entrò in seminario e da allora ne ha fatta di strada (adesso è il vescovo ultraconservatore di Ferrara, dopo essere passato da San Marino).

Nell’estate del 63 abbiamo fatto le vacanze estive a Livigno: dibattiti, passeggiate, goliardate (come quando mi hanno tagliato metà barba tenendomi sul letto a viva forza) e durante una di queste escursioni ho anche preso la prima e unica sbronza da superalcolici della mia vita.

Avevamo fatto una escursione in quota e ci ha preso un temporalone; siamo scesi di corsa e sotto l’acqua sino a quota 2000; lì ci siamo buttati in una baracca di legno, dopo aver comprato di tutto in un rifugio adiacente: grappa, brandy, cherry, whisky, kirsch. Sorsate a garganella e, ad un certo punto, quando l’alcol andava giù senza farsi più bruciare in gola, mi sono accorto che non riuscivo più a reggermi in piedi.

la messa di GS e la caritativa

La domenica mattina, alle 10:30 c’era la messa di GS a San Pietro Martire in via Carlo Alberto, con predica di don Vico e nel pomeriggio si faceva la caritativa.

Ci si trovava all’angolo tra via Cortelonga e piazza Trento a prendere il pulman e lì si andava a turno in una delle coree di Cinisello: Robecco, Cornaggia o Bellaria, dove si passava il pomeriggio a far giocare bambini di famiglie sottoproletarie in accordo con i preti delle nascenti parrocchie. La stessa cosa facevano i milanesi, che l’avevano inventata, nei paesi della bassa.

la squadra del raggio Hensemberger; io ho porto indegnamente la stella di capitano

Come si vede dalla foto qui a lato si facevano persino sfide di calcio. Questa è la squadra del raggio Hensemberger con tra gli altri (Refaldi, Calloni, Pellacini, Bertanza e Cereda). Gli altri me li ricordo ma non viene il nome.

lasciamoci così senza rancore ….

GS incominciava a virare pesantemente verso una impostazione totalizzante e di chiusura alla società moderna; inoltre si affacciavano le posizioni che, anni dopo, avrebbero portato all’appoggio alla DC, tra l’altro in alleanza con gli andreottiani, sponsor il lecchese Roberto Formigoni.

Facevo la III e ci fu un convegno, organizzato a Monza, contro il socialismo e il liberalismo che mi impressionò negativamente. Intanto io, dopo la messa di GS, comperavo l’edizione domenicale dell’Avanti sempre molto ricca di inserti storici e culturali e poi passavo alla cooperativa la Brianza pe la riunione dei giovani socialisti insieme all’amico Sem Cavalletti; da Milano veniva Felice Besostri a coordinarci. Oltre all’Avanti leggevo anche Politica, il settimanale della sinistra DC diretto da Giovanni Galloni, che avanzava proposte oggi impensabili, come la nazionalizzazione della industria farmaceutica. Era il 1964.

Da GS mi sono allontanato pian piano e sono stato per un po’ senza farmi vedere, sul finire della quarta superiore. Nell’aprile del 1965 mi sono riaffacciato ad un raggio convocato in occasione del ventennale della liberazione. Ero pieno di dubbi nei confronti della Chiesa istituzionale perché vedevo che il processo conciliare, nelle mani di Paolo VI, aveva subìto una battuta d’arresto e mi ritrovai Augusto Pessina che concluse quel raggio con parole che mi sono rimaste nella memoria: “io non li capisco i partigiani comunisti, perché se io fossi vissuto allora e non fossi stato cristiano, non avrei mai scelto di oppormi al fascismo“.

In quel momento capii definitivamente cosa fosse l’integralismo. Me ne andai da quel raggio e in GS non mi hanno visto più, ma nonostante quello, considero quella esperienza un momento importante della mia vita e della mia crescita personale e ripenso a quegli amici di allora con affetto e simpatia. E penso che, da questo scritto, lo si sia capito.


Ultima modifica di Claudio Cereda il 20 maggio 2024


La pagina con l’indice della mia autobiografia da cui potete scegliere i capitoli da leggere


 

 




1956-1960: in Collegio a Varazze

III edizione – maggio 2024

collegio e noviziato

il collegio e sulla sinistra il noviziato (ai miei tempi dismesso) successivamente adibito a scuola media superiore – nella parte inferiore gli orti del collegio

Nell’anno scolastico 1955/1956 mio fratello Sandro faceva la quinta elementare e durante l’inverno si beccò una brutta broncopolmonite; da piccolo è sempre stato molto gracile e così, su suggerimento dei medici, si decise che avrebbe dovuto passare gli inverni al mare e ciò necessariamente voleva dire andare in Collegio.

Ci sarebbero dovuti andare sia lui, a fare la prima media, sia mio cugino Enzo (l’ultimo figlio della zia Giovanna) a fare la seconda. Ma io, che ero molto legato a Sandro, decisi di essere della partita. Così, nell’ottobre del ’56 partimmo in tre per il Collegio Salesiano di Varazze: io in quinta elementare, e loro due alle medie.

il mio maestro di quinta, don Ariatti con una classe quinta due anni dopo la mia – archivio Varagine

Furono scelti i Salesiani perché la zia Giovanna conosceva bene quelli di via Copernico a Milano dove mio cugino Franco aveva frequentato le scuole professionali.

In Collegio eravamo poco più di un centinaio di interni (convittori) ma le medie erano frequentate anche da esterni (i semiconvittori).

Il mio maestro era don Ariatti, un prete moro, abbastanza rude sui cinquant’anni che aveva la passione di costruire aeroplanini in legno che poi metteva sui pali angolari della alta rete che delimitava il campo di calcio verso valle. Gli aeroplanini non volavano, ma si orientavano e le eliche giravano messe in moto dal vento che dal mare risaliva verso la collina. Don Ariatti è stato una delle colonne del Collegio.

Della parte scolastica di quel primo anno non ho ricordi tranne che portavamo il grembiule nero e facemmo gli esami di quinta in Collegio e quelli di ammissione alla I media presso la scuola statale di Varazze (un tema, un problema di matematica e l’orale). Andò tutto bene ed ottenni la media dell’8.

L’edificio

Il Collegio era messo all’inizio della collina prima della frazione di Cantalupo ed era stato acquistato direttamente da don Bosco intorno al 1870. Era stato appena realizzato dal Comune e poi venduto ai Salesiani, ad un prezzo di favore. La famiglia salesiana era in grande espansione ed essi acquisirono l’edificio per farci una scuola (elementari e ginnasio con 150 convittori e almeno il triplo di esterni)  e, secondo il modello salesiano, gli affiancarono l’apertura di un oratorio.

Come si vede dalla foto, il Collegio aveva 4 piani oltre a un piano terra con il colonnato; sul davanti c’era un grande cortile adibito a campo da calcio lastricato con un pavè a mattonelle piccole nel quale, durante la ricreazione, facevamo più partite contemporaneamente. Il gioco era parte integrante della pedagogia di don Bosco. Ogni tanto vi si svolgevano anche partite a tamburello organizzate da don Ariatti con dei lanci che mi sembravano spettacolari.

A sinistra c’erano l’oratorio con il cinema-teatro e, più in basso, verso il mare, una struttura dismessa che sino all’anno prima, aveva ospitato il noviziato salesiano e che negli anni 60 venne poi ristrutturata per ospitare il tentativo di gestire una scuola superiore (liceo e ragioneria).

Nel passaggio verso l’oratorio c’era anche un campo di pallavolo mentre, nella parte a sinistra del cortile, un porticato con i servizi igienici e una serie di tavoli stretti e lunghi, con le sponde di legno, dove si giocava a boccette usando delle piastre cilindriche d’acciaio di 4 cm di diametro per 1 di altezza.

dormitorio

I dormitori di Collegiuo erano tutti uguali; questo è quello della Guastalla di Milano: i letti e quello del controllore laico con la tenda all’inizio della camerata

Le camerate erano al III e IV piano e portavano i nomi dei santi (con gli immancabili san Luigi e Domenico Savio). Erano dei corridoi lunghi e stretti con i letti messi l’uno dopo l’altro e, all’inizio e alla fine della camerata, un letto con tenda scorrevole su una struttura ad anelli dove dormivano i custodi, dei laici detti coadiutori o cooperatori. Erano le stesse persone che ci accompagnavano nelle uscite del giovedì e non me li sono mai filati. Non mi sembravano particolarmente svegli e trovavo che fossero anche un po’ ambigui.

La biancheria pulita stava in un locale guardaroba a parte con tanti loculi corrispondenti al nostro numero che veniva cucito su ognoi capo per renderlo riconoscibile. Io avevo il 118. Si trattava di rettangolini bianchi  di un centimetrio di lato ricamati con il numero in rosso ben visibile. La gestione del cambio era affidata a ciascuno di noi, e questo è stato certamente un elemento di crescita della autonomia. Mettevamo la biancheria sporca in un sacco di lino chiuso con un cordino passante e con regolarità lo consegnavamo per il lavaggio. Se ne occupavano le suore salesiane di Maria Ausiliatrice, le stesse che gestivano refettorio e approvvigionamenti.

Come si vede dalle foto non c’erano divise, ma se andate sull’archivio di Varagine.it troverete un sacco di foto degli anni 20 e 30 in cui i convittori hanno divisa e berretto tutti uguali.

Al secondo piano c’era la parte scuola (aule per le classi e aula studio) mentre il primo piano era nella disponibilità dei preti e dei coadiutori (ma forse era il contrario, scherzi della memoria). Al  piano terra c’erano gli uffici del consigliere (l’addetto alla disciplina e al controllo del rispetto delle regole), del prefetto (un incrocio tra l’economo e il vicedirettore), del direttore, il parlatorio (con le poltrone e i divani di velluto) e il refettorio.

Un locale molto particolare era l’aula studio: un lungo corridoio con i banchi disposti a destra e a sinistra contro le pareti. I banchi erano individuali, verniciati di nero e con un piano d’appoggio incernierato sul davanti che chiudeva uno scomparto in cui tenevamo i libri. Il piano incernierato consentiva di nasconderci la testa e farci un po’ gli affari nostri nelle lunghe e interminabili ore dello studio pomeridiano. Io ci tenevo anche i flaconcini vuoti degli antibiotici (recuperati in infermeria) e, dopo aver tolto l’etichetta e liberato il tappo in gomma, ci mettevo le mosche che catturavo al volo e mi divertivo ad osservarne il comportamento, un po’ per sadismo, un po’ per spirito sperimentale.

Il refettorio era arredato con panche e lunghi tavoli che avevano degli scomparti al posto dei cassetti. Ci tenevamo i viveri di scorta (le arance, i salamini e la pasta d’acciughe nel mio caso) e il tovagliolo. Su uno dei due lati lunghi c’erano i banconi di collegamento con le cucine da cui ci servivano e, al centro del locale, un piedistallo rialzato dove, durante il pasto, uno di noi, a turno, leggeva qualche libro di avventura o di edificazione (tipo la  vita di San Domenico Savio).

Domenico Savio e San Luigi erano i due modelli di gioventù proposti con tutti gli annessi e connessi sulla castità che non capivo molto bene, del tipo loro non guardavano il pisello neanche quando facevano la pipì e a me sfuggivano le ragioni. C’era, seguendo l’insegnamento di don Bosco, una autentica ossessione per il sesso che aleggiava come problema, ma non veniva mai nominato. Ricordo che in II media venni ripreso da uno dei preti perché mi ero toccato la zona dei genitali. Avevo un po’ di prurito ma venni rimproverato senza capir bene il perché. Il mangiare non era entusiasmante, ma si sopravviveva anche grazie alle scorte alimentari che arrivavano da casa.

Era molto diffusa la pratica di scrivere alle aziende alimentari per farsi mandare dei campioni omaggio e lo facevamo in modo sistematico con l’Ovomaltina.<

La fissa della massoneria e le molestie sessuali di inizio novecento

Piccoli Martiri di Eugenio Pilla (1895-1969) prete e scrittore salesiano autore di ben 300 volumi

Delle letture mi è rimasto impresso il romanzo Piccoli martiri una storia scritta negli anni 40 da un salesiano fissato con la massoneria. Due bambini venivano rapiti dai massoni per educarli alla lotta contro Dio, … Dice la descrizione:”Racconta le avventure di due fanciulli buonissimi e piissimi caduti nelle mani di adulti incredibilmente cattivi, in quanto atei empi e massoni.”

Questa della massoneria era una idea fissa che si ritrovava anche nei libri di preghiere, insieme alla pericolosità dei protestanti (!?!) e credo si trattasse di un retaggio delle difficoltà di don Bosco a Torino nei rapporti con lo stato liberale. A distanza di anni mi sono chiesto come mai avessero questa fissa, visto che eravamo in piena guerra fredda e dunque c’erano tanti altri esempi di senzadio ben più importanti nella Italia del dopoguerra di quanto non fossero i massoni.

pertini

Sandro Pertini, il secondo da destra in piedi, interno al Collegio don Bosco nel 1907 (archivio Varagine) – il quinto è il fratello Eugenio morto nel 45 nel campo di concentramento nazista di Flossenbürg

Ho cercato di capire e ho trovato in rete due episodi in cui il collegio venne coinvolto, uno a fine 800 e l’altro, molto più grave, nel primo decennio del 900. In entrambi i casi si trattava di atti di libidine verso minori in cui erano coinvolti preti e laici; entrambi si conclusero con delle condanne ed entrambi finirono nel dimenticatoio, ma evidentemente rimase una netta ostilità nei confronti dello stato laico-liberale anticlericale e massone. In particolare nelle reazioni clericali di allora si sottolineava come lo scandalo del 1907 fosse stato ordito dalla massoneria francese. In quell’anno, tra gli alunni interni, c’era anche Sandro Pertini. Il secondo dei due scandali è ricostruito in “Pier Luigi Ferro, Messe nere sulla Riviera. Gian Piero Lucini e lo scandalo Besson, Utet, Torino 2010″ e ne trovate in rete ampi estratti.

A proposito della lettura dei libri di edificazione durante il pranzo capitò un episodio curioso a un mio compagno di classe. Stavamo tentando di imparare a fischiare con le dita e così, invece di ascoltare le vite dei santi eravamo impegnatissimi a soffiare tenendo le dita in bocca sopra la lingua o con la lingua piegata. Ci riuscì per primo Gerbi (un compagno di Cogoleto) a cui partì all’improvviso un fischio poderoso. Lui fu punito e io non ho mai imparato a fischiare con le dita, anche se in collegio imparai tutti gli altri rumori che simulano i peti e le pernacchie: quelli fatti con il palmo della mano e quelli con la mano sotto l’ascella.

la cappella e il culto

La cappella non era tanto grande, molto decorata e con una balconata sul lato corto all’ingresso: messa tutte le mattine e messa doppia (normale e cantata) la domenica.

Ho imparato molto bene a fare il chierichetto con tanto di incenso, turibolo e aspersorio e in occasione delle feste importanti si facevano le prove perché tutto doveva funzionare perfettamente (noi in abito rosso con una cotta bianca).

Mi ero fatto regalare per Natale anche due messalini tascabili rilegati e in carta india. Uno aveva le pagine dorate sul bordo, l’altro le aveva rosse. Ripetuti per 365 volte c’erano un breve riepilogo della vita del santo del giorno, i salmi e le letture per la messa (l’epistola e il vangelo). Li ho ancora in qualche scatolone in garage e mi ricordo che, con un po’ di sadismo, leggevo e rileggevo delle torture inflitte ai martiri cristiani che suscitavano in me forti emozioni (per esempio quello di santa Agata cui furono asportate le mammelle).

Ogni convittore riceveva anche un suo libretto di edificazione Il giovane provveduto, scritto da don Bosco e il cui testo, se la cosa vi incuriosisce, potete trovare qui ma ve ne dò un piccolo saggio con l’Incipit:

Due sono gli inganni principali, con cui il demonio suole allontanare i giovani dalla virtù. Il primo è far loro venir in mente che il servire al Signore consista in una vita malinconica e lontana da ogni divertimento e piacere. Non è così, giovani cari. Io voglio insegnarvi un metodo di vita cristiano che sia nel tempo stesso allegro e contento, additandovi quali siano i veri divertimenti e i veri piaceri, talché voi possiate dire col santo profeta Davide: serviamo al Signore in santa allegria: servite Domino in laetitia. Tale appunto è lo scopo di questo libretto, servire al Signore e stare sempre allegri.

L’altro inganno è la speranza di una lunga vita colla comodità di convertirsinella vecchiaia ed in punto di morte. Badate bene, miei figliuoli,molti furono in simile guisa ingannati. Chi ci assicura di venir vecchi? Uoposarebbe patteggiare colla morte che ci aspetti fino a quel tempo, ma vita emorte sono nelle mani del Signore, il quale può disporne come a lui piace.Che se Dio vi concedesse lunga vita, sentite ciò che vi dice: quella strada cheun figlio tiene in gioventù, si continua nella vecchiaia fino alla morte. Adolescens iuxta viam suam etiam cum senuerit non recedet ab ea. E vuol dire: sen oi cominciamo una buona vita ora che siamo giovani, buoni saremo negli anni avanzati, buona la nostra morte e principio di una eterna felicità. Al contrario se i vizi prenderanno possesso di noi in gioventù, per lo più continuerannoin ogni età nostra fino alla morte. Caparra troppo funesta di unainfelicissima eternità. Acciocché tale disgrazia a voi non accada vi presento un metodo di vivere breve e facile, ma sufficiente perché possiate diventare la consolazione dei vostri parenti, l’onore della patria, buoni cittadini in terra per essere poi un giorno fortunati abitatori del cielo.

Inoltre eravamo pieni di santini-reliquia ottenuti con microscopici pezzettini di stoffa, pezzetti di pelle o di ossa (quelli più pregiati) che, teoricamente, erano appartenuti a don Bosco, Domenico Savio o a qualche Beato o Servo di Dio della grande famiglia salesiana (forse quei pezzettini avevano semplicemente strusciato l’urna prima di essere messi in produzione a fini devozionali).

don Moroncelli santini

distribuzione dei santini da parte di don Moroncelli, in cappella. Io e Sandro (vestiti uguali)  appena serviti

Il colonnato del cortile era importante perché lì si scontavano le punizioni: in piedi alla colonna a guardare i compagni che giocavano, in ginocchio alla colonna e, nei casi più gravi qualche vergata sulle mani da parte del prete consigliere (addetto alla disciplina) che era anche un grande distributore di perini (i colpi in testa dati con le nocche). C’erano le regole e c’erano le punizioni ben calibrate secondo una casistica di gravità.

La giornata tipo e le regole

In prima media durante uno spettacolo teatrale

Sveglia intorno alle 6:30 – 7:00; abluzioni e messa (per poter fare la comunione a digiuno come prevedeva il diritto canonico “essere digiuni dalla mezzanotte”); prima colazione (con pane e caffelatte o cioccolata); mezz’ora di ricreazione e alle 8:30 inizio della scuola sino alle 12:30; pranzo; ricreazione per un’ora e dalle 14 alle 16 studio; merenda e ricreazione di un’ora; dalle 17:30 alle 19 studio; cena; ricreazione; preghiera della sera nel colonnato o sotto la statua di Maria Ausiliatrice a poi tutti a nanna.

In uno dei giorni della settimana la merenda consisteva in un panino con dentro una fetta di salame di cioccolato bicolore a riquadri bianchi e marroni della Ferrero.

Il signor Ferrero era un ex allievo salesiano e trattava bene, in termini di beneficienza, la grande famiglia salesiana. Aspettavamo con ansia quel giorno, invece del solito parallelepipedo di cotognata della Zuegg, della fetta di formaggio, del surrogato di cioccolato o della mortadella. Un paio di volte, in tutto l’anno, c’era la focaccia, la buonissima focaccia ligure.

Rispetto alla scansione standard della settimana c’erano due varianti, il giovedì e la domenica.

spiaggia dei bergamaschi

spiaggia dei bergamaschi (ex colonie bergamasche) nei pressi di punta Olmo oggetto di scambio di favori per la privatizzazione

Il giovedì non c’era scuola e si andava a fare lunghe passeggiate su per le colline (al bricco don Bosco, alla Guardia, al Deserto) o nelle calette lungo la costa est ai piani di Invrea (verso Cogoleto) od ovest (verso Celle e Albisola) nelle spiagge non utilizzate delle colonie estive o del Cottolengo, incluso quella al centro dello scandalo che ha visto coinvolto il presidente di Regione Liguria Toti. Le colonie bergamasche, con un edificio molto grande, erano famose per aver ospitato, durante la guerra un ospedale militare in cui convergevano i feriri per ciura e convalescenza.

Se la passeggiata era lunga si pranzava al sacco. Il Collegio era posto all’inizio della collina verso la frazione Cantalupo e le escursioni in collina incominciavano sempre da lì con la salita verso i piani di Cantalupo: uliveti e poi bosco misto di pini. Passavamo sotto i cantieri dell’autostrada Genova Ventimiglia, che era in costruzione, e ricordo quei piloni grandi e altissimi, visti da sotto. Qualche volta risalivamo il corso del Teiro, il fiume torrente di Varazze che nasce dal monte Beigua. Trannne nella parte finale con segni di inquinamento dovuti alle atività industriali e artigianali (tra cui una conceria) l’acqua era abbastanza pulita. Il tratto finale del torrente è stato coperto nel 1960 ma allora il corso era tutto libero sino alla foce.

L’altra variante riguardava la domenica: non c’era scuola; la mattina c’erano due messe intervallate dalla ricreazione e dopo pranzo, arrivati in sala studio, venivano letti ad alta voce (dal consigliere) i voti della condotta settimanale. Chi prendeva 7 meno, o peggio, rimaneva in sala studio mentre gli altri andavano al cinema. Non ho mai preso 7 meno, ma neanche 10. Comunque, per i più discoli, il rito aveva la sua suspence e una funzione deterrente. Dei film della domenica ricordo di avere visto Fantasia di Walt Disney e Sono un agente FBI con James Stewart che mi aveva colpito molto.

Le ore di lezione era poche. Giustamente si puntava molto sullo studio personale con un numero di ore pari a quelle di lezione ed erano poche anche le materie (lettere, incluso il latino), matematica, francese, religione, ginnastica.

Collegio Don Bosco classe II B anno 1957-58 – il secondo da destra in prima fila è mio fratello Sandro, oltre a don Moroncelli riconosco molti visi, ma i cognomi sono svaniti

I compagni di classe venivano dalle diverse località del nord Italia ed erano di classi sociali diverse. Estrazione popolare in quelli dalle province di Savona e di Genova, di solito con la presenza di casi sociali che noi intuivamo dalla scarsa o inesistente presenza dei genitori. Qualcuno prima di arrivare in collegio aveva fatto l’esperienza della Garaventa.

Piccola borghesia e borghesia per i provenienti dall’Emilia e dalla Lombardia. Ricordo qualche cognome: Bortolotti, Canepa, Cabrini, Cortesi, Gerbi, Quaglia, Resnati, Rossi, Simonitti.

Cortesi, che aveva un porro sul naso, lo chiamavamo NASA e mi viene da dire che eravamo proprio cretini. Guardavamo con un particolare rispetto Cabrini, che veniva dal lodigiano, perché una sua prozia, con lo stesso cognome, aveva in corso la causa di beatificazione.

Nella foto di gruppo dell’anno 57/58 c’è la seconda media di mio fratello Sandro (il secondo da destra della prima fila) e, come si vede dalla statura dei marcantoni che stanno a fianco di don Goffredo Moroncelli non si può dire che avessero tutti la stessa età (e anche questo era un aspetto tipico di un collegio).

Per degli adolescenti, lontani da casa, le regole erano eccessivamente rigide. Quando la domenica venivano a trovarti i genitori, comunque non si poteva uscire dal Collegio. O si stava in parlatorio (un locale subito a sinistra dell’ingresso) o, al più, si poteva stare in cortile e camminare sotto il portico. L’uscita all’esterno era consentita solo nel giorno di San Giuseppe (il 19 marzo) per assistere al passaggio della Milano Sanremo lungo l’Aurelia.

mamma e papà

mamma è papà nel 1957 in occasione di una visita al Collegio

La mamma veniva a trovarci in treno ogni due o tre settimane, qualche volta in macchina con il papà e si comunicava per lettera. In famiglia, negli anni successivi, si scherzava sulle mie lettere eccessivamente laconiche: qui tutto bene, portami le arance, il salamino e la pasta d’acciughe. Sembra che, allora, la sintesi fosse il mio forte.

Si tornava a casa solo per le vacanze (incluse quelle di Natale e Pasqua). Ci fu una eccezione per l’epidemia di influenza asiatica nel novembre del 57. L’intero collegio era ko e dunque fu consentito alle famiglie di portarsi i figli a casa. Venne a prenderci l’autista della ditta, Stefano Mariani, con la mamma sulla 1100 famigliare. Fu abbassato il sedile posteriore, messo un materasso e delle coperte e così, con la febbre alta, ce ne tornammo a casa per qualche giorno.

Avevamo a disposizione qualche soldo lasciato dai genitori presso il Consigliere che teneva la contabilità di ognuno e anticipava i contanti. Li usavamo per acquistare, durante la ricreazione, le caramelle della Elah vendute da uno dei coadiutori che girava nel porticato con una specie di banchetto in legno tenuto a tracolla. In quel periodo ho mangiato una quantità enorme di mou latte-menta e crem-liquerizia.

Quando volevamo risparmiare andavamo in infermeria, da Celestino, e ci facevamo dare il Formitrol, delle pasticche acidule e disinfettanti abbastanza gradevoli. Se il mal di gola era vero ti davano anche le pastigliette di clorato di potassio da lasciar sciogliere in gola, ma noi le mettavamo da parte e quando ce n’erano a sufficienza le macinavamo. Qualcuno dei genovesi si faceva portare lo zolfo; si mischiava e bastava mettere un po’ di quella polverina tra due cubetti di porfido, metterci un piede sopra e con l’altro dare una bella botta laterale. Venivano esplosioni molto più potenti di quelle fatte con i petardi.

Le figure di riferimento

bricco don Bosco

immagine archivio Varagine – inaugurazione cappella al Bricco don Bosco – collaboratori ed ex alunni – in piedi da sinistra don Morelllo, don Moroncelli, don Maffeis, ingegner Nocelli

Al primo posto ci metto don Arturo Morello. Era il prefetto del Collegio (cioè una delle due autorità insieme al direttore) e fu il mio professore di lettere  per tre anni. L’ultima notizia che ho trovato su di lui è del 98 e riguarda la celebrazione di 60 anni di presenza tra i salesiani; ed era ancora a Varazze.

Era originario di Ivrea, una persona pacata e con un bel sorriso. Con lui abbiamo studiato l’Iliade e l’Odissea in maniera assolutamente piacevole e lo stesso si può dire per il latino: in prima, analisi logica e declinazioni, in seconda grammatica e sintassi e in terza autori (Giulio Cesare, Ovidio e Catullo) compresa un po’ di lettura metrica della poesia. Grazie a lui ho iniziato a leggere romanzi con una certa sistematicità; a quei tempi prevalentemente cose di cappa e spada e qualche romanzo ambientato ai tempi della rivoluzione francese (che veniva vista non esattamente bene).

Il professore di Matematica era un laico, probabilmente un terziario salesiano oltre che scout, l’ingegner Nocelli, una persona mitica tra gli ex alunni del Collegio; Varazze gli ha intitolato una via. Mi ha dato una buona preparazione sino alle equazioni di primo grado ma ci ha anche insegnato ad applicarle alla risoluzione di problemi. Non ricordo con chi facessimo francese e religione.

Poi c’era don Goffredo Moroncelli, con quel faccione pacioso e sorridente, assomigliava un po’ ad Oliver Hardy. Era così, un uomo buono che teneva nelle sue mani tutta la baracca del Collegio che diresse per qualche decina d’anni sino alla morte nel 71. Oltre che fare il direttore insegnava lettere ed è stato il professore di mio fratello. Nella foto c’è anche don Maffeis, il consigliere, quello addetto alle punizioni.

autobiografia di don Ricciarelli

Mio cugino Enzo ha avuto come docente di riferimento don Pier Luigi Ricciarelli (don Gigi) un toscano, biondo e giovane che seguiva l’oratorio. Poi, nel 62, se ne andò a fare il missionario nelle Filippine. Non era contento di dove l’avessero mandato; ebbe dei ripensamenti, si spretò, si sposò e tornò nelle Filippine per opporsi alla dittatura di Marcos. Venne imprigionato e ha scritto una autobiografia.

I nostri riferimenti erano gli uomini in carne ed ossa, e cioè questi preti che amavano stare a contatto con i giovani, ma i salesiani tendevano a farti assimilare il punto di vista di don Bosco: importanza della scuola, attenzione ai giovani e disponibilità nei loro confronti, diffidenza nei confronti dello stato.

Ho già detto della fissa della massoneria; aggiungo le cose che ci dissero contro Garibaldi, Mazzini e gli eroi del risorgimento, assimilati a dei banditi in quanto nemici del Papa. Queste cose le dicevano a voce ma, ovviamente, trattandosi di una scuola parificata, non stavano scritte sul libro di storia che pure era edito dalla SEI la loro casa editrice.

A fine anno venivano premiati con medaglia e diploma il I, II e III classificato per profitto, religione e condotta. Ne ho prese un bel po’ (anche d’oro) sui primi due fronti, mai per la condotta perchè, senza strafare, sembra che fossi piuttosto vivace.

L’equivalente della Azione Cattolica tra i Salesiani erano le compagnie (ricordo quella di San Luigi, del Santissimo Sacramento  e dell’Immacolata). Erano una cosa ad adesione volontaria e mi è capitato di dirigerne qualcuna. Una esperienza utile per apprendere come si organizza qualcosa o come si prepara una riunione tra persone.

Una cosa che ho fatto regolarmente per 4 anni e che poi mi è servita nella vita sono stati gli esercizi spirituali (della durata di tre giorni) che prevedevano ogni giorno due prediche (la meditazione e la contemplazione, ma forse la seconda aveva un altro nome) intervallate da periodi di silenzio in cui si doveva riflettere sugli spunti che erano stati forniti.

Erano strutturati sul modello di Ignazio di Loyola, che li aveva inventati. Le prediche erano tenute da preti venuti da fuori. Buttavi giù qualche idea, prendevi qualche appunto, ma soprattutto imparavi a riflettere e in questo lavoro era fondamentale il ruolo del silenzio. Ci ho ripensato scrivendo queste note: il silenzio mi piace, aiuta a pensare e, dopo che negli esercizi spirituali, da grande l’ho praticato facendo sci da fondo, escursionismo in alta quota e ora nelle lunghe uscite in Mountain bike tra i boschi della Toscana.

La parentesi del noviziato di Novi Ligure

Alla fine della seconda media ho avuto una crisi mistica. In uno slancio di generosità e di adesione allo spirito salesiano decisi che volevo diventare salesiano. Ero influenzato dalla lettura del bollettino salesiano che parlava delle missioni in America Latina (in particolare in Patagonia e nella foresta amazzonica).e dallo spirito di aiuto verso i giovani che si traduceva nella miriade di scuole professionali e di mestiere inaugurate da don Bosco e sviluppate dai successori. Si vede che la storia di fare il professore da grande ce l’avevo nel DNA.

Ne parlai alla mamma in una delle visite e poi con don Morello e don Moroncelli. Si decise che avrei provato. All’inizio della terza sarei andato a Novi Ligure dove c’era un pre-noviziato salesiano. Il noviziato salesiano era il momento in cui si indossava la tonaca nera e si iniziava il percorso per diventare prete salesiano. Negli anni 50 era molto diffusa, anche per il clero secolare, l’abitudine, da parte delle famiglie contadine e povere, di mandare i propri figli in pre-seminario. O la va … e ci ritroviamo un figlio prete o se non va, torna che ha studiato e comunque non è stato di peso a casa.

il collegio di Novi Ligure

Il pre-noviziato salesiano di Novi Ligure

Il pre-noviziato di Novi era pensato per scoraggiare quella pratica; era pieno di figli di povera gente che facevano le medie gratis; si stava molto meno bene che a Varazze, si mangiava male, il trattamento era piuttosto rude e poichè bisognava abituarsi al distacco, era previsto il ritorno in famiglia solo per pochi giorni a Natale e per un solo mese d’estate.

Non ricordo quasi nulla di quel periodo, tranne la progressiva sensazione che la cosa non fosse per me e così, tornato a casa per Natale ne parlai con la mamma che, dopo aver chiamato al telefono don Moroncelli organizzò le cose per farmi rientrare a Varazze. Fu la fine del mio desiderio di farmi salesiano. Ma mi è rimasta in mente la canzone di don Bosco e ogni tanto la canticchio.

|Giù dai colli un dì lontano | con la sola madre accanto |

|sei venuto a questo piano | dei tuoi sogni al dolce incanto|

|Ora, o Padre, non più solo | giù dai colli scendi ancora|

|di tuoi figli immenso stuolo | t’accompagna a tua dimora.|

|Don Bosco ritorna tra i giovani ancor, | ti chiaman frementi di gioia e d’amor.|

Nel mettere mano a questo racconto ho cercato di capire come siamo messi oggi partendo dalla visione tridimensionale che si ottiene grazie a Google Maps.

Tristezza. La via san Francesco, una via stretta con accciottolato da cui si saliva verso Cantalupo per arrivare al Collegio e poi al convento dei Capuccini c’è ancora nel senso che una via porta il suo nome e lì sotto, con andamento parallelo alla costa c’è persino una via intitolata all’ingegner Nocelli. Ma la collina è una sequela di residence, condomini, scuole, case e l’edificio del Collegio ha cambiato aspetto.

E’ riconoscibile la zona dell’oratorio, ma i Salesiani non ci sono più, se ne sono andati da qualche anno, e per Varazze è finito un pezzo della sua storia, mentre il grande edificio di quattro piani è diventato una residenza per anziani.


La pagina con l’indice della mia autobiografia da cui potete scegliere i capitoli da leggere


In rete, grazie al lavoro della associazione Varagine.it potete trovare un immenso archivio storico sulla citta di Varazze e al suo interno molte foto relative alla storia del Collegio e dell’Oratorio.




chissenefrega della conversione?

Diciamo la verità, la sinistra intellettuale è stata presa in contropiede. Tutti avevamo sperato in una soluzione positiva della vicenda di Silvia Romano e, a differenza di quanto avvenuto in altre occasioni, ci siamo trovati un pacco dono, confezionato non si sa bene da chi che ci ha posto qualche problema.

Le sindromi di Stoccolma si sono sprecate insieme alle discussioni sul significato dell'abito verde, dell'inchino fatto dal padre al suo arrivo, del potetre salvifico (sul piano dell'equilibrio mentale) della lettura del Corano e a me è subito venuta in mente la discussione su Moro prigioniero delle Brigate Rosse che cercava di pilotare una soluzione attraverso le lettere e quasi tutta la stampa e la TV a interrogarsi se era drogato, se era soggetto a costrizione, se era impazzito.

Se sei un laico e sincero democratico dovrai dire che:

  • il diritto alla conversione esiste e ci mancherebbe altro, la libertà religiosa è una delle cose che ci contraddistingue come civiltà
  • quando si tratta di salvare una vita umana bisogna trattare e, in casi del genere, la politica estera italiana (ci piaccia o non ci piaccia) prevede il pagamento dei riscatti; in questo quadro, rientra anche la negazione del fatto (dice Di Maio che lui lo avrebbe saputo, e a me scappa da ridere)
  • le ONLUS devono essere libere di andare in giro per il mondo a svolgere azione di volontariato (anche se poi non tutte lo fanno allo stesso modo e rispettando le regole elementari di sicurezza)
  • nel caso di Silvia Romano si trattava di un lavoro di assistenza in Kenya e non in Somalia (anche se poi rifletti sul fatto che parliamo di stati confinanti e di un contesto in cui non esistono organizzazioni statuali all'altezza e che pertanto ci sono milizie armate che girano e che controllano il territorio di qua e di là dal confine)

Io vivo la Somalia, l'Eritrea e l'Etiopia come una cosa nostra luoghi dove, dalla seconda metà dell'800 l'Italia ha cercato di costruire il suo posto al sole fatto di colonialismo e realizzazione di infrastrutture, stragi di etnie e di popoli mescolati ad una politica di buana badrone. Il quadro è fortemente peggiorato alla fine degli anni 30 con l'impresa d'Etiopia (Mussolini-Graziani-Badoglio) e poi tutto è finito nel calderone della II guerra mondiale e del successivo protettorato durato sino al 1961.

Sono seguiti gli anni bui dei regimi dittatoriali, delle guerre civili, delle fughe di profughi verso l'Italia e ci ritroviamo ora una realtà che ci parla di paesi con un livello di reddito tra i più bassi al mondo e, nel caso della Somalia, di un paese che ha formalmente un governo e un apparato statuale ma che per oltre due terzi è governato dalle bande organizzate di Al Shabab (affiliato ad Al Qaeda) che controllano tutta la parte meridionale del paese con sconfinamenti a ovest verso il Kenya, mentre a nord esistono due entità sostanzialmente indipendenti. A chi volesse saperne di più consiglio questo dettagliato articolo di una delle organizzazioni che si occupano di analisi strategica.

I dubbi e le perplessità me le hanno sollevate i comunicati di solidarietà a Silvia Romano da parte delle associazioni in esilio di donne somale e soprattutto la lettura, un paio di giorni fa di un articolo di Domenico Quirico, inviato esteri de La Stampa che fu rapito per alcuni mesi in Siria e che ci è passato in mezzo. Scrive Quirico a proposito del tanto citato abito verde, e che non è per nulla un abito tradizionale delle donne somale:

Dio, come pesa quel barracano verde, come ci annaspiamo dentro. È come se lo gonfiasse tutto quello che in questi mesi interminabili Silvia Romano ha attraversato, come se avesse voluto portarli con sé, la prigionia, la violenza del sequestro, i segni dei nuovi indemoniati che ritengono che tutto sia permesso non più perché dio non esiste ma anzi proprio perché, per loro, il suo esistere li rende fanatici. In un vestito che non ha voluto lasciare dietro, che ha voluto esplicitamente come simbolo, c'è il mondo dell'islamismo radicale con i suoi codici.

E poi le questioni del cambio di nome e della conversione. L'Islam radicale te lo giochi in queste cose. Non sei più Silvia ora sei Aisha.

Conosco il rito dell'offerta della conversione: per averlo vissuto. Comincia con una proposta, gentile: quella di cambiare identità, di assumere un nome musulmano. Allucinante complessità del fanatico. Sconcertante impenetrabilità di personaggi a doppio, triplo fondo. Non gli basta tenerti in pugno, barattarti per denaro. Vogliono la tua resa, la tua anima.

Come accadeva ai militanti rivoluzionari durante i processi di Mosca. Il procuratore generale voleva la tua anima dopo averti fatto confessare congiure e complotti totalmente inventati. Dovevi diventare un verme strisciante felice di morire, redento dalla giustizia proletaria ringraziando Stalin sul patibolo.

Non è un rito formale, piccole mercanzie da sacrestia islamica, è un obbligo, a cui credono sinceramente: salvare un miscredente dal peccato, portarlo alla vera fede, accrescere di una unità il paradiso dei puri, dei giusti. ...Nessuno ti dice che così la tua condizione di vittima, di prigioniero cambierà, che in quanto musulmano non subirai più violenze. Che sopravviverai. Forse ti libereranno…e allora…fuggire…forse, chissà. Ma ti accorgi immediatamente che l'abbandonare il nome, anzi gettarlo via come una cosa sporca, è l'equivalente, oh quanto più forte, del restare nudo, del lasciare i vestiti che ti hanno tolto subito dopo il sequestro. Sei debole, senti mancarti il terreno sotto i piedi, precipiti verso il fondo del trabocchetto, non sai neppure tu come ti devi chiamare. Sai che se dici sì, scivoli via da te stesso: obbligatoriamente. Adesso non hai più nome che non sia quello che loro ti hanno imposto, ogni volta che ti chiamano devi percorrere nella tua mente uno spazio, per capire che quel nome sei tu. Poi viene la proposta di pronunciare la preghiera, la dichiarazione di fede. Ma l'idea di mentire, del prendersi gioco dei tuoi carcerieri, salvarsi con la riserva mentale, ingannarli? Sarebbe lecito, in fondo. Pensieri che partorisce la notte. Che non potrai disinvoltamente gettare via. Ma con dio non si scherza, soprattutto quando hai vicino di cella il dolore. Cerchi la via di scampo. E se fosse proprio in questo dio in cui credono di credere i carcerieri? Un dio senza angoscia nella mente, senza incertezza, senza dubbio, senza un elemento di disperazione... Quello che cerchi, che sogni è avere un po' di quella stanchezza felice che provano i convalescenti. Anche un dio implacabile e senza indulgenza può andare bene, ti può scorrere addosso come un balsamo ... Chi esce da un rapimento ha soltanto la sua memoria, l'esser rimasto vivo, i gesti che ha compiuto o non ha compiuto in una dimensione che, non bisogna dimenticare mai, è quella della violenza, del ricatto. Se gliela rifiutiamo questa memoria, qualunque sia, ditemi: che cosa gli resta?

Dio? La memoria? Il diario del sequestro? Una biro per scrivere qualcosa. Il Corano da leggere. Il declino dell'Occidente.

Come diceva Voltaire mi farò uccidere per garantire la tua libertà … ma tieniti il tuo abito verde. Mi verrebbe da dire sino a quando non ti sarai ristabilita, ma poi quacuno direbbe che sono poco rispettoso e ti prendo per matta.

Viviamo in un mondo brutto. Alcuni secoli fa le cose che ha scritto Quirico le hanno teorizzate e praticate anche i cristiani. Solo pochi decenni fa le ha praticate l'altro grande umanesimo ateo in nome del socialismo e basta studiare un po' di storia per riconoscerlo perchè in parte è avvenuto anche da noi al confine orientale dopo la fine della II guerra mondiale. Quando dio cambia bandiera, se non sei lesto a cambiarla anche tu diventi un insetto da schiacciare.

Se penso all'Iraq, alla Siria, alla Libia, al corno d'Africa trovo tremendo quanto accade. Lo stato viene distrutto, inizia la guerra per bande, crudele, violenta e per tenerla freno abbiamo le truppe di Mister Trump al più supportate da qualche ristretta missione internazionale. Lo sapete che in Somalia ci sono anche i soldati italiani?

Mister Trump, quello che ha proposto di bere i disinfettanti per combattere il Covid. E così il mondo continua a girare…mentre a noi resta solo l'arma della parola.

 




a proposito di Dannati della Terra – di Antonello Mennucci

Ieri ho scritto che le ultime vicende di Silvia Romano avevano creato dentro di me un po' di confusione. Oggi ci torno sopra, ma intanto si è fatto vivo un nuovo collaboratore Antonello Mennucci, noto a chi frequenta San Galgano (vedi biografia in coda al pezzo). Antonello la prende giustamente da lontano. (C.C)


Intanto non sono confuso e molte delle cose che citi dipendono dai punti di vista. Se la questione terrorismo la guardiamo da qui e, limitandoci all'oggi, non possiamo che provare repulsione, conservando l'immagine di stragi atroci, brutali e pure basate su metodi inumani e primitivi. Non dimentichiamoci che conserviamo ancora nel DNA il retaggio di guerre cavalleresche che, ammesso e non concesso che siano mai esistite, sono ormai estinte da tempo immemorabile (in realtà praticate quasi esclusivamente da minoranze elitarie).

Se invece ci spostassimo dall'altra parte non potremmo scrollarci di dosso il ruolo svolto per centinaia di anni dall'occidente, con campagne altrettanto orribili e brutali, costellate da episodi vergognosi, i cui esiti pesano ancora oggi e ancora oggi rinnovate. Il loro motore è sempre stato uno: lo sfruttamento. Dunque è facile comprendere che dall'altro lato della barricata i combattenti, gli insorgenti, per la precisione, siano visti come eroi per un riscatto al quale non resta altra opzione che la guerra. E quale guerra quando ci si oppone a eserciti dotati di superiorità indiscutibile? La possibilità, ancora da tempo immemorabile, è sola una. Da noi, quando la si vuole nobilitare, la si chiama guerriglia, fatta di colpi di mano, imboscate e attentati, sì attentati.

Nel caso specifico ci si è spinti oltre stabilendo una strategia che vuole terrorizzare il nemico tramite la così detta guerra psicologica concretizzata in uccisioni di particolare efferatezza. Orribile certamente, ma comprensibile quando i competitori sono militarmente superiori. Occorre, in questi casi, trovare anche un collante identitario che permetta di unire oltre le differenze contingenti, dotando combattenti e popolazione di una parvenza di superiorità culturale rispetto alla "civiltà" alla quale ci si oppone: niente di meglio della religione, che puntualmente e quale che sia, si presta a ogni genere di distorsione.

In questo frangente poi si presenta l'occidente come un mondo corrotto e decadente, fino nella morale e nei costumi individuali, a fronte di un Islam puro e dai costumi intatti e rispettosi, prima di tutto per quanto concerne le donne. Si descrive inoltre l'occidente come un mondo di vigliacchi imbelli, dediti più che altro a indegne gozzoviglie e dunque facile a sconfiggere da parte di popoli abituati a vita assai più dura e assuefatti a orrori prodotti non soltanto da loro.

Facile comprendere che una guerra combattuta prevalentemente in casa propria si decida di esportarla in casa degli altri, anche tra la popolazione civile, che ha sempre vissuto queste questioni in maniera distante e sostanzialmente indifferente.

Spesso però a fronte di ciò e della condivisione dell'orrore si ottiene un effetto di ritorno caratterizzato da odio crescente e da un senso di repulsione, cosa, quest'ultima, che provo anch'io anche in considerazione del DNA di cui sopra.

Nel caso specifico si aggiunge un'altra questione che si oppone immediatamente alla comprensione degli antefatti e alla conseguente compassione e simpatia che dovrebbe derivarne: la questione dell'alternativa proposta dagli sfruttati e oggi puri. Un'alternativa per noi inaccettabile, basata su un'arretratezza culturale da nol superata da tempo, che si porta dietro la questione femminile. Mi soffermo su questa.

Chi di noi sarebbe disposto a riportare la donna alla totale sottomissione e alla mortificazione delle proprie fattezze? Io no, e lo dico senza alcuna incertezza. Mi sorprendo anche che la cultura di sinistra, dalla quale anche il sottoscritto proviene, possa giustificarla in nome della libera scelta del culto, specialmente quando si è tanto strenuamente opposta a confessioni assai più progressiste come quella cattolica, influenzata dal potere (anche culturale) che ha rappresentato e dalle nefandezze che si è portata dietro, dimenticando in quel caso la libera scelta, ridotta a creduloneria (in parte anche vera, ma che vale anche per l'altra parte), e a una servitù morale ritenuta ormai inaccettabile.

Ebbene, senza indugio e a maggior ragione avrebbero dovuto condannare, senza se e senza ma l'Islam e, senza nessun arretramento di fronte alla situazione delle donne, che libere di scelgliere non sono per niente, in una società che ti inculca valori inaccettabili fin dall'infanzia senza lasciare alcuna alternativa, specialmente dopo il prevalere della visione più radicale.

Dunque si può tollerare la religione musulmana, se si sta al grosso del Corano, che è un testo bellissimo, ma non si può sopportare in alcun modo il ruolo riservato alla donna già determinato nella sura della vacca. Su questo non vedo alcuna possibilità di confusione perché, semplicemente, basta distinguere le questioni per tornare ad avere idee chiare.

Concludo questo testo interminabile tornando a Silvia Romano. Personalmente ho gioito del salvataggio e mi hanno schifato, per non dire di peggio, i commenti che ne sono derivati. Del resto non mi importa un fico secco. Ciò non toglie che non concordo per niente con la sua scelta confessionale, che si orienta alla sottomissione di cui ho detto.

Resta il suo vissuto, che conosco solo in parte e per nulla relativamente al suo periodo di prigionia, e che dunque non mi permetto di giudicare. Se fossi stato del suo quartiere la avrei festeggiata anche io senza pensarci tanto e senza condividere la sua scelta, che nello specifico non avrebbe comunque spostato per niente la mia felicità.

E non avrei dimenticato per niente l'Islam più moderato, che pure esiste, schiacciato tra le due parti, e neppure i molti amici di quella confessione e la loro libertà di culto, pur non credendo in dio, né nella superiorità e purezza della loro religione, che alcuni vorrebbero imporre a tutti come intransigente regola di vita, e non dimenticando neppure la sura della vacca, alla quale mi opporrò sempre con decisione.




Gesù era un rompipalle? – di Sergio Bianchini

Mattina del 4 marzo. Devo andare a votare e non ho ancora deciso definitivamente cosa fare. Vado in chiesa e ascolto attentamente la predica. “Gesù non è venuto per portare la quiete, a confermare le nostre certezze, è venuto a provocare, a farci mettere in discussione. “ Poi il prete, che sta sviluppando la predica in modo un po' anomalo, simile a quello di un animatore teatrale che cerca di promuovere il protagonismo del pubblico, dice sorridendo e ammiccando -”bambini chiudetevi le orecchie ”- e quindi dichiara la sintesi finale del discorso” Gesù era visto come…..un rompipalle”.

Pur conoscendo un certo gusto del paradossale che accompagna da sempre il cristianesimo ho trovato questa predica veramente fuori luogo. E fuori luogo non solo per la blasfemia lessicale quanto per l’inutilità e perfino la dannosità nella nostra situazione attuale.

La realtà italiana è caratterizzata non certo da sonnolenza e mancanza di tensioni interiori. Anzi, è proprio e in modo crescente permeata di litigiosità, di provocazioni, di esagerazioni e contro esagerazioni. Di tensioni crescenti sia politiche che relazionali e familiari. Di incapacità di governo e di sintesi costruttive.

Credo che nella chiesa, adesso come forse sempre, la gente vada per trovare una risposta incoraggiante all’ansia esistenziale determinata dalla turbolenza, incertezza, difficoltà della vita. E magari anche dalla noia. Comunque dalle problematiche individuali e collettive che la vita stessa genera. E cerchi nelle verità “eterne” una consolazione ed un sostegno. Far diventare anche la chiesa e la santa messa come il luogo dell’eccitazione interiore, del dubbio esistenziale, della rivoluzione psicologica permanente è, a mio parere, una strada senza sbocchi.

Oggi i …rompipalle abbondano, cosi come i precisatori a oltranza, i moralizzatori permanenti. Eppure le cose non migliorano. Mancano invece a tutti i livelli dirigenti capaci di governare le situazioni e farle evolvere verso il meglio.

La rivoluzione permanente è sempre fallita. In primo luogo proprio tra i rivoluzionari. Nella rivoluzione russa dove Trotski dopo la sconfitta dei comunisti tedeschi venne emarginato e Stalin (con Togliatti) consolidò l’idea della rivoluzione per tappe. Ma anche nella rivoluzione comeinista ed in tutte le vicende rivoluzionarie che abbattono tumultuosamente un potere e poi instaurano quello susseguente necessitando di passare alla stabilità ed allo sviluppo pacifico.

Questo scontro tra i rivoluzionari “permanenti” e quelli che propongono rotture e poi cuciture, avanzando per tappe, si trova in tutte le vicende storiche lontane che vicine. In Italia la vediamo oggi nei grillini. E in fondo rappresenta lo scontro tra due esigenze entrambe umanissime, quella del dinamismo e quella della stabilità. E ognuna delle due esigenze, se trascurata, si fa largo violentemente e massicciamente.

Oggi da noi, curiosamente, sono in sofferenza entrambe. La mancanza di cambiamento fa desiderare il dinamismo, ma il permanente stato di agitazione e di rissosità fa desiderare la stabilità. Abbiamo carenti sia il cambiamento che la stabilità. Siamo nella situazione della paralisi agitante, il morbo di Parkinson. Ci vogliono persone equilibrate e insegnamenti capaci di lenire la sofferenza in atto ed aiutare la gente ad essere più paziente ed allo stesso tempo capace di trovare soluzioni vere ai conflitti ed ai problemi compresi quelli psicologici e “spirituali”.

Se la chiesa, per paura di essere accantonata, si fa penetrare dalle schizofreniche dinamiche contingenti italiane non sarà travolta dalle insolubili contraddizioni che imperano nella realtà politica italiana? Non diventerà inutile per il mondo e perfino incapace anche di governare anche sè stessa?

 




Macron e la laicità – di Giovanni Cominelli

Il 4 Gennaio scorso il presidente francese Emmanuel Macron ha fatto gli auguri alle autorità religiose francesi, con un discorso nel quale ha discusso del principio di laicità e delle sfide, che la Francia si trova di fronte, per nulla dissimili da quelle degli altri paesi europei, segnatamente dell’Italia. Ad ascoltare il Presidente c’erano il nuovo l’Arcivescovo metropolitano di Parigi, il Gran Rabbino di Francia, il Presidente del Concistoro ebraico di Parigi, il Presidente del Consiglio francese del culto islamico, il Presidente della federazione protestante di Francia, il Presidente dell’Unione buddista di Francia.

Una nuova laicità. Che cosa non è

L’approccio del Presidente francese ci riguarda, da molti punti di vista. Intanto, perché i temi sono gli stessi affrontati nel nostro Paese. E poi, per il lucido approfondimento dei fondamenti filosofici, cui viceversa sono assai poco interessati i leader politici italiani. Macron traccia il passaggio da ciò che è stato definito “un laicismo di combattimento” – ancora nella Quarta repubblica, fondata il 13 ottobre 1946, il Presidente Vincent Auriol rivendicò il diritto di imporre nel 1953 la berretta cardinalizia al nunzio pontificio Angelo Roncalli – ad una laicità di tipo nuovo. Lo Stato garantisce a ciascuno l’esercizio della propria fede così come il diritto a non averne nessuna. Può garantire, perché non prende parte a nessuna fede.

Macron scava dietro questo secolarismo alla francese, esplicitandone il non-detto ideologico e precisandone i confini. La laicità dello Stato, dice Macron, non è l’organizzazione di “una sorta di vuoto metafisico all’intersezione di tutte le credenze”. Poiché siamo consapevoli che l’individuo nutre sempre un’interrogazione esistenziale che il vuoto rende inquieta e insicura, allora la tentazione della laicità di Stato è quella di popolare questa zona vuota e neutra con una sorta di fede repubblicana forgiata da valori e tradizioni, erette a loro volta a credenze universali sul modello lontano del culto dell’Essere supremo dei Giacobini. Dice Macron: alcuni sognano ancora questa posizione, perché quel “culto” ha fatto un fuoco lungo. La tentazione c’è, perché la persistenza delle religioni e il risorgere di forme varie di preoccupazione spirituale – la profezia al riguardo è di André Malraux – sembrano ridare attualità a una forma di “protesi filosofica e morale”. Ma, citando Hannah Arendt, “la sanzione trascendente nel dominio della politica tentata dal culto dell’Essere supremo” non è affatto il senso della laicità francese.

La nuova laicità. Che cosa è

Cos’è, dunque la laicità, se non è questa pretesa di sostituire le religioni con una religione dello Stato o con una religione di Stato? Consiste, in primo luogo, nella rigorosa distinzione dell’ordine politico da quello religioso. La forza del Politico e del Religioso consiste nel fatto che le fedi non partecipano del potere politico e di conseguenza non lo legittimano. Il potere politico e le fedi si legittimano ciascuno nel proprio ordine.

Nella visione di Ernst-Wolfgang Böckenförde, viceversa, lo Stato, essendo nato da un processo di secolarizzazione, sarebbe orfano di legittimazione, soffrirebbe della nostalgia dei fondamenti, che solo la religione ha. Visione grosso modo condivisa dai cosiddetti atei devoti, che affidano alla religione il ruolo di collante della società civile e dello Stato, e da quanti intendono usare la religione se non come instrumentum regni, almeno come bacino elettorale.

Nella visione della laicità di Macron, la Repubblica non chiede a nessuno di dimenticare la propria fede né di praticarla più o meno moderatamente; semplicemente esige il rispetto assoluto delle leggi della Repubblica. D’altra parte, i credenti sono cittadini della Repubblica, partecipano alla vita della nazione a partire dalla propria interiorità religiosa e perciò sono anch’essi parte dello spazio pubblico e del processo democratico legislativo in quanto elettori o eletti. La laicità deve dunque tener conto della tensione che vive in ciascuno tra il suo essere credente e il suo essere cittadino. A questo punto, dal punto di vista teorico le cose parrebbero “sistemate”.

Le zone di confine. E di confronto-scontro

In realtà, sono solo tracciati i confini di un territorio, dentro i quali si aprono confronti/scontri sui temi del vivere comune, sui quali la società civile si divide, lungo linee di faglia a volte profonde e a volte intrecciate. Il Presidente francese indica come primo terreno quello delle leggi sulla bioetica, sulle quali il Paese est “profondément fracturé”. Qui non sarà facile il confronto, dopo che a succedere al Card. André Ving-Trois è stato designato un mese fa Mons. Michel Aupetit, un ex-medico fortemente impegnato intellettualmente in campo bioetico, su posizioni combattenti – “ la coscienza del nostro Paese è sotto anestesia” – fortemente conservatrici secondo i giornali laici. Il secondo tema è quello dell’accoglienza degli immigrati. La Francia, come l’Italia, d’altronde, è aperta al mondo, la sua storia è ormai universale, nel senso che importa le tensioni che provengono da posti lontani migliaia di chilometri dal nostro. La politica francese si trova di fronte gli stessi dilemmi: apertura come dovere morale e insieme verifica realistica della capacità effettiva di accoglienza. No all’estremismo alla Le Pen, ma anche ad un estremismo della generosità, che non fa i conti con le capacità effettive di accogliere. Si direbbe la linea di Papa Francesco.

Un altro punto è quello dell’insegnamento religioso: la Francia – eccetto l’Alsazia-Lorena – non prevede l’insegnamento religioso a scuola. Di qui la promessa di formare gli insegnanti, così che sappiano spiegare non solo la storia del Paese, incomprensibile senza la storia religiosa, ma, anche il fatto religioso nella sua pienezza. Sulla questione islamica, Macron chiarisce che lo Stato non combatte nessuna credenza, ma solo le pratiche che si mettono fuori dell’ordine repubblicano. La difficoltà di dialogo viene anche dal fatto che la religione islamica non è strutturata come una Chiesa con le sue gerarchie e i suoi vertici responsabili. Qui, confessa Macron, si procede a tentoni. Tanto vale che si proceda a tentoni insieme.
Sì, perché emerge dall’intero discorso la consapevolezza di vivere tutti quanti su una barca nella tempesta, quella della globalizzazione, in cui ogni individuo e ogni nazione sono coinvolti.

Si tratta di una sorta di appello dal punto di vista di un ecumenismo laico, che vede nel 2018 festeggiare il 70° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, ma anche quello della creazione del Consiglio ecumenico delle Chiese, ma anche quello dell’elezione del patriarca di Costantinopoli Athenagora, grande motore dell’ecumenismo. E anche quello della morte di padre Franz Stock, che il Nunzio Angelo Roncalli definì, sulla sua tomba, “non solo un nome, ma un programma”, considerando la sua azione a favore della riconciliazione franco-tedesca.

Se quella di Macron è retorica, certamente è buona. Non è la soluzione dei problemi, ma delinea un quadro di consapevolezza entro il quale affrontarli. E straordinaria per la sua attualità è la citazione tratta da Jean Jaurès, il leader socialista assassinato il 31 luglio 1914 in un caffè di Parigi da Raoul Villain, un giovane nazionalista che voleva la guerra contro la Germania: “Il serait mortel de comprimer les aspirations religieuses de l’âme humaine; dès lors qu’il aura dans l’ordre social réalisé la justice, l’homme s’apercevra qu’il lui reste un vide immense à remplir”. E’ un vuoto che parecchi tendono a riempire con discorso di odio e di morte. Sì, la riflessione politica francese ci tocca da vicino.




Un mese in Vietnam – di Roberto Ceriani – 14 Hoi An e il sito archeologico di My Son

L’hotel di Hoi An è un po’ fuori dal centro. Ci danno gratis due biciclette: una con i freni a Scarpa, l’altra con i freni a Speranza!

La città vecchia è un piccolo gioiello risparmiato dai bombardamenti americani. Piccole costruzioni in legno e numerosi templi costeggiano piccole vie che non intimoriscono le centinaia di motociclisti i cui clacson fanno il possibile, e ci riescono bene, per superare il rumore dei motori…

A Hoi An stasera festeggiano la Luna Piena e la città vecchia diventa off-limits al traffico a motore. Sembra incredibile: quando si fa buio non circola più una sola moto e dobbiamo lasciare fuori anche le nostre biciclette. Non c'è un solo poliziotto che impedisce alle moto di circolare e non si vede neanche uno sbarramento o un cartello di divieto, ma tutti obbediscono a questo silenzioso coprifuoco pedonale. Miracoli della Luna Piena?

Quasi tutti gli abitanti spengono le luci elettriche, tranne le lanterne colorate, e accendono candele nelle case, nei bar e nei negozi. Il fiume, illuminato dalla Luna, è percorso da barche a remi piene di candele accese collocate dietro a fogli di carta colorata.

Sulla riva del fiume camminano centinaia di persone; verrebbe voglia di parlare sottovoce per non tradire questa magica atmosfera.Tutti i passanti accendono candeline racchiuse in leggeri cartoni piegati in modo da poter galleggiare sull’acqua del fiume. L’atmosfera è suggestiva e molto poetica. Fra le centinaia di piccole candele galleggianti sul fiume ci sono anche le nostre due: trasportano desideri segreti che solo la Luna ha il diritto di ascoltare…

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Le statistiche demografiche descrivono i vietnamiti come uno dei popoli meno religiosi al mondo. L’impressione che si ha qui è però diversa; sembra un popolo piuttosto religioso. Non è solo il gran numero di templi induisti e buddisti o di chiese cristiane a farlo pensare; quello che più colpisce è quanti vietnamiti preghino dovunque, quanti altarini privati si vedano negli hotel, nei bar e nei negozi, quanto sia facile vedere gente che si ferma a pregare nei templi o anche solo di fronte a rovine archeologiche il cui valore religioso sembrerebbe ormai dimenticato.

È anche facile vedere in giro bonzi buddisti con il tipico vestito arancione; ne ho visto anche uno in grigio-azzurro e ho pensato che avesse fatto il bucato-colore con l’acqua calda! Scherzi a parte, sembra che le statistiche sulla religione siano affette da un “errore di accondiscendenza”, come se le risposte fornite durante le indagini fossero falsate in modo da rendere contenti i rappresentanti di un potere che professa ufficialmente l’Ateismo di Stato.

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My Son è un sito archeologico interessantissimo. Decine di antichi templi testimoniano la presenza di una civiltà antica altamente organizzata.

Oggi rimane poco di My Son. Gli americani hanno sganciato sul sito archeologico cinque bombe ad alto potenziale che hanno lasciato altrettanti crateri con un diametro di 25-30 metri, profondi una decina di metri.

Oggi l’Unesco ha dichiarato My Son patrimonio dell’Umanità e sono in corso varie opere di restauro e ricostruzione, finanziate da vari Paesi fra cui la Polonia e l’Italia. Sarebbe gradito anche qualche dollaro USA, ma forse è chiedere troppo a chi pretende che il Messico paghi il Muro antimessicano. È già tanto che gli americani non chiedono ai vietnamiti il rimborso del costo delle bombe con cui li hanno colpiti…


(14 continua)  trovate qui le diverse puntate 1) Il museo della rivoluzione2) Le case verticali3) La lingua4) La guerra di Indocina5) Il popolo delle montagne – 6 I turisti e la lingua inglese7 Lo zio Ho8 Un salto in Cambogia9) Hotel cambogiani – 10) Hue cibo di strada e sicurezza – 11) Hue la fotofobia  – 12) Hue la Cittadella – 13) L'autobus notturno verso Ha Lang e le fabbriche




Un mese in Vietnam – di Roberto Ceriani – 8 un salto in Cambogia

Forse per vederlo con la mente occorre un esempio. Si può immaginare la Basilica di San Pietro con a fianco Notre Dame de Paris e lì vicino Santa Croce di Firenze, la Grande Moschea di Cordoba, la Certosa di Chartre, Saint Paul di Londra, il Duomo di Milano e la Sagrada Familia di Barcellona… Tutta la migliore arte sacra europea in pochi kmq.

Più o meno questa è l’impressione che deriva visitando Angkor Wat in Cambogia. In 400 kmq, in mezzo alla jungla (jungla un po’ addomesticata a dire il vero…), si concentrano decine e decine di templi buddisti e induisti (qualche tempio è condiviso dalle due religioni… in “CodeSharing”). Uno di questi templi è considerato la più grande costruzione religiosa al mondo.

Questa meraviglia è stata scoperta a metà ‘800, dopo secoli di abbandono che hanno permesso alla vegetazione di coprire ogni costruzione e conservare il tutto più o meno intatto. Ancora oggi alberi enormi affondano radici immense all’interno delle costruzioni e non possono essere abbattuti senza fare cadere le mura.

Fino a 30 anni fa qui dominavano i Khmer Rossi, una specie di ISIS “di sinistra” protetti dalla Cina in funzione antivietnamita (più filosovietici). A differenza dell’ISIS i Khmer Rossi si limitarono a minare la zona dei templi senza però distruggerli… l’ho sempre detto io che la Sinistra è il meglio!?

La visita a questa città, costruita fra il decimo e il quindicesimo secolo, occupa due giornate a bordo di un tuk-tuk, una specie di carrozza da Cenerentola trainata da una moto. In caso di pioggia il rimorchio si chiude come una tenda da campeggio e somiglia a una carrozza ottocentesca.

Visitando il museo di Angkor scopro che l’impero Khmer era un grande regno, importante per tutta la storia dell’Asia. Devo ammettere che non ne sapevo nulla! A scuola non mi hanno detto niente e in seguito non mi sono informato. Penso a Gassman nel film “La grande guerra” quando diceva “Mi scusi signor tenente se la mia ignoranza non è pari alla sua…”

In realtà avevo provato questo senso di inadeguatezza già visitando ad Hanoi il Tempio della Letteratura, cioè l’Università Confuciana che risale all’anno mille circa, prima della fondazione dell’Università di Bologna che credevo fosse la più antica…

Il museo è molto moderno, ben spiegato e ricco di intelligenti servizi multimediali. In una sala sono conservate mille statue di Buddah. L’ingresso costa 12 dollari, il doppio di una cena completa al ristorante. Mi domando se qui la cultura vale molto o se ieri abbiamo mangiato frittura di scimmia. La bellezza del museo mi tranquillizza sulla cultura; mi resta però qualche dubbio sulla cena…

Visitiamo una scuola professionale di artigianato. Fa parte di un complesso di decine di scuole simili in cui i giovani imparano a tramandare le migliori tecniche artigianali locali. Vediamo studenti occupati a scolpire pietre, intarsiare legno, battere alluminio… L’occhio del Preside vede subito che manca l’estintore, le sedie non sono a norma e i ragazzi non hanno occhiali protettivi e guanti antiallergici… Ma per fortuna qui non c’è la ASL, quindi i ragazzi imparano qualche cosa…


( 8 continua)  trovate qui le diverse puntate 1) Il museo della rivoluzione2) Le case verticali3) La lingua4) La guerra di Indocina5) Il popolo delle montagne – 6 I turisti e la lingua inglese7 Lo zio Ho




il sorpasso – dibattito a due voci tra Giovanni Cominelli e Sergio Bianchini

L’Islam è destinato a diventare la prima religione al mondo per numero di fedeli? Le cifre della demografia e le relative proiezioni statistiche sembrano confermarlo. Al 2050, secondo il Pew Research Center (Usa), i cristiani – che oggi arrivano a circa 2 miliardi e 300 milioni – saranno quasi tre miliardi. I mussulmani – che oggi sono circa 1 miliardo e 900 milioni – saranno 2 miliardi e 700 milioni. Ma verso il 2070 sarà raggiunta la parità, nel 2100 avverrà il sorpasso. Spinti dalla demografia, i mussulmani crescono molto più rapidamente dei cristiani, che invece sono sempre più infecondi.

Il declino del cristianesimo in Europa
La potenza del motore demografico dipende più dai livelli di sviluppo economico-sociale e culturale che dalla fede religiosa, benché, si intende, questa abbia contribuito fortemente a determinare quei livelli. La variabile dello sviluppo non consente pertanto di affidarsi con certezza assoluta alle previsioni. Ciò che invece appare più certo dalle cifre di vari Centri di ricerca è il declino del cristianesimo in Europa. Qui il numero dei non-credenti aumenta ogni giorno che passa. Se si assume come criterio la frequenza della messa, essa si assesta in Italia, Polonia, Irlanda, Slovacchia, Malta attorno al 30%. Negli altri Paesi europei oscilla tra il 15% e il 10%, quale effetto dei profondi processi di secolarizzazione che hanno investito potentemente l’Europa.

Le chiese abbandonate
Restano nelle città e nei nostri borghi, nelle pianure e nelle vallate montane, i monumenti dell’antica fede. Soltanto in Lombardia svettano diecimila campanili, da molti dei quali continua ad arrivare da secoli il suono delle campane, che chiamano alla messa mattutina, all’Ave Maria del tramonto, ai battesimi, ai matrimoni, ai funerali. Il loro suono ha scandito i ritmi della vita delle generazioni passate. Eppure, oggi molti edifici sacri sono chiusi, spesso vengono abbandonati alle intemperie e al vandalismo. Nel Nord-Europa sono stati trasformati, talora, in sedi di mostre, musei e location molto profane. E così molti, credenti o atei devoti, intravedono scenari catastrofici: le chiese trasformate in moschee, i campanili in minareti, dai quali arriva la recitazione minacciosa delle Sure del Corano.

La separazione di potere politico e di potere religioso in Occidente
La causa di tutto ciò? Secondo una vulgata prevalente sarebbe l’immigrazione. Sulle gambe degli immigrati arriva una religione che identifica fede, potere politico, leggi civili e penali. Dall’epoca della lotta per le Investiture, iniziata nel 1059 con il Concilio lateranense, proseguita con energia da papa Gregorio VII con il suo Dictatus Papae del 1075, la Chiesa ha escluso il potere politico dalla nomina dei Vescovi e del Papa. L’accordo definitivo formalizzato nel Concordato di Worms, il 23 settembre 1122, stabilì che l’investitura del potere spirituale, i cui simboli erano l’anello e il pastorale, era riservata alla Chiesa, mentre all’impero spettava l’investitura del potere politico. Se i Papi avevano avuto tentazioni teocratiche e gli Imperatori tentazioni cesaropapiste, la storia europea della Chiesa e degli Stati li ha separati, non senza contraddizioni, involuzioni, sanguinose guerre civili europee.

Nell’Islam il potere è uno solo
Al contrario, l’Islam non ha ancora separato i due poteri, per la semplice ragione che ne esiste uno solo da sempre, quello politico, che piega la religione al proprio uso. L’Islam senza Stato non esiste. La Shari’a è il punto di intersezione tra politica, diritto, codici, religione. Perciò si possono ben comprendere e condividere le paure profonde della società civile europea. Ma è qui che si aprono i dilemmi. L’idea di impedire l’islamizzazione del continente europeo bloccando l’immigrazione è già stata superata dai fatti. Il calo demografico europeo, le dinamiche del mercato del lavoro, le guerre civili in corso nel Medioriente, l’implosione di stati sovrani – dall’Iraq, alla Libia, alla Siria – per colpa anche degli europei, hanno richiamato milioni di immigrati, una minoranza dei quali di fede mussulmana.

Non è colpa dell’immigrazione.
È colpa nostra In Italia, su 5 milioni circa di stranieri, sono grosso modo di fede mussulmana gli Albanesi (468.000), i Marocchini (437.000), gli Egiziani (110.000), i Bangladeshiani 119.000…). Non sono cifre da invasione. Anche se oggi vengono usate per una strategia politico-elettorale della paura. Ciò che è certissimo, invece, è la perdita crescente di autocoscienza storico-culturale degli Italiani. La minaccia alla nostra identità storica viene dall’interno, non da fuori. Si possono efficacemente reprimere i tentativi di praticare clandestinamente la shari’a nei nostri territori, ma la battaglia culturale contro l’identificazione fede e politica non si vince, se si è inconsapevoli della propria storia, delle proprie conquiste laiche e della propria fede, per chi è credente. Non si può operare un’integrazione effettiva nella nostra civilizzazione, se i nostri cittadini e i nostri giovani non ne sono consapevoli e, soprattutto, se non la vivono ogni giorno.

Non basta la paura
Occorre anche un’altra strategia di “difesa” dall’Islam. Poichè il Cristianesimo si è secolarizzato, anche l’Islam – così si pensa – conoscerà lo stesso destino, sotto la pressione dello sviluppo tecnico-scientifico, del mercato, dei consumi di massa. Si tratta solo di aspettare in riva al fiume. In realtà, finora, l’integrazione consumistica dei mussulmani ha provocato una reazione tradizionalistica e fondamentalista in una parte di loro e non ha scardinato l’Islam politico. Ma la questione di fondo è che l’integrazione via consumi non è in grado tenere insieme le società, ex-cristiane o ex-mussulmane che siano. La strategia consumista e quella della paura non faranno da argine alla potenziale disintegrazione identitaria di società plurali e multietniche. La costruzione di una piattaforma comune di valori civili non sarà l’effetto né di una pigra giustapposizione di credenze né di un irenismo senza principi. E’ la risultante di una battaglia culturale, a partire dalle proprie radici.

Giovanni Cominelli

Ciao Giovanni,
il tuo scritto  è interessante ma, come quasi sempre, non affronta esplicitamente il centro dello scontro mondiale tra islam e occidente e cioè il rapporto uomo donna e la famiglia.

Occidente e Islam sono posizionati su due linee divergenti e inconciliabili ma non credo tanto sul tema del rapporto religione-stato bensì su questo tema del rapporto uomo donna e della famiglia. Basta girare per le nostre strade o i nostri centri commerciali per vedere l'islam rappresentato da donne con due o tre bambini al seguito e l'occidente rappresentato da donne di tutte le età arredate secondo logiche funzional-seduttive e quasi sempre senza bambini. Tu sottolinei questo aspetto del diverso grado di prolificità ma senza esaminarlo a fondo.

L'islam propone ancora una totale divisione dei compiti tra uomo e donna, con la donna dedita alla riproduzione della specie e l'uomo dedito al lavoro e alla guerra.
L'occidente propone la parità totale tra i sessi e sancisce ogni giorno di più la separazione tra relazioni sessuali, riservate ad una interazione sentimentale romantica, e la generazione- allevamento- educazione dei figli affidato a volontarismi quasi casuali ed imprevedibili in moderne fragilissime famiglie. Sembra facile prevedere che, così continuando, saranno stato e chiesa in occidente a gestire la riproduzione sociale sottraendola alla spontaneità decrescente delle famiglie tradizionali ed affidandola a volontariati protetti come l'adozione sostenuta e supervisionata dallo stato o dalla Caritas o da entrambi.

Su questa faccenda del distacco, anche concettuale, dei bambini dalla piena autorità familiare, stato occidentale chiesa convergono ampiamente.L'enfasi posta sull'educazione scolastica come luogo fondamentale per determinare la cittadinanza molto più che il legame parentale(di sangue) tradizionale ne è una prova. Ma anche l'accoglienza specialissima riservata ai minori dei gommoni, senza minimamente pensare che invece andrebbero immediatamente restituiti alle loro famiglie, prova come per l'occidente i bambini siano ormai una tribù a se stante da liberare dall'asfissiante controllo parentale.

Questa impostazione non è nuova nella cultura sia religiosa che laica dell'occidente (basta pensare a Peter Pan) ma sta assumendo oggi caratteristiche dominanti e stupefacenti. Nell'islam il ruolo del legame parentale è sempre fortissimo. Basta vedere ad esempio le condanne a morte dove i parenti del danneggiato hanno diritto ad esercitare l'esecuzione del criminale e dove il perdono del genitore dell'ucciso può salvare il reo.

Rimane al fondo la diversa sensibilità nei confronti dell'adulterio, cioè del rapporto sessuale al di fuori del matrimonio. Da noi è una faccenda ultra superata sia nel caso di adulti sposati sia nel caso di giovani dove è oggi più problematica la verginità che l'adulterio stesso. C'è da dire che l'occidente, dopo decenni di liberalismo e di liberi banchetti sessuali sta forse tornando indietro e che la delusione di massa rispetto ai corto circuiti dell'amore romantico ed ai suoi fallimenti quasi generalizzati sta proponendo una fase di profondissime ed imprevedibili riflessioni.

La condizione, ormai quasi di massa in occidente, del single che si rapporta sempre più ai servizi statali è forse l'inizio di una fase assolutamente nuova nella storia umana dove l'occidente vedrà generalizzarsi la condizione conventuale dei moderni frati e suore in innumerevoli e comodi monolocali di moderni residence magari gestiti dallo stato. La libertà sessuale, concessa ovviamente ai nuovi frati e suore produrrà poi gravidanze massicce che potranno essere gestite politicamente con adozioni, affidi, sovvenzioni ed eventuali banche di ovuli fecondati da usare con criteri di sviluppo politico e sociale.

Dico questo in parte ironicamente ma in parte seriamente. Certo il single libero, avventuroso (libidinoso ma anche casto) è il tipo umano sponsorizzato preferito e sponsorizzato dal mondialismo e non si vedono reali mode alternative. Si vedono certamente ripensamenti e resistenze "tradizionaliste" ma deboli sul piano teorico e pratico e soprattutto sul piano emotivo.

Su questi temi l'ISLAM appare come una montagna granitica e questo è, a mio parere, il vero motivo dell'inconciliabilità attuale tra oriente (ma la cina e l'africa cosa sono?) ed occidente. Non darei per scontato quasi nulla e aspetto curiosamente segnali di vita e di autenticità "culturale" nel nostro "favoloso" occidente dove, se si parla della madonna, viene in mente oggi la cantante di gran moda che ha promesso pubblicamente una fellatio gratuita a tutti coloro che avrebbero votato la gioiosa Hillary Clinton.
Sottolineo, e mi chiedo cosa se ne debba dedurre, che nessun autorevole vescovo o intellettuale cattolico ha esaminato e sottolineato questa vicenda di impatto mondiale.

Sergio Bianchini