1992-1999: di nuovo professore, ma allo Zucchi

III edizione luglio 2024

il liceo Zucchi che, a Monza, delimita uno dei quattro lati di piazza Trento – al centro si intravvede l’inresso con il cancello in ferro e la gradinata di accesso luogo di ritrovo pomeridiano degli studenti e punto di scambio delle versioni

Nei primi mesi del 92 incominciavo a trovare pesante il clima alla Informatica Sisdo; non mi piaceva molto il modo di rapportarsi al settore pubblico nella gestione delle commesse e così considerai esaurita la parentesi del lavoro nel privato, da cui avevo imparato un sacco di cose, e decisi che era ora di ritornare a scuola.

Sfruttai un vantaggio dello stato giuridico dei docenti di ruolo che consentiva, a chi si era dimesso, di chiedere la reimmissione in servizio, che poi avveniva a discrezione della amministrazione. Ma, con la laurea in fisica e il ruolo nella classe di concorso di Matematica e Fisica, ero certo che non avrei avuto problemi a rientrare. Per altro, avendo la partita IVA ho continuato per un paio d’anni a fare qualche lavoretto episodico con la SISDO su commesse che avevo sviluppato e seguito io.

allo Zucchi per caso

Nella indicazione delle sedi desiderate misi al primo posto Monza, dando per scontato che sarei ritornato al Frisi. Invece, proprio quell’anno, si era liberata una cattedra al liceo classico (l’amico e compagno di studi Carlo Rovelli era andato a fare il Preside) e così finii allo Zucchi: il mitico Zucchi.

il loggiato del Liceo Zucchi visto da sud-est verso nord-ovest

Nel passato ci ero entrato una sola volta per assistere all’esame orale di maturità di Peppo Meroni nell’estate del 1964 e ricordavo il grande loggiato affacciato sul cortile con i cedri del Libano. Gli orali della maturità si svolgevano all’aperto nel loggiato.

In questi giorni sono entrato al Liceone di Siena (Enea Piccolomini) per gli esami di mia nipote (che ha terminato il liceo delle scienze umane); anche lì edificio antico con gli scaloni e i piani da 7 metri di altezza. Il liceo classico si deve portare dietro, anche nell’edificio, questo carattere di antico.

i colleghi della F e il primo impatto

Nel mio curriculum di docente e di studente mancava il liceo classico; lo avevo sempre considerato un posto di snob fuori dal mondo, e ci andai pieno di curiosità. Venni messo nel corso F (quello in cui si era liberata la cattedra) ed ebbi come colleghi del triennio Fiumi (latino e greco), Bulega (Italiano), Gangemi (Storia e filosofia), Gualdoni (Arte), Del Re (scienze) e Pullè (educazione fisica). Nel ginnasio per lettere ho avuto due giovani marito e moglie (Crusco e Tornitore) e una collega di inglese molto esigente (Caridi).

Al classico la cattedra di matematica e fisica è verticale sull’intero corso di studi dalla IV ginnasio alla III liceo. Fisica inizia solo in seconda liceo e si fanno poche ore per classe. Il profilo orario è il seguente 2, 2, 3, 3+2,2+3. Per contrasto dimensionale basta osservare che in IV ginnasio il docente di lettere fa cattedra con una sola classe (italiano, storia, geografia, latino e greco); ma, nonostante le poche ore, quello di matematica e fisica è comunque un riferimento ed è l’elemento di continuità sull’intero percorso quinquennale.

Questa del docente di lettere del ginnasio con 18 ore in una stessa classe era, per certi aspetti, un vantaggio se la prof. (solitamente sono donne) era una persona attenta e capace; ma si potevano anche creare dinamiche distorsive sia nel rapporto docente-studente sia nella capacità di tenere distinte a e a sè stanti in sede di valutazione  5 discipline diverse. Nulla vietava di spezzare in due la cattedra (e in quel caso il docente avrebbe tenuto due classi con 9 ore) e nella classe ci sarebbero state due docenze di lettere ma la tradizione era quella. Con questa impostazione va tutto bene se, per via delle graduatorie, non ti arriva un docente incapace o fuori di testa. In quel caso per il Preside è un bel problema e questa cosa accadde in quegli anni allo Zucchi.

Per quanto riguarda l’ordine e la pulizia, tutto bene come al Frisi, ma nel caso dello Zucchi, per ragioni logistiche, il controllo su alunni e visitatori era più semplice. All’ora della entrata e della uscita veniva aperto il cancello in ferro di accesso al cortile e dal cortile si saliva al primo (e unico piano) attraverso i quattro scaloni posti ai quattro angoli. Nel resto della giornata si poteva salire solo passando dalla guardiola sulla destra dove una bidella provvedeva a segnalare gli arrivi via citofono. Di fianco alla guardiola si faceva il ricevimento dei genitori in un’aula abbastanza squallida e senza sala d’attesa (ma anche al Frisi era così).

il cortile interno del Liceo con vista sull’ingresso e i bellissimi cedri del Libano

Non c’era una palestra a norma per problemi di altezze e non la si poteva certamente realizzare in un edificio tutelato dalla Sovraintendeza; perciò le lezioni di Educazione Fisica si tenevano in aula o in cortile. Tra le diverse scuole in cui sono stato lo Zucchi è stata la prima in cui ho trovato colleghi di Educazione Fisica che giocassero un ruolo importante nei consigli di classe e, in particolare, in sede di scrutinio, fornendo importanti contributi sul rapporto corpo-mente. Insomma, ci aiutavano parecchio nel processo di valutazione.

L’aula magna era al primo piano sul lato sud insieme a qualche laboratorio. A nord, ovest ed est aule; ma a est c’erano anche la biblioteca e, all’angolo opposto, la segreteria, la presidenza e la sala professori con un arredamento ottocentesco e la immancabile enciclopedia Treccani. Al piano terra l’unica parte di pertinenza dello Zucchi era a sud mentre il resto era occupato dall’Ufficio centrale delle Poste e dalla Biblioteca Civica (con porte di passaggio ben chiuse).

Il clima interno, come si conviene a un liceo classico d’epoca (che in quegli anni festeggiò il 500° di fondazione con tanto di volume celebrativo), era austero. I professori erano per un 50% milanesi ma avevano la comodità del capolinea della linea celere da Milano sull’angolo della scuola.

Per quanto riguarda  la provenienza  degli alunni sussisteva la tradizione di iscriversi alla scuola che aveva fatto il papà e, magari, prima di lui il nonno. Dunque c’erano I figli dei professionisti (fossero avvocati o ingegneri), i figli degli industriali doc, i figli degli intellettuali. Accanto a loro, provenienti sia da Monza sia dal contado, alunni molto bravi alle medie che, per via delle doti dimostrate in particolare nell’area espressivo-linguistiche, venivano orientati al liceo clasico. Insomma non si trattava del liceo propedeutico alla iscrizione a lettere per perpetuare professori e professoresse di lettere, ma del liceo per la futura classe dirigente.

Enrica Galbiati

A fare la Preside allo Zucchi c’era Enrica Galbiati (1930-2012) di cui ero stato collega al Frisi (e da cui avevo ereditato la cura del laboratorio del III piano). Enrica Galbiati dal 1978 al 1997 ha segnato un’epoca nella gestione della scuola. I giornalisti, per assonanza con la Thachter, la chiamavano la preside di ferro. Tra noi c’era un rapporto di stima reciproca che aveva a che fare con due cose:

  • l’importanza della formazione scientifica nella formazione della personalità e nello sviluppo della intellegenza
  • una visione conservatrice di certi temi della vita, in particolare in tema di educazione: senso del dovere, rispetto delle regole, valore della fatica; nel suo caso quella visione era esasperata, nel mio temperata dagli interessi politico culturali di sinistra, ma comunque c’era sintonia.

la Preside Enrica Galbiati

Sono stato suo collaboratore per quattro anni (insieme a Marco Praga, Paolo Pilotto, Giulio Fassina) e, sfruttando le esperienze acquisite nel settore informatico, mi fece sovraintendere alla realizzazione dell’aula di informatica con rete harware audio-video che consentisse il duplice uso come laboratorio linguistico e come laboratorio di informatica, oltre che chiedere una mano importante per le problematiche di segreteria e di organizzazione del personale.

I tre collaboratori erano stati scelti con cura: Marco Praga (latino e greco) rappresentava la storia e la cultura del liceo di cui era stato alunno, Paolo PIlotto faceva parte dei giovani allevati dal cardinal Martini attivi nel rinnovamento del laicato cattolico e della DC, Giulio Fassina (sindaco democristiano di Giussano e vicepreside storico) si occupava della gestione ordinaria (assenze, sostituzioni, circolari, …) sgravandola dai compoiti più noiosi. Io facevo il doppio ruolo di espressione dell’area progressista e di esperto di organizzazione. Sapevo scrivere, masticavo bene la normativa e così finivo per essere l’incaricato della stesura dei documenti più corposi. In quegli anni le scuole dovettero dotarsi di regolamenti, di una carta dei servizi e del Piano Educativo di Istituto (il PEI antesignano del POF).

A proposito delle sue opinioni politiche Enrica Galbiati non poteva che essere democristiana; era una lettrice regolare de Il Giornale di Montanelli e aveva seguito Montanelli nella sua rottura con Berlusconi iniziata nel 94. Nei primi mesi del 96 ho assistito ad una telefonata in cui Enrichetta parlava con Peppino Fumagalli, il padrone della Candy, e gli spiegava che, assolutamente, era fondamentale votare per Prodi alle imminenti elezioni politiche. Aveva maturato posizioni antiberlusconiane (immagino che lo considerasse un parvenu e uno sporcaccione), ma più avanti, dopo la pensione andò a fare l’assessore alla istruzione nella sindacatura di centro-destra di Roberto Colombo. In quella occasione mi chiese anche il mio parere e fui franco nel dirle che non era il caso, non per via dello schieramento, ma perché, gli dissi, Enrica tu non hai il senso delle istituzioni rappresentative, non sarebbe il tuo mestiere. Credo che i fatti mi abbiano dato ragione.

La Presidenza era in un locale grande, con mobili antichi e, in una vetrinetta c’era qualche libro settecentesco ,poca roba rispetto a quello che avrei visto qualche anno doopo al liceo Beccaria di Milano dove feci il tirocinio nell’anno di nomina a Dirigente Scolastico. Alla Presidenza si accedeva o dal corridoio o dalla vicepresidenza, a sua volta collegata alla segreteria, con finestre che affacciavano su piazza Trento.

In quegli anni sono accadute tante cose ma ne voglio citare un paio che hanno avuto un certo peso sulla città. La prima, nel 93, trascinatasi nei due anni successivi fu di rilevanza penale e portò ad un processo in cui fu imputata Enrica Galbiati. Il processo si concluse con una condanna in primo grado e una assoluzione in appello (credo per remissione di querela).

il caso Frediani e l’occupazione

Era l’aprile del 93 e uno studente di V ginnasio, Lorenzo Frediani fu svillaneggiato da lei che lo aveva trovato stravaccato fuori dalla presidenza perché Lorenzo, come faceva spesso, era arrivato in ritardo e i ritardatari venivano fatti attendere davanti alla presidenza. Lorenzo era un mio alunno; era sempre un po’ fuori dalle righe mentre la Galbiati aveva una concezione dell’educazione che prevedeva di usare con gli studenti, soprattutto all’inizio del rapporto, una linea dura.

La bagarre si scatenò sulla accusa, sostenuta dalla famiglia, di avergli dato del giudeo (la Galbiati è razzista). Non ero presente al fatto ma, conoscendo Enrica e conoscendo Lorenzo, sono convinto che si trattò di una rabbuffata energica con Lorenzo che cercava di giustificarsi accampando qualche pretesto e lei che, probabilmente di fronte a giustificazioni poco credibili, per via del suo stile e della sua formazione culturale, gli diede dell’impustur ‘me Giuda, un modo di dire tipico della cultura popolare catto-brianzola e che ho sentito tante volte da bambino: bugiardo come fu Giuda nei confronti di Cristo.

Quell’impustur me Giuda si trasformò da parte della famiglia Frediani in una querela il cui elemento principe, dal punto di vista della pubblica opinione, fu quello di aver dato del giudeo al loro figlio. Non avevo dubbi sul fatto che Enrica avesse trasceso e andai a testimoniare a suo favore cercando di alleggerirne la posizione (e me ne fu riconoscente).

Ma aveva un avvocato proprio debole e anziano (l’ex sindaco Giovanni Centemero) mentre dall’altra parte c’era una pretora bella tosta e in primo grado venne condannata. Era una donna di spirito, ma quella condanna le pesava. Mi diceva, certo che finire condannata con una accusa di razzismo … e si metteva a raccontare delle persecuzioni razziali che ci furono anche allo Zucchi quando lei ci studiava e cosa si faceva per proteggere le compagne ebree. Poi la metteva sul ridere ribadendo quello che aveva dichiarato anche in udienza come avrei potuto dare del giudeo ad un ragazzo il cui fratello maggiore si chiama Adolfo (Adolfo Frediani era stato qualche anno prima uno dei leader del movimento allo Zucchi).

Nell’anno 94/95 ci fu l’occupazione del liceo e lei, invece di chiamare la polizia, disse che sarebbe rimasta in presidenza a tutelare la scuola e gli studenti. Non voleva assolutamente che la polizia entrasse a scuola e sosteneva che finchè a scuola c’era lei la situazione si poteva considerare legale. Si chiuse in Presidenza e noi collaboratori rimanemmo a scuola in vicepresidenza a dormire su qualche poltrona e sul lettino della infermeria.

La mattina dopo gli occupanti cercarono con un trucco di chiuderci fuori dalla scuola; la presenza della Preside e dei collaboratori, anziché vederla come una tutela neil loro confronti, la vivevano come un vulnus (che occupazione è se c’è dentro la Preside con i suoi collaboratori?). Ci chiesero di scendere al cancello per sovraintendere all’ingresso degli occupanti che avevano dormito a casa e allo scambio delle vettovaglie. In realtà avevano preparato un blitz che prevedeva di chiuderci fuori dalla scuola. Ci fecero uscire dal cancello accostato per controllare qualcosa e appena fuori tentarono di chiudere.

Ma non avevano fatto i conti con il fatto che, di certe cose, avevo una certa esperienza e l’operazione non ebbe successo, perché sfondai il picchetto con cui cercavano di tenerci fuori. In quei momenti sono importanti la rapidità e la decisione. Naturalmente ci fu anche qualche polemica della serie il professor Cereda ha usato violenza verso gli studenti, ma l’acccusa, ovviamente, si smontò da sè.

Il suicidio di due alunni

Il terzo episodio fu molto grave e mi ha segnato per diversi anni. Accadde la notte tra il 13 e il 14 maggio del 95: il  suicidio, con i gas di scarico dell’auto di due miei alunni: uno di II liceo (Samuele Fossorier) e uno di III liceo (Walter Caliendo). Si suicidarono un sabato notte dopo essere tornati, con un folto gruppo di zucchini, dalla sagra dell’asparago di Mezzago. Con la macchina di Walter accompagnarono a casa Matteo Pressato della III F, poi scelsero un luogo appartato,  sigillarono le portiere, fecero entrare da un finestrino un tubo di gomma collegato allo scarico della marmitta e poi si sedettero sul sedile posteriore in modo di essere certi di non poterne uscire.

Chi li ha visti dive che Walter era sereno mentre Samuele avrebbe tentato di uscire senza riuscirci. Quella domenica mattina mi chiamò al telefono la Galbiati allertata dalle famiglie. I cadaveri non erano stati ancora trovati, ma erano arrivate dichiarazioni inequivocabili da parte degli amici e mi fiondai a scuola dove rimasi per l’intera giornata.

Erano due persone molto diverse: Walter si dichiarava fascista (magrolino e chiuso) e Samuele era  guevarista con tanto di basco con la stella (gioviale ed esuberante). Sia Walter sia Samuele erano con me da tre anni e nessuno dei due brillava nelle mie discipline.

Walter lo trovavo strano, era taciturno e avevo l’impressione che ogni tanto si estraniasse dal mondo; l’avevo anche fatto presente in un paio di occasioni in Consiglio di Classe, mentre i docenti di area umanistico letteraria lo dichiaravano assolutamente normale e geniale. Samuele era l’opposto: estroverso, atletico (era stato un campioncino di lancio del martello),  impegnato nel movimento e, nella occupazione di qualche mese prima, aveva avuto un ruolo superiore a quello del semplice partecipante.

Nei giorni successivi fui sconvolto da ciò che, poco alla volta, saltò fuori:

bigliettini scritti da entrambi in cui si esplicitava il progetto suicida in un clima di totale smarrimento del senso di realtà come quello in cui Samuele scriveva e che non dicano che l’ho fatto perché non andavo bene a scuola perchè, cazzo, a costo di tornare indietro, faccio un casino. La morte vista come una avventura da cui si può andare e tornare

annotazioni di diario da parte di Walter in occasione del compleanno e risalenti a quasi un anno prima: “Giorno maledetto, chiunque lo abbia voluto, mi vendicherò senza perché e senza scrupoli. Non tocca a noi vivere, cosa ci sto a fare qui? Io me ne devo andare assolutamente. Non ce la faccio piu” (citazione pubblicata da Repubblica)

la scoperta che la discussione sul suicidio andava avanti da mesi (in II F e in III F). In questa discussione erano coinvolti alcuni degli studenti (prevalentemente di III) e alcuni adulti (sia genitori, sia docenti). Avevano sottovalutato la pericolosità della faccenda, o comunque avevano deciso di gestirsela in proprio, fidando nella propria capacità persuasiva e ritenendo inopportuno informare gli altri colleghi. In proposito ci fu una discussione piuttosto animata subito dopo i funerali a casa di una delle studentesse coinvolte in cui il coinvolgimento degli adulti lo sentii confermare dai diretti interessati

da qualche mese nella III c’era qualcosa che non andava; una compagna di classe, seria e diligente, aveva avuto un inatteso calo di rendimento e sembrava decisamente in crisi. A cose fatte saltò fuori che aveva avuto un flirt con Walter e che erano state fatte delle prove di suicidio (per impiccagione) mentre lei era stata costretta ad assistere ad alcuni di quei rituali; non solo sapeva ma era coinvolta direttamente

una contiguità stretta con due altri compagni di classe, che erano con loro anche quella sera, e che erano culturalmente e politicamente mille miglia lontani da Walter, l’uno rifondarolo e l’altro frikkettone. I quattro avevano recentemente fatto un viaggetto a Siena tornando innamorati del mondo delle contrade.

tra gli studenti legati al movimento se ne parlava come di una ipotesi concreta ed erano parecchi a sapere: “ah se Samuele non è tornato, vuol, dire che si sono ammazzati …” disse una ragazza, compagna di classe di Samuele, quando li stavamo cercando la domenica mattina.

Andai avanti, per giorni interi a piangere, mi uscirono tutte le lacrime che non avevo versato, un mese prima, per la morte di mio padre. Volevo capire come era andata, continuavo ad incazzarmi con quegli adulti che ritenevo responsabili.

Con alcune delle alunne della ex III F in occasione di una delle messe di ricordo

Ma la città e la Galbiati decisero che doveva calare il silenzio e il silenzio calò. Ci furono incontri con i familiari e si lavorò con l’aiuto di qualche psicologo sugli studenti della classe di Walter, che di lì a poco avrebbe avuto l’esame di maturità. Feci anche un esposto alla procura della repubblica per invitarli ad approfondire, ma mi fu detto che era tutto chiaro e che non c’erano zone d’ombra.

Con i genitori di Walter, che erano stati tenuti all’oscuro di tutto (!), dagli altri adulti che pensavano di gestire la cosa, e con un pezzo di quella classe siamo andati avanti per anni a ritrovarci in una chiesina fuori Brugherio per una messa aperta a chi voleva e io, non credente da una vita, ci andavo per rivedere quelle persone che intanto crescevano e si laureavano. Mi auguro che gli anni abbiano portato loro una pace senza rimozione.

L’anno dopo, non ho mai capito chi fu l’organizzatore della cosa, l’establishment interno allo Zucchi decise che io, e le persone con cui collaboravo eravamo poco affidabili perché avevamo deciso di mettere le cose in chiaro su quanto era successo e alle elezioni dei collaboratori e più tardi per il consiglio di istituto ci dissero che saremmo stati estromessi dalla lista unitaria (? unica) che veniva solitamente presentata. Feci di necessità virtù e ripetei allo Zucchi quanto mi era capitato di fare al Frisi anni prima: due liste, esplicitazione dei programmi e anche questa volta fu un netto successo.

Nel 94/95 stavo già slittando dal corso F al corso A (avevo già la IV  A e la I A). Chiesi, e lo ottenni, di passare completamente al corso A. Non me la sentivo di continuare a collaborare con quei colleghi che sapevano,  avevano sottovalutato e di fronte alla tragedia avevano semplicemente abbozzato.

gli amici della natura

Da parte mia, visto il contesto di cui ero venuto a conoscenza, da cui traspariva un totale distacco dal mondo reale, misi in piedi, con alcuni colleghi disponibili, una libera associazione che prevedeva uscite domenicali a contatto con la natura da effettuarsi con mezzi poveri e usando il trasporto pubblico.

La chiamammo  amici della natura dello Zucchi. La Galbiati, persona pratica, ci garantì la copertura assicurativa e non mise i bastoni tra le ruote.

Amici della natura durò in tutto 3 anni e le uscite organizzate sono state le seguenti: castagnata a Dazio in Valtellina (3 edizioni con il CAI di Villasanta), giornata sciistica a Courmayeur (fondo e discesa), gita sciistica a Santa Caterina Valfurva (fondo e discesa), 2 giorni naturalistico escursionistica in Val Malenco, gita al rifugio III alpe, escursione ciclistica agli aspetti inconsueti del Parco di Monza, gita al parco del Monte Barro, escursione alla Basilica di S. Pietro al Monte di Civate, escursione ciclistica al Parco Adda Nord e ai siti di archeologia industriale dell’Adda.

Ricordo ancora l’escursione al Monte Barro, iniziata con la scoperta che da Lecco a Galbiate, la domenica mattina, a differenza dei giorni feriali, non c’era il pulman e ce la dovemmo fare a piedi.

L’iniziativa più impegnativa fu quella in val Malenco con partenza il sabato all’uscita della scuola: treno per Sondrio, pullman per Chiesa e salita in funivia al lago Palù, discesa al lago e deposito degli zaini al rifugio Palù, per iniziare una  immediata ascensione al Bocchel del Torno (il passo a nord-est dove c’era ancora neve e ghiaccio e iniziava ad imbrunire). Rapida discesa, cena; uscita al buio più completo ad osservare la cometa hale bopp. Il giorno dopo escursione dal Palù all’imbocco della val Sissone (alpe Forbicina), dopo Chiareggio, pulmini da Chiareggio sino a Sondrio e tutti a casa con il treno.

da Galbiati a Meneghetti

Il pensionamento di Enrica Galbiati era nell’aria. Me ne resi conto nel 96/97 quando decise di allargare i cordoni della borsa. Negli anni, attraverso le politiche di bilancio che governava con mano ferma aveva accumulato un consistente avanzo di amministrazione che fu utilizato per la realizzazione un’aula multimediale con una poderosa componente hardware che stava sotto il pavimento rialzato.

Era l’epoca di Windows 95 e le reti governate dal sw erano agli inizi. Pertanto l’aula utilizzabile per informatica, laboratorio linguistico e applicazioni multimediali si basava pesantemente sull’hardware con una console avvenieristica che consentiva di controllare tutte le postazioni e, volendo, di strutturare la classe in gruppi. Il tutto era commercializzato da una delle aziende leader nel settore della editoria scolastica in partnership con IBM. Si pensava di poter finalmente avviare il corso di Piano Nazionale per l’Informatica ma, come negli anni precedenti le adesioni da parte della città furono deludenti. C’erano richieste, ma non bastavano mai a raggiungere il numero sufficiente a fare una classe.

Nell’anno precedente il liceo, con la collaborazione e l’impegno della valentissima docente di storia dell’arte Amalia De Biase aveva organizzato un viaggio di Istruzione in Grecia in cui a turno venne coinvolta l’intera scuola . Ci andai anche io ma mi andò male. La prima sera portai i ragazzi a gustare un po’ di cucina tipica greca e la mattina dopo mentre andavo su e giù per le scale dell’albergo a raccattare i ritardatari, scivolai su uno scalino che non aveva le srisce antiscivolo di gomma, volai all’indietro per finire con la schiena sullo spigolo del gradino. Ospedale e successivo riposo a letto in camera sino alla data di rientro.

Apparentemente finì tutto bene, ma la mia schiena già malmessa nelle lombari ebbe il colpo di grazia e nell’anno successivo ernia discale espulsa tra L5 e S1 con intervento in neurochirurgia.

Quando Enrica Galbiati andò in pensione nel 1997, dopo una breve parentesi di interregno, arrivò da Milano Mariagrazia Meneghetti, una bella signora che era tutto l’opposto: colta, elegante, laureata in lettere classiche, figlia di un ispettore e di una preside, molto milanese e, infatti, mi fu grata per averla introdotta ai misteri della monzesità. Il primo consiglio che le diedi fu: se vuoi conoscere Monza e comprendere le sue dinamiche devi leggere Il Cittadino tutte le settimane; la Galbiati non ne aveva bisogno perché lo storico direttore, forse proprietario, era suo fratello.

Con Mariagrazia è iniziata una fase di svecchiamento del liceo; per un anno ho avuto un incarico di supporto organizzativo alla presidenza, ho steso il regolamento di istituto definendo modalità di funzionamento della scuola, organi, diritti e doveri e nell’anno succesivo ho persino fatto il vicepreside con un semiesonero dall’insegnamento.

Per due anni consecutivi ho fatto anche il responsabile del servizio di prevenzione e protezione. Nel  vecchio edificio dello Zucchi i problemi erano tanti (vie di fuga, impianti elettrici assolutamente fuori norma, mancanza di un impianto antincendio, pericolosità del sottotetto con travi e capriate in legno infestati da anni dai piccioni con uno strato di guano di alcuni centimetri che ricopriva il pavimento).

Il quadro elettrico generale, che si trovava al piano terra nell’angolo nord-ovest era costituito da una enorme lastra di marmo su cui stavano i sezionatori a coltello e le vecchissime valvole di protezione a filo. Niente salvavita e in molte zone nemmeno presenza di interruttori magnetotermici. Per condire il tutto, il quadro era protetto da una griglia metallica che, in occasione di qualche lavoro era stata svitata e da allora giaceva appooggiata al quadro con il rischio di un corto circuito devastante.

Segnalai, segnalai, … e alla fine data l’inerzia degli uffici comunali, arrivò la ispezione dell’ufficio di II livello e il comune si beccò una multa con i fiocchi.

Con Meneghetti mi trovavo decisamente bene ma la sperimentazione PNI non partiva e così nel 98/99 feci domanda di trasferimento, destinazione Frisi.

gli studenti

Gli studenti, anzi le studentesse, visto che erano la maggioranza, le potevi dividere a metà:

  • quelle/i che si erano iscritti al classico perché lì si fa poca matematica e con quelli/e c’era poco da fare (pregiudizi e scarsa apertura mentale)
  • quelle/i che avevano scelto il classico per fare una esperienza di studio aperta alla riflessione, agli approfondimenti e alla cultura classica vista come madre del nostro sapere. In questa categoria c’erano poi i molto bravi e, quelli non li batteva nessuno quanto ad autonomia e capacità di approfondimento. Mi ritrovai a pensare a due amici e compagni del 68 che avevano fatto lo Zucchi, Lino Di Martino ordinario di Algebra e Mao Soardi ordinario di analisi.

Fu in quegli anni che iniziai a lavorare sul mio corso di fisica e a rendere disponibili i testi corretti e commentati dei compiti in classe. La interazione con gli alunni iniziava ad avvenire anche con uso della posta elettronica. I materiali li distribuivo su CD e anni dopo fu uno studente dello Zucchi ad offrirmi uno spazio di host in rete, Era Morris Barattini che tempo fa mi scrisse: “Ricordo l’ esperimento del foglio appoggiato sul libro in caduta che mi aveva totalmente spiazzato. Si divertiva un sacco quando insegnava, è una cosa bella. Forse scriveva troppe cose alla lavagna e spesso non la seguivo molto, ma non è colpa sua, è la matematica che è una palla mostruosa”.

la equazione di Eulero che raggruppa in una formula i numeri importanti della matematica e, i, pi greco e volendo anche 1 e 0

Eravamo al classico, poche ore di scienze dure ma alto livello. In terza, con l’accordo degli studenti, introdussi l’insegnamento dell’analisi matematica con un approccio più concettuale che tecnico e, nel ginnasio, lavorai in maniera molto alta sulla geometria razionale utilizzando un libro di testo del professor Conti che andava a fondo sulla indipendenza e completezza degli assiomi della geometria.

Poco peso agli aspetti tecnici o ripetitivi e lavoro sugli snodi del ragionamento matematico. Ma come si vede da questa immagine con la equazione di Eulero che richiama quattro numeri importanti della storia della matematica (e, i, 1, pi greco), magari solo per cenni, si apriva a cose avanzate. In questo caso si parlava, a fine corso e con un po’ di ironia, della importanza dei numeri complessi nella costruzione dell’edificio della matematica.

Molti di questi studenti li ho ancora come amici sulla pagina Facebook. Ciò che li accomuna è l’autonomia, la capacità di fare scelte coraggiose, di dare una svolta alla propria vita e, molti di loro, non sono più in Italia ma in Canada, in Inghilterra, in Spagna, altri fanno i docenti universitari, o scrivono, o inventano startup.

Come Andrea Rota che, nel 95, usando alcune caratteristiche di Windows 3.1, era riuscito a produrre la versione on line di Bartolomeo, il giornalino degli studenti. Alla fine del liceo andò a Milano per iscriversi a Fisica e tornò a casa iscritto a filosofia. Mentre faceva filosofia, mise su una startup di informatica e poi, andato in Inghilterra per il dottorato, si è fatto assumere dall’Università per curarne il sistema informativo. Adesso non so dove sia.

Mi scrisse Paola Villa che ora insegna letteratura italiana negli States:


Una cosa però mi ha sempre infastidito di noi "fighetti" di Piazza Trento Trieste: quella posa da Crociani di bassa lega, quell'attitudine a snobbare le materie scientifiche come vile "techne" che non ha nulla a che vedere con la "vera" cultura dei classici e dei "sommi poeti" e altre baggianate di questo tipo.

Ecco a me quest'atteggiamento ha sempre fatto girare i c…i, tanto per dirla da contessa:-). Poi in prima Liceo è arrivato Lei. Sempre un pò incazzoso, sempre in blue-jeans, con il suo intercalare dialettale  (fa balà l'ouch!) che faceva tremare le pareti del tempio della "Crusca" e con la ferma convinzione che il muro fra le "due culture" fosse da abbattere e subito!

Cereda è stato per me il Feynman italiano: mi ha insegnato che la matematica e la fisica non appiattiscono il mondo, non fanno a pezzi la poesia, come qualcuno sosteneva, ma ne danno una visione più completa e affascinante.  Ora vivo negli States dove insegno Italiano all'università e sto scrivendo una tesi di dottorato sul rapporto tra letteratura e fisica. Il mio idolo: Cicerone?? No, Niels Bohr!


Scrive Serena Psoroulas, una zucchina che ha fatto fisica e continua ad occuparsi di fisica:


Per me leggere le sue verifiche e seguire le sue lezioni nell'anno in cui fui sua alunna fu emozionante, perché mi mostrava un modo completamente diverso di fare matematica, che nessuno prima (e purtroppo neppure dopo, fino a che non arrivai a studiare analisi matematica) mi aveva mai mostrato. D'un tratto la matematica era interessante; le sue erano verifiche in cui era richiesto di pensare, non di eseguire istruzioni. Ho sempre odiato la matematica prima di conoscerla; dopo aver fatto un anno con lei, non avrei più potuto dire la stessa cosa...

Quello che avevo imparato da lei mi diede anche un po' sui nervi, diverse volte. Mi aveva mostrato come ciò che mi piaceva in altre materie (l'analisi come base per la comprensione del testo, sia in latino, greco o in italiano, per fare un esempio) era anche alla base della matematica – e che quindi, se non riuscivo a farla era colpa mia, non stavo analizzando appieno il problema. Non potevo più nascondermi dietro alla scusa non sono portata per questa materia. Gli errori di segno in un'equazione, erano solo il sintomo di quanto fossi stata pirla.

Passione per le cose che ti trascina a guardarle sempre con un occhio diverso, a rianalizzare, a non sederti mai – e l'inconsistenza delle scuse dietro cui ci si nasconde quando invece ci si siede – sono forse le cose che più ho imparato dalla mia esperienza, con lei e con altri. Come fa a sbattersi così alla sua età? era quello che molti noi studenti ci chiedevamo (aveva già passato i 50 quando la conobbi, un'età che per un 14enne è un chiaro sintomo di matusaggine). E c'era chi la stimava per questo suo atteggiamento.


Serena era l’amica del cuore di Ilaria Salis; già perché in quella IV ginnasio del 97/98 c’era anche lei. Quando suo malgrado è divenuta famosa mi sono detto, ma quel nome mi ricorda qualcosa, e quando venne fuori che era di Monza e aveva fatto lo Zucchi, feci due più due. Ho ritrovato i suoi voti, i giudizi del I e II quadrimestre dove si sottolinea la sua vivacità intellettuale e la necessità di controllarla e coinvolgerla. Il centro sociale Boccaccio è nato in quegli anni e, al di là della mi scarsa simpatia per i centri sociali che risale agli anni 70, non riuscivo e non riesco a capire come una parte delle teste fondanti potesse provenire dallo Zucchi.

In quell’anno approfittando dell’arrivo nel corso della professoressa Scrocco (lettere), moglie del Preside del Frisi Cicerone, donna molto colta e disponibile verso la scuola e gli studenti organizzammo un bellissimo viaggio di istruzione a Roma con un programma tutto gestito da lei (Roma monumenti principali, villa Adriana a Tivoli, necropoli etrusca a Tarquinia)

La mattina arrivavo in bicicletta da Villasanta e parcheggiavo la bici al parcheggio custodito di piazza Trento. Poi arrivavo ai gradini sempre ingombri di studenti del ginnasio che copiavano le frasi di latino: Buon giorno e sorridevo pensando che il modo migliore per far studiare la gente era essere esplicito nel rapporto, insegnando ad autodosarsi rispetto ai ritmi di apprendimento. Per questo non davo compiti a casa in maniera fiscale e, a volte, per questo subivo le rimostranze dei genitori.

La bici era la Bottecchia che avevo vinto con l’abbonamento a Rinascita, rosso bordeaux con un bel portapacchi nero su cui mettevo la cartella. Una mattina d’inverno, mentre percorrevo il Parco da Villasanta ed ero appena sbucato sul viale Cavriga provenendo dalla zona dei Mulini Asciutti, saranno state le 7:30, c’era poca luce, sentii il rumore di una frenata secca dietro di me. Ebbi la prontezza di spirito di pedalare più forte e così l’impatto fu meno violento. Volai in avanti di qualche metro rispetto alla bici e andò tutto bene. Quello in macchina mi aveva visto solo all’ultimo momento. Tra lui in frenata e io in accelerazione fui salvato dalla conservazione della quantità di moto. Ma non andò così bene qualche anno dopo mentre andavo al Frisi a fare gli scrutini.

i colleghi

Angelo Cucinotta (matematica e fisica) e Fernando Montrasio (detto Nando, latino e greco)

Nel novantanove duemila, dopo tre tentativi consecutivi di far partire la sperimentazione di informatica, falliti per insufficiente numero di richieste perché Monza è Monza e il classico è il classico, sono ritornato al Frisi.

I vecchi colleghi dello scientifico erano curiosi; si aspettavano che dicessi peste e corna dello Zucchi e invece li ho delusi (tra i due licei monzesi c’è sempre stata competizione nel primeggiare).

Dissi loro: se al Frisi, in media, uno studente incontra nella sua storia scolastica almeno tre docenti di quelli che lasciano il segno, allo Zucchi siamo a 3.5 e gli studenti, quando sono bravi, lo sono per davvero.

I colleghi erano dei veri esperti nelle loro discipline anche se sopravviveva qualche parruccone/a da giardino zoologico in particolare tra i docenti di latino e greco. Voglio ricordare i due della foto: Angelo Cucinotta (fisico underground reduce dalla Parigi Dakhar in moto) e Nando Montrasio (giovane docente di latino e greco, dalla grande cultura).

Ma poi Fiumi, Praga e Scrocco (Greco), Ragazzi, Bulega e Bregani (italiano), Montrasio e Del Re (scienze), Gualdoni e De Biase (arte), Castellani e Ferraro (storia e filosofia), Di Miele e Magni (matematica e fisica), Pullè e Turri (educazione fisica), poi qualche docente di lettere del ginnasio come Patrizia Marchesi o Paolo Pilotto che, nonostante insegnasse religione, è diventato una istituzione dello Zucchi già prima di darsi alla politica cittadina. Con tutto quel ben di Dio di intellettuali avevi la impressione di stare nel regno della cultura anche se ne percepivi aspetti di unilateralità.

La scuola è ora diretta da una cara amica di Villasanta, Rosalia Natalizi Baldi che ha mosso i primi passi da DS alla media di Villasanta, il cui figlio Tommaso intelligentissimo e multiforme è stato mio alunno al Frisi. Se dò uno sguardo allo staff ritrovo giovani docenti di allora ancora presenti come Anna Magni, Carmelo Valentini, Cristina Catalano, Daniela Bini (ex Frisi), Nando Montrasio, Giovanni Missaglia e Mara Gualdoni. Tutto ciò mi fa riflettere sul fatto che la identità e lo spirito di appartenenza siano un bene importante in ogni organizzazione e lo siano a maggior ragione in quelle educative. Spirito di appartenenza e capacità di rinnovarsi.

A proposito delle due culture che non si parlano voglio ricordare un episodio divertente accaduto durante un consiglio di classe. Non so per quale ragioni stessi parlando di linguaggi e delle loro diversità ed io pensando alla meccanica quantistica citai come linguaggio il formalismo hilbertiano. La MQ ha un suo strano linguaggio basato sugli operatori che operano su particolari vettori nel campo complesso in uno spazio a infinite dimensioni (lo spazio di Hilbert). Tutto ciò, gli oggetti e le regole con cui interagiscono, viene condensato parlando di formalismo hilbertiano.

Fui interrotto da una collega di latino e greco che mi disse: ma cos’è questa storia del formalismo hilbertiano, il forrmalismo è una corrente artistica. Appunto.

Era la la stessa persona che in un’altra occasione mi spiegò che il mio argomentare usava troppo la paratassi e troppo poco la ipotassi. Nella mia ignoranza le chiesi di spiegarmi cosa fossero e, dopo aver imparato due parole nuove, le dissi che il linguaggio diretto che procede per frasi brevi e accostate (la ipotassi) è quello che si usa nel giornalismo e nella comunicazione verbale. In quella scritta, di tipo saggistico, nelle sue diverse forme e ambiti, è normale usare una proposizione principale e una o più subordinate. Insomma, le dissi, a seconda dei contesti, sono un po’ paratattico e un po’ ipotattico.

capo Nord

Nei periodi di vacanza (invernale ed estiva) andavo in montagna in val Malenco e lì conobbi, diventandone amico, Francesco Ceratti, medico esperto in organizzazione sanitaria, classe 1947 e con la passione per il girovagare motociclistico.

Nel 95, al ritorno da un giro tra la Valtellina e l’Alto Adige, ero arrivato lungo su una curva secca e i freni a tamburo della mia Aermacchi 350 mi avevano tradito: blocco della ruota posteriore, scivolata e caduta. A parte due costole incrinate dal manubrio, niente di grave, ma conclusi che era ora di prendere una moto con i freni a disco.

Volevo una moto italiana e la scelta cadde sulla Guzzi Nevada 750; il fascino del bicilindrico. Francesco aveva una Yamaha Diversion 600 e decidemmo che per i 50 anni avremmmo festeggiato andando a capo Nord.

Era l’estate del 97. Spesi il benefit dovuto alle attività di collaborazione a scuola per acquistare un giubbotto Dainese serio (cordura con interno in goretex, protezioni alla schiena, gomiti, polsi e spalle) insieme alle tre borse rigide e ad una borsa da serbatoio. Iniziò un lavoro di preparazione sulle cose essenziali di manutenzione presso il concessionario Guzzi di Carate (avevo visto che in alcune zone della Norvegia il meccanico Guzzi più vicino sarebbe stato a 600 km e dunque bisognava saper fare l’essenziale in caso di bisogno).

E così partimmo per un viaggio di circa 9’000 km diluiti in tre settimane. E’ stata una grande avventura di cui ho steso un diario di viaggio che trovate qui insieme alla descrizione delle singole tappe e ai link agli album fotografici che ho messo nella mia pagina Facebook.

Siamo saliti dalla Svezia e Finlandia e tornati dalla Norvegia (con in mezzo Svizzera e Germania). Si stava in moto tutto il giorno ed è andato tutto bene. Delle tre borse rigide, quella di destra era piena di ferri e di pezzi di ricambio, ma non è servito praticamente nulla e la moto italiana, con il cardano, si è rivelata migliore della giapponese a catena.

Nel nord della Norvegia il mio socio è caduto da fermo e ha rotto il poggia piedi dal lato del cambio (e nelle moto se non hai il poggia piedi non puoi azionare il cambio). Gli ho montato uno dei due lato passeggero, un po’ più piccoli, ma ce la siamo cavata sino in Germania dove abbiamo fatto manutenzione alla Yamaha.

Pernottamenti prevalentemente nei bungalow della estesa rete di campeggi della Scandinavia; colazione super-ricca la mattina (uova, aringhe, yogurt, frutta, formaggio, salumi, …), breve sosta di rilassamento all’ora di pranzo con mele o banane, ricerca del campeggio nel tardo pomeriggio e cena in campeggio. Il tempo ci ha assistito e abbiamo avuto solo un paio di giornate d’acqua (l’attrezzatura ha retto).

Ovviamente la parte più suggestiva, oltre a NordKapp, è stata quella della parte alta della Norvegia a nord del circolo polare (visita a Tromso, la città di Amundsen e alle Lofoten, le isole di capitan Findus). In una delle tappe, a nord di Mö I Rana, abbiamo fatto 200 km senza incontrare nessuno e ad un certo punto sono rimasto a secco. Per fortuna eravamo a soli 50 km da Mo I Rana e il mio socio aveva ancora un po’ di benzina.

Nel ritorno (durato due settimane perché la Norvegia è molto più contorta e ricca di fiordi della Svezia) abbiamo fatto anche un po’ di turismo cittadino (Oslo, Copenhagen, Berlino) e arrivati a Monza abbiamo visto che lo Zucchi era ancora lì.


La pagina con l’indice della mia autobiografia da cui potete scegliere i capitoli da leggere


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si è abbassata l’asticella ?

Alcuni mesi fa mi è capitato di alloggiare in una casa, oggi usata come casa residenza, la cui proprietaria si chiamava Ida. Ida era una docente di greco. Ha scritto diversi libri per le scuole superiori e traduceva fluentemente dal greco all’italiano e viceversa.

Nella casa di Ida c’erano tantissimi libri. C’erano le prime edizioni dei Promessi Sposi e libri degli anni ’20 del secolo scorso, ancora rilegati a mano. Tra questi libri ho ritrovato testi scolastici che descrivevano la storia di un’Italia da alfabetizzare. Nei libri delle scuole medie si parlava di trigonometria, di seno, coseno e parallasse… a 12 anni!

Nei libri della scuola primaria si utilizzavano verbi e vocaboli che oggi ritroviamo in antologie del biennio delle superiori. E la storia e la geografia avevano pagine piene di dati e nomi.

Non sono un nostalgico e chi mi conosce sa cosa penso di quel tipo di scuola che ha selezionato tanto, lasciandone troppi indietro. E così apro i libri dei miei figli, di 8 e 11 anni. Vedo pagine piene di foto e tanti colori e poche frasi scritte, se non ad effetto, e tante schede da compilare. Vado nella sezione di matematica e scienze e, quando si parla di Universo, si riesce a passare dai pianeti alle stelle fino a citare i buchi neri in sole 8 righe, poco più di 130 parole, e anche con qualche errore concettuale (!).

Mi chiedo: quando abbiamo deciso di abbassare l’asticella? Siamo davvero sicuri che una scuola semplice sia la scuola migliore per tutti i nostri bambini e ragazzi? Siamo davvero certi che la responsabilità di tutto questo non sia nostra?

Mi occupo di robotica educativa e di didattica della fisica da quasi 20 anni. Nei miei corsi di formazione ai docenti dico subito: i miei corsi non sono semplici. Non amo girare motorini. Amo fare Scienza, Matematica, Fisica… amo raccogliere dati, discutere di energie e forze, amo progettare e fare ipotesi con metodo scientifico.

Io credo che il problema non sia lo strumento e neppure il digitale (e così sfatiamo subito un luogo comune: non è la scuola degli ultimi 20 anni ad aver abbassato l’asticella e non lo sono i suoi strumenti). E il problema non sono neppure i nostri bambini e ragazzi.

Credo che il problema sia cosa chiediamo loro di fare e cosa diamo loro. Se a un bambino di 5 anni che piange a tavola diamo in mano uno smartphone per farlo calmare oppure scegliamo di raccontargli una favola con un libro, allora facciamo delle scelte. Se a 8 anni spiego le energie e le loro trasformazioni semplificando un libro di testo già semplice o lo faccio sperimentare con pannellini fotovoltaici e qualche LED, allora faccio delle scelte.

Qualcuno ha affermato che la scuola democratica, la scuola per tutti, ha abbassato così tanto l’asticella da delegittimare la Scuola stessa nel suo ruolo di ascensore sociale. Io credo che dovremmo seriamente interrogarci su cosa vuol dire fare Scuola e iniziare a non cedere alla tentazione di banalizzare il sapere e le discipline, ma di scegliere i giusti strumenti e continuare a coltivare le grandi domande.

In quei libri di 100 anni fa c’era dietro tanta scuola che ha perso per strada migliaia di alunni. Una formula di trigonometria ha bocciato tanti ragazzi, già a 11 anni, costringendoli a scegliere tra i campi, le fabbriche o chissà cos’altro. La scuola di oggi è molto diversa e, fortunatamente, c’è più didattica, più pedagogia, più relazione. Non cediamo, però, alla tentazione di abbassare troppo l’asticella, ma alziamo sempre più le grandi domande ed utilizziamo con efficacia gli strumenti, anche quelli del nostro tempo, troppo spesso impolverati dentro gli armadi delle scuole.

Intanto sfoglio alcuni libri che la nipote di Ida mi ha donato e imparo tanto da quei testi che venivano letti e studiati da ragazzi e ragazze di 12 anni!




nessuno mi può giudicare

Racconta la cronaca che tre studentesse del Liceo classico Foscarini, hanno deciso di non rispondere alle domande della Commissione al colloquio orale della Maturità 2024 per protesta, dopo che nella loro classe sono state date troppe insufficienze alla seconda prova scritta, quella di Greco.

Una delle “rivoluzionarie” ha dichiarato: “Non accetto il vostro giudizio che non rispecchia il nostro lavoro… non tollero la mancanza di rispetto nei miei confronti”. Non è mancata un’ondata di consenso giornalistico: “Fate loro una statua! Titolate loro un’aula!”.

La realtà è stata, ahinoi, più prosaica: la Commissaria d’esame di Greco si è trovata di fronte un’intera classe impreparata e lo ha certificato. Punto. Dietro questo episodio – ma non sappiamo quanti altri – si agitano questioni di straordinaria importanza: quali i fini del “giudizio scolastico”?

Perché la crisi attuale del giudizio scolastico? Sullo sfondo sta un fatto: nel mese di giugno/luglio di ogni anno passano al vaglio di scrutini ed esami circa 7 milioni e 200 mila ragazzi. L’operazione tocca la vita di milioni di famiglie. Essa ha due facce. Quella visibile: lo Stato si rivolge alle giovani generazioni per verificare i livelli del “sapere di civiltà” acquisiti. Quella invisibile è etico-pedagogica-civile: lo Stato si pone come giudice dei loro saperi e dei loro comportamenti. Egli parla a nome della Realtà, del Mondo, della Società, dell’Altro… I giudizi sono formulati dagli insegnanti, singoli e riuniti in Consigli di classe o Commissioni, la cui composizione dipende da una serie di variabili, tra cui la qualità e le competenze variabili degli insegnanti.

Nella personale interpretazione delle tre ragazze, invece, titolare del giudizio non è più il Commissario d’esame, ma l’IO stesso: io sono l’unico giudice di me stesso. Il Mondo è solo lo specchio dell’IO e l’IO deve essere immediatamente gratificato, sempre. Un IO perennemente in ansia. Per la descrizione di questa sindrome narcisista rimandiamo qui al libro di Ch. Lasch del 1979, tradotto nel 2001 con il titolo: “La cultura del narcisismo. L’individuo in fuga dal sociale in un’età di disillusioni collettive”.

I docenti che si trovano davanti i ragazzi della Generazione Zeta conoscono benissimo questa sindrome. Nasce in famiglia, si sviluppa nella società, si esaspera attraverso i mezzi di comunicazione, retroagisce in famiglia, si ratifica a scuola. Attraversa l’intera società. È il nuovo “spirito del tempo”.

La crisi della valutazione

Ora, la tendenza crescente dei corpi docenti, delle scuole e del Ministero è quella di adeguarsi al nuovo “spirito del tempo”. Ciò ha comportato la riduzione progressiva della quantità di “sapere di civiltà” ritenuto fino a qualche decennio fa necessario dalla società per la propria riproduzione. Ma, soprattutto, ha provocato l’abbassamento dell’asticella del giudizio.

Il “benessere” del ragazzo è diventato il criterio di giudizio prevalente. D’altronde, chi glielo fa fare ad un insegnante di opporsi alla corrente facilista, quando le famiglie – i clienti! – i presidi, i giornalisti, i giudici dei TAR, i politici premono per evitare ansie, frustrazioni, crisi di panico, depressioni galoppanti, anoressie ai nostri figli e nipoti?

Una conseguenza è che non esiste più, o sempre meno, un criterio unico nazionale di giudizio: varia da territorio a territorio, da Nord a Sud, da indirizzo scolastico all’altro, da una scuola autonoma all’altra. Quando si arriva alla Maturità, le Commissioni si presentano sì armate di Indicazioni generali, ma, alla fine, se un ragazzo non è stato portato dal docente oltre il 1945 – per prendere un esempio frequentissimo in Storia – la Commissione che cosa può fare?

E se non è stato portato a saper tradurre Platone, ma eventualmente solo la più facile Anabasi, la Commissione che cosa può farci? E se un/una docente commissaria si ostina a segnalare che il ragazzo di fronte non è capace di dire quando è avvenuto lo sbarco in Normandia, che cos’era il CLN, quali erano le forze presenti nell’Assemblea costituente, il minimo che gli/le può capitare è di finire sui giornali con l’accusa di sadismo o l’invio di un ispettore da parte degli organi competenti.

Quale che sia la disciplina posta sotto giudizio, il panorama del giudizio che si stende davanti ai nostri è “a desolazione crescente”. I Lettori sono in grado di valutare se tutto ciò abbia a che fare con l’analfabetismo funzionale crescente, con una selezione avversa della classe dirigente politica, con l’aumento degli Scrittori e la diminuzione dei Lettori, con la caduta complessiva della quota di saperi nella società e con il corrispettivo aumento dell’ignoranza presuntuosa.

Un Sillabo delle conoscenze e un’Agenzia nazionale di certificazione

Che fare, se il percorso epistemologico della costruzione del giudizio è franato tanto nella Società quanto nella Scuola? Che fare, se si è diffusa largamente l’idea che la Realtà è una variabile dipendente dell’IO? Una risposta del realismo storico – al limite del cinismo – è: non lamentatevi, il ciclo storico dell’Occidente europeo è ormai posto su un clinamen, direbbero Epicuro e Lucrezio. Se la nostra civiltà diventa materiale di costruzione per altre civiltà, pazienza! Tuttavia, chi ha figli e nipoti, si ribella al cinismo della ragione storica, perché l’idea dell’uomo libero/responsabile come impasto di intelletto e volontà, capace di fare la Storia, continua ad essere il fondamento spirituale della nostra civiltà.

Serve, in primo luogo, un Sillabo nazionale/europeo delle conoscenze necessarie per vivere nel mondo presente. I nostri ragazzi camminano nel presente, ma non sanno realmente a quale secolo appartenga. La verifica dei livelli di conoscenze acquisite deve essere sottratta all’anarchia valutativa delle Commissioni. Occorre un’unica Agenzia nazionale di certificazione, alla quale far pervenire gli scritti per la correzione, alla quale far elaborare test ecc…

L’Agenzia deve solo “verificare” sulla base del Sillabo. Non deve “bocciare” nessuno, non deve “fermare” nessuno, non deve dichiarare “maturo” nessuno. Deve solo dire a un ragazzo/a la verità sui suoi personali livelli di acquisizione. Il nucleo di tale Agenzia esiste già: è l’INVALSI, agenzia indipendente di valutazione dalle scuole e dal Ministero. Basterebbe aumentarne il ventaglio delle competenze e dotarla dei mezzi necessari. Già ogni anno l’INVALSI elabora giudizi e graduatorie affidabili, che vanno, non a caso, in controtendenza rispetto ai giudizi delle Commissioni di maturità.

In secondo luogo, è necessario prendere atto che sotto il vestito del valore legale del titolo di studio non c’è ormai più nulla, salvo le fortune dei diplomifici e dei laureifici. È necessario togliere di mezzo l’inganno del valore legale, che non è più né un fine né un mezzo, per consentire a ciascun ragazzo di vedersi così com’è. È dunque solo al Mercato che ci si deve affidare, visto che lo Stato è ormai inaffidabile? La risposta è appunto un’Authority-Agenzia indipendente dallo Stato e dal Mercato. Di lì in avanti scatta il principio di libertà/responsabilità per tutti, a partire dai “maturi”.

C’è un’alternativa, intanto, che stiamo già praticando: scivolare lentamente lungo il clinamen. Una società che non vuole valutare e valutarsi in base al principio di Realtà è destinata all’estinzione.




esami e commissari inadatti

Una studentessa di Venezia fa scena muta alla Maturità. Le cronache dicono che sia una ragazza molto preparata, promessa dell’Atletica Leggera italiana, già ammessa a un’Università americana con borsa di studio per meriti sportivi.

Due sue compagne di classe si sono unite alla protesta di non parlare all’esame. Nessuna di loro rischia la bocciatura perché sono ragazze di buon livello scolastico che hanno già totalizzato sufficienti crediti per la promozione. Le ragazze protestano contro il trattamento offensivo della Commissaria di Greco che pare abbia valutato le prove scritte con criteri inaccettabili.

Le notizie giornalistiche parlano di probabili conflitti fra la docente e la Commissione, motivati anche da precedenti comportamenti conflittuali della stessa insegnante chiamata anni fa alla Maturità nella stessa scuola. Piccole faide sulla pelle degli studenti…

Sono notizie frammentarie che impediscono di prendere una posizione. Però l’episodio è un’occasione per la scuola (…del Merito?) per riflettere sui casi di insegnanti “inadatti all’insegnamento”. E’ un segreto di Pulcinella, noto a tutti gli insegnanti, che esiste una piccola percentuale di colleghi “problematici”.

Dietro a questa parola innocua si nascondono situazioni di incapacità professionale, di vera e propria ignoranza nella materia insegnata, di comportamenti inaccettabili con studenti e colleghi… Tutti gli insegnanti conoscono almeno un/a collega “problematico/a” per varie motivazioni: mancanza di equilibrio psicologico, problemi di depressione, aggressività, frustrazioni professionali o famigliari, menefreghismo, fancazzismo…

Si tratta di piccole percentuali di insegnanti, ma in un sistema rigido basta un granello di polvere… Sono problemi presenti in tutti gli ambienti di lavoro, ma la scuola ha alcune specificità che li amplificano e rendono drammatiche situazioni altrove risolvibili. Perché? Insegnare significa recitare in classe di fronte a un pubblico ipercritico costituito da decine di adolescenti. Ognuno di loro è “problematico” per vari motivi e ha tanta voglia di misurare sé stesso/a tramite il confronto competitivo con l’insegnante-adulto/a.

E’ una piccola bomba a orologeria che ogni insegnante deve disinnescare tutte le mattine. Purtroppo gli insegnanti non hanno frequentato né l’Accademia di Arte Drammatica né la scuola militare per Artificieri Disinnescatori… In questa situazione è difficilissimo mantenere sempre un equilibrio professionale inevitabilmente contaminato con forti relazioni personali, spesso conflittuali, fra ruoli diversi. Gli insegnanti più deboli cedono.

Alcuni di loro attivano comportamenti pseudo-adolescenziali (gli “amiconi” degli studenti). Altri reagiscono con aggressività di fronte alla continua messa in discussione del proprio ruolo. Altri ancora si rifugiano in una presunta professionalità asettica priva di qualsiasi risvolto umano. Ognuno reagisce a suo modo e gli studenti imparano a comportarsi in modo diverso con ogni singolo insegnante (molti ragazzi meriterebbero la Laurea in Psicologia honoris-causa!).

In qualche caso questo disagio del/la docente esplode in comportamenti inaccettabili, ma la scuola non ha strumenti per combattere contro queste patologie professionali. Il “posto fisso”, da diritto del lavoratore si trasforma in privilegio statico ai danni dell’utenza, sostenuto da rigidità sindacali che nulla hanno a che vedere con i diritti sociali.

Non solo in Italia è praticamente impossibile licenziare un insegnante incapace, ma di fatto non è neanche possibile attribuirgli una valutazione professionale. I sindacati si sono sempre opporti a qualsiasi forma di valutazione dei docenti perché “divide i lavoratori”.

Forse non conoscono la scuola francese, con gli insegnanti ipervalutati e soggetti a notevoli differenziazioni salariali. Quando scioperano, gli insegnanti francesi sono estremamente uniti e fanno tremare il loro Governo. In Italia, invece, qualcuno ricorda quando c’è stato l’ultimo sciopero della scuola che ha coinvolto più del 10% degli insegnanti?

La realtà è che il nostro finto egualitarismo è la peggiore forma di differenziazione e divisione interna del corpo docente. Quando lo capirà anche il sindacato? Come fanno a liberarsi dai docenti “inadatti” i tantissimi docenti e Presidi che tengono molto alla formazione degli studenti?

Il metodo più usato per liberarsi di questi pochi docenti-zavorra ha un nome: si chiama mobbing. E’ una pratica illegale, ma è l’unica efficace per isolare questi docenti, a volte semplicemente fancazzisti, e convincerli a cambiare scuola. Si può pensare che questa “mobilità da mobbing” sia un inutile processo a somma zero che lascia invariata la percentuale di inadatti nelle singole scuole (…ne mando via uno e me ne arriva un altro mandato via dall’altra scuola!).

In realtà è un processo a direzionalità privilegiate, con maggiori spostamenti dai Licei verso i Professionali che viceversa. Il motivo è che nei Licei l’utenza è molto attenta alla Formazione degli studenti e ha strumenti di moral-suasion per “invitare” i docenti-zavorra ad alzare il culetto e sparire.

Invece nei Professionali l’utenza è più attenta alla Certificazione, sia per esigenze materiali sia per debolezza culturale che limita le capacità critico-valutative. Per queste ragioni in queste scuole è più raro il caso in cui l’utenza si organizza in forme di protesta collettiva simili a quelle messe in atto dai genitori e dagli studenti dei Licei.

Il risultato sotto gli occhi di tutti (almeno quella parte dei tutti che ha gli occhi e che li tiene aperti) è una concentrazione maggiore di docenti “inadatti” negli Istituti Professionali, mentre nei Licei è più raro che questi casi necrotizzino in patologie di lunga durata.

Anche questa è una prova che il nostro finto egualitarismo non solo non difende la categoria degli insegnanti, ma è anche motivo di negazione del diritto all’istruzione per le classi sociali più svantaggiate.
Non ho dubbi che in Italia esista un’enorme esigenza di avere un serio Ministero del Merito. Ho però forti dubbi che quello che abbiamo sappia assolvere questo compito egualitario.




1977-1987: il Frisi, la scienza e la sua filosofia

III edizione – giugno 2024

Il mio primo ingresso al Liceo Scientifico Frisi di Monza fu alla fine di gennaio del 1977, nell’ultimo giorno utile per essere pagato d’estate. Visti i ritardi nelle nomine per i nuovi incarichi di insegnamento, avevo deciso di incominciare a muovermi autonomamente alla ricerca almeno di una supplenza.

Dopo aver lasciato il quotidiano ero a casa a non far nulla da oltre tre mesi perché il provveditorato di Milano ritardava le nomine. Le fece poi a maggio rendendole valide, per il 76/77, solo dal punto di vista giuridico. Telefonavi, andavi in Provveditorato e ti sentivi preso in giro: domani, dopodomani, non sappiamo, …A inizio ottobre avevo rifiutato una proposta di supplenza annuale al Liceo Scientifico di Melzo giuntami da una compagna di università che faceva la Preside incaricata e chi mi sapeva in attesa di impiego. Avevo rifiutato nella illusione di una imminente chiamata ufficiale perché quando inizio un lavoro mi piace finirlo.

Pace, la Battistina e Santanbrogio

In quei mesi, da brianzolo doc, mi sentii molto a disagio nel rimanere a casa non far nulla e mi resi conto di come la condizione di disoccupato corrompesse l’anima; di come il lavoro, con le sue scadenze, i suoi ritmi e i suoi doveri, fosse importante nell’equilibrio psico-fisico di una persona. Forse questa è una delle ragioni per cui, quando vedo in televisione i nostalgici del reddito di cittadinanza sognare di vivere nel limbo per tutta la vita mi vengono le convulsuioni.

Al Frisi fui ricevuto dal professor Pace nell’atrio davanti alla segreteria dove stava il tavolo di comando della Battistina (la capobidella). Pace faceva il vicepreside, ma non voleva sentir parlare di esoneri dall’insegnamento. Lo faceva e basta, come servizio alla comunità. C’era l’intervallo e mi fece impressione una cosa cui non ero abituato dopo l’esperienza di qualche anno prima all’ITIS di Sesto. Suonò la campana di fine intervallo e vidi gli studenti che, da soli, risalivano le rampe di scale e rientravano nelle classi. Per me era una cosa incredibile.

Due parole sulla Battistina. Credo che, dal punto di vista normativo e di inquadramento il capo-bidello non esistesse, ma si trattava di una funzione importante per il Frisi. Chiunque entrasse, dopo essere passato al controllo del custode Santanbrogio, saliva al primo piano e veniva accolto dalla efficientissima Battistina: fogli volanti, telefonate interne e tutto girava come un meccanismo ben oliato.

Alla sua sinistra c’era l’atrio del primo piano, di fronte la sala professori e, alla sua destra, la segreteria, la vicepresidenza e la presidenza. E già che parliamo di bidelli non si può tacere del custode. Era il padrone della scuola fuori dagli orari canonici, voce roca e potente, conosceva uno per uno tutti gli studenti e abitava in un mini appartamento di fronte alla guardiola del centralino, insieme ad una numerosa famiglia.

Curava la bellezza degli spazi esterni, i fiori e la sicurezza notturna con un paio di canilupo che presidiavano il territorio negli orari di chiusura. Erano due personaggi amati e rispettati da tutti: studenti, professori e restante personale. Se si vuole che una scuola sia in ordine è un bene prevedere un custode che ci abiti e che la senta come casa sua.

il Frisi del Preside Tedesco

Il Preside Tedesco in una delle espressioni esortative e dialogiche che lo contraddistinguevano

Dopo essere stato vagliato da Pace ebbi modo di conoscere il preside, il professor Alfonso Tedesco, un signore dai capelli grigi e dal viso rosso, distinto e pacato, professore di Italiano e Latino.

Tedesco era imparentato con la nobil famiglia dei Galbiati. Aveva sposato Felicetta, preside di scuola media, sorella maggiore di Enrica Galbiati, che allora insegnava lì nel corso B matematica e fisica. Era di origini emiliane, ma stava a Monza da una vita e, prima di fare il Preside, aveva insegnato allo Zucchi Italiano e Latino. Tedesco, con la collaborazione di Carlina Mariani, dirigeva l’UCIM (unione cattolica italiana insegnanti medi).

L’establishment reazionario monzese considerava Tedesco un debole perchè era di idee cattolico democratiche e dialogava con gli studenti. Alla distanza il suo ruolo è stato riconosciuto e l’aula magna del Frisi, grazie ad un comitato di cui ho fatto parte anche io, è stata intitolata al suo nome.

Nel primo incontro mi spiegò che dovevo sostituire la professoressa Lina Saini (che era alla quarta o quinta gravidanza), nel triennio del corso C e dunque avrei avuto Pace come collega oltre alla professoressa Canzi-Amirante di lettere. Non avevo mai visto un liceo dall’interno ma, negli anni di università, avevo dato lezioni private a tanti studenti del Frisi e dunque sapevo quasi tutto sul programma tradizionale di matematica che svolgevano: i problemi con discussione secondo il metodo di Tartinville, le disequazioni, il debordante programma di trigonometria e poi, ovviamente, l’analisi matematica.

in classe

Edo Scioscia durante la autogestione del 78

Senza che altri si offendano, ricorderò di quel primo anno quattro studenti: Maria Scognamiglio di terza, una ciellina underground della serie spiriti liberi, Camozzi, leader  del gruppo promotore (insieme ad Alberto Zangrillo, il futuro medico di Berlusconi, oggi primario al San Raffaele).

Il gruppo promotore raggruppava gli studenti di destra (filo Giornale di Montanelli). Poi c’erano in quarta Edo Scioscia leader incontrastato della assemblea, militante del MLS che, uscito dal Frisi avrebbe messo in piedi il Libraccio, e in quinta Adriano Poletti che più tardi averebbe fatto lungamente il sindaco di Agrate Brianza (e che è morto nel 2023).

Nonostante fossi un supplente diedi qualche taglio personale al programma di matematica e fui anche fortunato. Da anni il principale quesito dello scritto di matematica proponeva con una certa regolarità lo studio di funzione formata da una combinazione lineare di seni e coseni. Erano paginate di conti se si usavano metodi i tradizionali per via delle numerose disequazioni trigonometriche da risolvere.

Ma da fisico sapevo (per via della teoria delle onde armoniche) che una combinazione lineare di seni e coseni corrisponde sempre ad una sinusoide traslata. Feci loro la dimostrazione di quel teorema e insegnai a fare lo studio di funzione in un quarto d’ora (senza usare le derivate) invece che in due ore di conti. Alla maturità uscì proprio quello e non si corse il rischio di fraintendimenti perché gli studenti mi avevano voluto come membro interno. Fu un successone per quelli della C.

collegio docenti e gestione del Liceo

immagini di una assemblea durante la autogestione del 78

Ero supplente ma, per via dei trascorsi, non ero di quelli che si nascondono nel sottoscala, e dunque già al secondo Collegio iniziai ad intervenire.

Il Collegio del Frisi era formato da una agguerrita minoranza di docenti difensori della scuola tradizionale (Moretti, Derla, Spelta, Galbiati, Riva, …), da una maggioranza che noi docenti progressisti definivamo la palude e che amava il quieto vivere (il progresso senza avventure di memoria democristiana), da una minoranza di docenti di sinistra, di varia estrazione che si caratterizzavano per la ricerca delle innovazioni e per il dialogo con gli studenti (Russo, Longo, Cedrazzi, Meroni, Colonnetti, Tedesco, Stefanelli…).

Negli anni successivi la nostra pattuglia si rafforzò con l’arrivo di due colleghe di filosofia, colte e vivaci, provenienti dallo Zucchi (Fabbri e dell’Aquila) e della professoressa Mariagrazia Zanaboni (la Monaco, si diceva allora) di lettere.

Il Preside Tedesco, da buon democristiano, si appoggiava sul centro prendendo a prestito qualche idea della sinistra e puntando a smuovere il pachiderma, ma con giudizio.

articolo del Cittadino in ricordo del professor Tedesco

Dopo la fine dell’anno scolastico, ottenni ope legis la stabilizzazione e, poiché ero abilitato, l’incarico a tempo indeterminato mi  aprì immediatamente la strada all’ingresso in ruolo. Ero un prof engagé e dunque, l’anno successivo fui eletto collaboratore del Preside, consigliere di istituto e consigliere di distretto cose che mi impegnarono per un po’ di anni.

Nel 77/78 l’elezione dei collaboratori fu un vero successo. In passato la palude ci offriva, bontà sua, un posto nel listone unico, e a volte nemmeno quello. Proponemmo una lista contrapposta con tanto di programma e l’elezione ci premiò. Sfidammo la palude ad esplicitare il loro programma, ma non andarono oltre la sottolineatura dello spirito di servizio. Non arrivammo primi, ma comunque finì 2 a 2 tra lo sconcerto dei professori più conservatori. La stessa operazione la feci, anno dopo, appena arrivato allo Zucchi (liste separate, programma, esplicitazione del dissenso, …).

In quell’anno ci fu una specie di autogestione concordata, cioè con partecipazione libera dei docenti ad attività di approfondimento miste (autogestite o coordinate da docenti). Tedesco usò a piene mani me e Fiammetta Cedrazzi come ambasciatori del punto di vista degli adulti (fare le cose per bene, organizzarsi, garantire la democrazia, …).

Tra i docenti ci fu una netta spaccatura all’interno della maggioranza anche con qualche momento di tensione e si determinarono numerosi chiarimenti all’interno della palude tra chi partecipò e chi si schierò con la minoranza più conservatrice che aveva adottato la linea del boicottaggio.

intervento durante un collettivo – al mio fianco Edo Scioscia e sullo sfondo Colonnetti (Filosofia) e Claudio Fontana un alunno futuro docente di filosofia

L’autogestione funzionò bene grazie all’impegno di alcuni quadri del Movimento Studentesco che si impegnarono perché restasse il segno. Il clima politico tra gli studenti era variegato: MLS (dominante), FGCI, autonomia operaia, CL, destra (gruppo promotore). Non era ovvio che le cose andassero bene, ma riuscimmo a tenere insieme la maggioranza della scuola nonostante gli strepiti della parte più retriva del corpo docente.

Erano gli anni del sequestro Moro e anche sul fronte studentesco, come nel resto del paese, emergevano spinte centrifughe verso il mondo della autonomia, contiguo al terrorismo. Vista la mia storia precedente mi sentivo un po’ responsabile e dunque l’impegno per la democrazia e la difesa senza se e senza ma delle istituzione democratiche fu esplicito e con un grande coinvolgimento anche emotivo.

una revisione culturale profonda

In quegli anni si discuteva ancora del carattere gentiliano della nostra scuola e della necessità di superare la cosiddetta cultura retorico umanistica di derivazione crociano-gentiliana per puntare ad una scuola in cui ci fosse un mix tra la tecnologia (di cui si vedeva l’inizio di una grande fase espansiva) e il cosiddetto asse storico-critico-scientifico. Erano anni in cui, con riferimento alla scuola, non ci si limitava a discutere di modalità di gestione o di organizzazione ordinamentale, ma ci si appassionava e si entrava nel merito di modelli culturali di insegnamento. Tutte cose che ora sonoo scomparse e al loro posto c’è solo la autonomia malriuscita.

Non tanto per non essere da meno, ma perché ci credevo, iniziai un complesso e profondo lavoro di trasformazione delle mie convinzioni di fondo mettendo al centro dei miei studi tre cose.

lo studio critico delle scienze dure

Mi impegnai nel rivedere e ristudiare la scienza e in particolare la logica, la matematica e la fisica con approfondimenti di tipo universitario su questioni di base su cui non avevo riflettuto a sufficienza negli anni di università. Per poter insegnare bene e ad un certo livello bisognava che avessi le idee molto chiare sui fondamenti.

Per la fisica utilizzavo, per me e per gli studenti più vivaci intellettualmente, L’indagine del mondo fisico di Giuliano Toraldo di Francia (1916-2011), di cui trovate qui la recensione. Si tratta di un testo nato dalle lezioni tenute da Toraldo ad una scuola di specializzazione per filosofi interessati alla scienza presso l’Università di Firenze. Il testo percorre tutta la fisica con un occhio sempre attento alla storia e alle implicazioni conoscitive delle leggi ed è stato il modello a cui mi sono ispirato nello scrivere il mio corso di Fisica.

Nell’insegnare la matematica, sin dalla terza, tenevo presente che il punto di arrivo era l’analisi matematica e dunque c’era una attenzione agli aspetti di natura concettuale e ad una visione in cui la matematica, anche negli esercizi, fosse vista come una cosa dinamica.

la storia della scienza

Non ci può eessere comprensione dei fondamenti della scienza senza conoscere il contesto in cui sono nate e si sono sviluppate le teorie; dunque storia della scienza nei suoi aspetti sia descrittivi sia metodologici appoggiandomi, come riferimento, ai 7 volumi della storia del pensiero filosofico e scientifico di Ludovico Geymonat, ma conducendo poi approfondimenti di tipo monografico su questioni che mi stavano a cuore o che nascevano dalla esperienza di insegnamento (la storia della termodinamica, la evoluzione dello status dei tre principi della dinamica, la storia e il significato del concetto di campo, la nascita e la evoluzione del concetto di energia, …).

In quegli anni, oltre al geymonattone citato era disponibile, da Feltrinelli una bella collana di testi di storia della fisica che presentava in traduzione il meglio della produzione anglosassone (ne trovate un sunto in coda a questo capitolo).

la filosofia della scienza

Al di là della passione emersa negli ultimi anni di università, mi resi conto che ero profondamente ignorante su questioni fondamentali della cultura europea del 900 e in particolare sulla grande rivoluzione dell’emopirismo e del neo-empirismo (detto anche neopositivismo o empirismo logico).

Mi buttai a capofitto nello studio dei principali pensatori leggendone direttamente le opere e senza fidarmi di sunti o manuali: Moritz Schlick, Philip Frank, Hans Reichenbach, Rudolph Carnap, Friedrich Waissman, sir Karl Raymond Popper, Imre Lakatos, Paul Feyerabend, Orman Quine. Girando per librerie e bancarelle mi sono fatto una biblioteca invidiabile delle loro opere; alcuni testi di Reichenbach, in inglese (uno di calcolo delle probabilità e uno sulla freccia del tempo) li ho acquistati nel 91 a New York durante un viaggio negli USA.

Qualche studente della mia quinta M del 77/78 si ricorda, con sconcerto, l’utilizzo di temi su questioni di carattere metodologico per le valutazioni di fisica a partire da una frase criptica di Max Planck, Ludwig Boltzmann o Werner Heisenberg sulle quali veniva richiesto di sviluppare il tema. Naturalmente si trattava di problematiche che erano state sviscerate a lezione. Qualcosa del tipo “anche nella scienza, come nella religione, non si è beati senza la fede; la fede in una realtà esterna a noi” e via di questo passo.

Questo lavoro di riflessione e contatto sui classici è proseguito negli anni, sempre leggendo (per la scienza e per la riflessione metodologica), le opere originali. Mi dedicai a Boltzmann, Maxwell, Planck, Einstein, Heisenberg, Bohr, Poincarè. Anche in questo caso, oltre ai classici della UTET (Maxwell, Ampere, Newton, Laplace, Helmholtz, Kelvin), sulle bancarelle riuscii a recuperare le vecchie edizioni blù della Boringhieri e le precedenti della Einaudi scientifica (1945-1950). I classici della UTET li acquistai a condizioni molto favorevoli da Fiammetta Cedrazzi che, in uno dei suoi traslochi, aveva deciso di disfarsene.

Come scrisse Lakatos e amava ripetere Geymonat “la filosofia della scienza senza la storia della scienza è vuota, la storia della scienza senza la filosofia della scienza è cieca”. Aggiungo che entrambe servono a dare un senso e a comprendere i fondamenti della scienza, senza i quali non c’è conoscenza ma solo nozionismo.

Mi furono di stimolo anche la Enciclopedia Einaudi pubblicata proprio in quegli anni e un libro Einstein scienziato e filosofo facente parte di una collana (Scienziati e filosofi viventi, a cura di Schlipp) di cui in Italiano sono stati pubblicati solo i libri dedicati ad Einstein e Carnap.

I testi di questa collana iniziano tutti con un saggio di taglio autobiografico-scientifico-culturale scritto dall’interessato e, su di esso intervengono i più grandi scienziati e filosofi della scienza dell’epoca.

Alla fine l’interessato chiude rispondendo alle suggestioni e ai rilievi dei suoi critici. Quello su Einstein è un vero capolavoro e, per fortuna, è stato ristampato da Boringhieri.

Un discorso a parte riguarda la collana di Filosofia della Scienza della Feltrinelli curata da Ludovico Geymonat che avevo conosciuto nel 1969 in occasione dell’esame di filosofia della scienza (Ernest Nagel, la struttura della scienza – problemi di logica nella spiegazione scientifica). Di Nagel è disponibile (presso Boringhieri) anche un bel libriccino dedicato al teorema di Gödel, il teorema dedicato alla indecidibilità delle proposizioni rimanendo all’interno di una medesima teoria (si può dimostrare che la matematica sia esente da contraddizioni?).

Ricominciai da quel malloppo di 650 pagine senza più l’ansia di doverci fare sopra l’esame e mi misi alla ricerca degli altri volumi della collana (ne ho una ventina e ne trovate l’elenco alla fine del capitolo). Al Frisi con gli studenti più bravi lavorammo su un testo di Enrico Bellone I modelli e la concezione del mondo nella fisica moderna da Laplace a Bohr e sulla Filosofia dello spazio e del tempo di Hans Reichenbach tutto dedicato alle implicazioni della teoria della relatività nella teoria della conoscenza.

Lo studio critico della scienza mi ha abbastanza trasformato facendomi rivedere e approfondire questioni come la verità, la razionalità, il fallibilismo; ho abbandonato definitivamente l’idea del socialismo scientifico e del marxismo salvandone solo la capacità di leggere e interpretare la storia.

Se ripenso a quegli anni mi viene da sorridere al pensiero che i professori più rozzi e le famiglie monzesi più retrive mi considerassero un pericoloso rivoluzionario comunista. Mi nutrivo della cultura europea e statunitense più avanzata e cercavo di farla apprezzare agli studenti, ma in tutto il mondo il maccartismo è duro a morire e poi, per certa gente, la cultura è una cosa che va presa solo in piccole dosi perché potrebbe fare male.

qualche ricordo frisino

i rientri pomeridiani

Carletto Pozzoli e Dario Giove da ragazzi prima di diventare dei fisici con una bella carriera alle spalle

Fuori della scuola, si fece a casa mia anche un piccolo seminario con tre studenti (Dario Giove, Carletto Pozzoli, Elisabetta Galbiati) che, usciti dal Frisi si iscrissero a Fisica. Leggevamo e discutevamo insieme le Lectures on Physics di Feynman e io cercavo di trasmettere loro il modo giusto di studiare all’università, quello che a me non avevano insegnato.

Per fortuna nella scuola non c’erano tutte quelle forme di sindacalizzazione al ribasso che sono emerse negli anni successivi, quando andai a lavorare nel privato. Così se si faceva qualche ora in più nel pomeriggio la si faceva gratis fermandosi per un panino e una partita a Tressette al circolino di via Sempione.

Di pomeriggio facevo due attività; un po’ di laboratorio di Fisica, nel laboratorio del III piano, con esperienze avanzate ma di tipo dimostrativo e la discussione critica di saggi sulla scienza utilizzando la disponibilità della biblioteca che, sull’argomento, era ben fornita. Queste attività erano aperte anche ad alunni di altre classi. Disporre di una pompa a vuoto, di rocchetti di Rumkhorf, di tubi a vuoto permette di fare cose molto belle e suggestive sia dul fronte dei raggi  X e catodici, sia su quello della termodinamica come far bollire acqua a temperatura ambiente, osservare che mentre bolle si raffredda, …

Nei primi anni, nel corso M, ricevevo in III gli studenti che avevano fatto il biennio alla succursale di Villasanta e che venivano da tutta la zona a nord di Monza sino a Casatenovo. Mi piacevano quelle classi di brianzoli doc spartani, concreti e anche bravi. Cosa del tutto eccezionale, eravano in ben 5 docenti maschi:  Meroni, Colonnetti, Cereda facevano la triade e poi c’erano anche Fontana (educ) e Bevilacqua (inglese) che, dopo le dimissioni di Pace, era diventato vicepreside.

La 5M era nell’aula di fronte alla Presidenza (dove ora c’è la segreteria amministrativa) e il povero Tedesco si prese anche qualche scherzone goliardico da parte dei più sciamannati (leggi Fiorenzuoli): per esempio un ordine di pasticcini fatto passare come ordine della Presidenza regolarmente consegnati e rimasti da pagare.

Poi sono passato nel corso L e, nel giro di qualche anno, ho incominciato a sentirmi sottoutilizzato. Tedesco era andato in pensione e la gestione successiva, un po’ sciatta e improntata alla pura amministrazione dell’esistente, non mi entusiasmava.

il nemico del Papa

dal sito de Il Cittadino di Monza e Brianza

Nel 1983 sono salito agli onori del pulpito di Villasanta, anche se l’ho saputo solo qualche anno dopo. Il 21 maggio ci fu la visita di papa Woytila all’autodromo di Monza. I presidi delle scuole monzesi decisero che le lezioni si sarebbero svolte regolarmente pur consentendo una sorta di via libera alle assenze studentesche.

In una classe avevo programmato da tempo un compito in classe e non lo rinviai pur chiarendo che chi l’avesse saltato, come facevo solitamente, non avrebbe avuto problemi, salvo rifare il compito. Era la stessa linea che usavo per le assenze politiche, sei libero di scioperare o andare in manifestazione ma poi il compito lo rifai.

A distanza di anni mi è stato riferito che don Bruno Perego, coadiutore del Parroco all’oratorio maschile di Villasanta e organizzatore dei ciellini al Frisi, fece, dal pulpito, in occasione di una messa domenicale, una filippica contro di me: pensate …  un professore, dirò di più … un nostro concittadino, ha impedito che … Sembra che un bel po’ di persone abbiano pensato a Meroni, più noto di me in paese. Mah, robe da chiodi.

Mentre per fisica rinviavo ai classici che ho citato, e solo episodicamente mi avvalevo di miei appunti, per matematica (geometria analitica, goniometria, elementi generali di analisi) avevo messo a punto delle dispense abbastanza complete e che ho ancora, rigorosamente scritte a mano e che venivano fotocopiate usufruendo del monte fotocopie di cui ogni classe disponeva. Lo stesso valeva per la correzione dei compiti in classe (gli antenati di quello che trovate ora sul sito).

gli esami di maturità

La prima parte dell’estate la si passava facendo gli esami di maturità o da membro interno o da commissario esterno. Quell’esame era una cosa utile per la formazione degli studenti e per la cultura dei docenti che avevano l’occasione di andare in giro per l’Italia e farsi una esperienza diretta sul funzionamento della nostra scuola (conoscenza di colleghi con storie e culture diverse, scambio di esperienze).

Per questa ragione non mi sono mai tirato in dietro; ho fatto più volte il membro interno e sono stato da esterno a Milano, Bergamo e Roma. Un anno avemmo come presidente un preside di scuola media, il professor Bertè, il padre di Loredana Bertè e di Mia Martini, poco generoso nei giudizi su quelle figlie che per lui erano delle scapestrate di cui si vergognava.

In quegli anni la prova scritta di matematica aveva un testo con proposta di 4 quesiti e veniva richiesto di affrontarne almeno due. Un problema di geometria analitica orientato all’analisi, due problemi di analisi sullo studio di funzioni e una domanda di teoria. La domanda di teoria era il salvagente dei somari che piazzavano il libro di testo da copiare in tutti i nascondigli possibili dei servizi igienici.

Nel 78 la domanda di teoria riguardava il teorema sulla “continuità delle funzioni derivabili“. Se una funzione ammette in ogni suo punto retta tangente, non può fare salti o avere spigoli. Ma lo studente che aveva letto frettolosamente lo Zwirner nei servizi igienici ci mise del suo, scambiò l’ipotesi con la tesi e scrisse “se una funzione è continua allora è derivabile” e passò a metà classe l’enunciato sbagliato con la dimostrazione (copiata) giusta.

Per capire l’errore basta pensare che se una funzione fa un angolo è continua ma lì non ammette retta tangente. E’ un controesempio semplice. Ero stato nominato commissario esterno  dopo lo svolgimento della prova e dunque non avevo assistito al fattaccio, ma scripta manent e mi ritrovai a dover valutare compiti scritti fotocopia l’uno dell’altro con un doppio errore: errore nell’enunciato del teorema richiesto, errore logico nel presentare una dimostrazione che non dimostrava quanto dichiarato ma il teorema inverso. Non fui tenero con quella classe di un liceo milanese.

l’informatica

Passavano gli anni (1986) e sentivo il bisogno di fare qualcosa di diverso; avevo iniziato ad introdurre a scuola l’Informatica (c’erano l’ MSDOS e i primi Pc) e l’occasione mi fu data dal reincontro con Oskian che non sentivo più dai primi mesi del 77.

Ci rivedemmo in occasione di una vicenda, per lui,  molto spiacevole e per me incredibile. Dopo che ce n’eravamo andati da AO lui era rimasto formalmene proprietario della Grafica Effeti dove si stampava il Quotidiano dei Lavoratori. Lo era diventato in quanto segretario politico.

Alla Grafica, che stampava il QdL per conto di Democrazia Proletaria ci fu un incidente sul lavoro in cui un tipografo ci rimise la mano. C’erano, al di là della vertenza in sede civile, anche aspetti di natura penale che ricaddero su di lui. Era tra lo sconcertato e l’incazzato perchè il gruppo dirigente di DP che gestiva la tipografia aveva deciso di fare il pesce in barile.

Lui era alla ricerca di qualcuno disposto a testimoniare che, al di là dell’aspetto formale sulla proprietà, dalla primavera del 77 non c’entrava più nulla con la Grafica Effeti. In quel periodo era a Roma e faceva il vicesegretario del Pdup. Non so come riuscì a mettersi in contattocon me e così ci si rivide e testimoniai su quegli aspetti. Tutti gli altri erano spariti e i responsabili tacevano per convenienza.

Aveva una società che stava passando dalla attività di consulenza a quella propriamente informatica (la SISDO) e mi propose di lavorare con lui. Se ne parla ampiamente nel prossimo capitolo. Eravamo a metà degli anni 80 e incominciai, un paio di pomeriggi alla settimana, ad andare a MIlano, in viale Bianca Maria, pagato sostanzialmente per studiare (un po’ di informatica e un po’ di marketing).

Nel corso dell’86 incominciò ad introdurmi più a fondo nell’azienda che, allora, si occupava di Informatica gestionale su piattaforme PDP-VAX della Digital. Avevo compiuto i 40 anni e mi dissi che quello era l’ultimo momento per mollare tutto e cambiare. Fu così che, alla fine dell’anno scolastico 86/87 diedi le dimissioni dalla scuola, per la seconda volta, ed iniziai a lavorare nel privato. Ma quella non è stata l’ultima volta in cui ho cambiato tutto.


Fiammetta Cedrazzi (1941-2019) – per finire con un ricordo

A maggio 2019 è venuta a mancare un pilastro nella mia storia di docente al Frisi; era andata in pensione nei primi anni duemila.

Fiammetta è stata una protagonista di una fase irripetibile della mia vita e della vita del Frisi e parlo degli anni dal 1977 alla metà degli anni 80. In quel momento nel nostro liceo c’erano una serie di persone diverse per carattere per sensibilità politica e per modelli culturali di riferimento, ma si respirava in questa scuola il sapore della cultura vera, la passione nei confronti dei giovani, il senso di cosa volesse dire essere un docente.

Era finita l’epoca iniziata nel 68 e continuata in tono sempre minore e sempre con maggiore settarismo fino alla metà degli anni 70. Ne incominciava una nuova in cui si confrontavano il desiderio di cambiamento nella democrazia con le pulsioni violente dell’Autonomia e del nascente terrorismo. Quello era il contesto di contorno in cui si sviluppava il nostro desiderio di fare scuola per trasmettere una visione critica della cultura e della vita. Ma è sbagliato dire trasmettere, si deve dire costruire insieme.

Mi univa a Fiammetta la passione per le scienze dure e al di là di esse ciascuno di noi proseguiva per la sua strada, io più verso la filosofia e la storia, lei più verso la letteratura e l’arte incluse la musica e il balletto. Così quelli furono anni di studio approfondito, molto più approfondito di quello degli anni universitari, che pure non erano stati uno scherzo. Di certo né lei né io facevamo parte di quella tipologia di professori che entra in classe e dice Aprite il libro a pagina 147. Oppure Brambilla vieni alla lavagna e fai questo esercizio.

Mi ha sempre colpito il fatto che desse del lei agli studenti e addirittura, come è giusto dal punto di vista grammaticale del loro quando si passava al plurale. Mi sembrava un po’ un vezzo e mi chiedevo sempre come ci si sentisse ad essere dall’altra parte. Io mi sarei sentito a disagio perché già respiri un dislivello culturale ed esperienziale immenso e in più ti viene detto di stare al tuo posto.

Prima di tutto veniva la scuola con le sue regole, il senso del dovere, la sua serietà. Poi veniva tutto il resto, ma tutto il resto era filtrato attraverso la metodica del rigore e dell’esercizio critico della ragione: perché si fa così? Cosa c’è sotto? Quali sono i gradi di libertà? Si può operare diversamente? Cosa succede ad una teoria assiomatica se cambio un postulato? Qual è la dinamica della conoscenza scientifica? Alcuni elementi del carattere di Fiammetta venivano dal fatto che da bambina era cresciuta dentro il carcere minorile Beccaria di cui il padre era il direttore.

In quegli anni 70 e 80 non era vietato parlare d’altro, ma quel parlare d’altro doveva avere un senso e noi docenti di matematica e fisica eravamo in maggiore difficoltà rispetto ad altri docenti (come quelli di lettere) sempre presi dalla necessità di affrontare la miriade di questioni legate all’essere docenti di scienze dure in un liceo scientifico nato come figlio di un Dio minore del liceo classico, mentre la società che non cambiava i suoi ordinamenti ci richiedeva di essere protagonisti e di costruire dei profili di uscita con giovani colti e critici, maturi, ma anche tanto preparati sul versante scientifico in termini di competenze.

Tutto questo ci rendeva un po’ marziani per via della necessità di non perdere mai tempo e contemporaneamente, quando guardavamo negli occhi i nostri studenti e le nostre studentesse, capivamo che avevano voglia e bisogno di parlare anche di altre cose e allora usavamo i ritagli di tempo o i pomeriggi, tanto in quegli anni non si usavano ancora certi orridi neologismi come attività aggiuntive funzionali o non funzionali all’insegnamento. Si restava a scuola perché era opportuno farlo.

Mi spiace che il concorso che istituì la figura del dirigente scolastico non sia venuto fuori in quegli anni, ma solo nel 2004, perché Fiammetta sarebbe stata un’ottima dirigente, anzi una dirigente eccezionale, capace di stare sui tre denti della forchetta su cui dovevamo riuscire a stare in equilibrio: la organizzazione della scuola, la leadership educativa e la innovazione.

Invece in quegli anni la scuola italiana era ancora la scuola delle circolari del ministero con scritto si trasmette per opportuna conoscenza e norma, del preside come prolungamento finale di una organizzazione centrale che partiva da Roma e così Fiammetta non fu ritenuta degna, dai colleghi, nemmeno di fare la vicepreside anche se, era del tutto evidente, che sarebbe stata una grande vicepreside, naturalmente per occuparsi della direzione di marcia della scuola e non della sostituzione dei colleghi assenti con le supplenze brevi o della firma dei permessi di entrata in ritardo. Così al più potevamo aspirare a fare i consiglieri del principe, tenuti in panchina e consultati di nascosto (e lo abbiamo fatto).

Sul piano umano e personale era una persona molto riservata e, d’altra parte, lo sono anch’io, tanto è vero che ormai mi chiamano nonno orso. Quindi non me la sento di avanzare critiche sulla sua riservatezza che l’ha indotta ad una sorta di chiusura a riccio. Mi spiace tantissimo come si sia svolta la fase finale della sua vita, molto marcata dalla solitudine e dalla chiusura in se stessi e io penso di essere stato un po’ vigliacco a non farmi vivo e ad obbedire alla sua richiesta di non voler vedere nessuno intorno. D’altra parte confesso che il cancro mi mette sempre a disagio nel rapportarmi con chi ne viene colpito. La mia struttura razionale si ribella e se la unisco alla mancanza di un credo nell’aldilà misuro un senso di impotenza e di rabbia.


La pagina con l’indice della mia autobiografia da cui potete scegliere i capitoli da leggere


I commenti che aggiungono ricordi o correggono imprecisioni sono benvenuti. Si accede ai commenti scendendo al di sotto dell’articolo. Li si scorre e si arriva  ad un apposito editor


Appendice: la collana giallo ocra della Feltrinelli


Feltrinelli – la collana di Filosofia della scienza curata da Geymonat

Willard Van Orman Quine, Manuale di logica | Ettore Casari, Lineamenti di logica matematica | Ludovico Geymonat, Filosofia e filosofia della scienza | Carl G. Hempel, La formazione dei concetti e delle teorie nella scienza empirica | Evert W. Beth, I fondamenti logici della matematica | Ettore Casari, Questioni di filosofia della matematica |
Maria Luisa dalla Chiara Scabia, Modelli sintattici e semantici delle teorie elementari | Emil Ungerer, Fondamenti teorici delle scienze biologiche | M.E. Omelyanovskij, V.A. Fock e altri, L’interpretazione della meccanica quantistica. Fisica e filosofia in URSS | Enrico Bellone, I modelli e la concezione del mondo nella fisica moderna. Da Laplace a Bohr | Imre Lakatos e Alan Musgrave (a cura di), Critica e crescita della conoscenza | Hans Reichenbach, Filosofia dello spazio e del tempo | Ludovico Geymonat, Scienza e realismo | Pietro Redondi, Epistemologia e storia della scienza | Imre Lakatos, Dimostrazioni e confutazioni. La logica della scoperta matematica | Mary B. Hesse, Modelli e analogie nella scienza |

e quella di bianco e viola di Storia della scienza curata da Paolo Rossi

Marie Boas, Il Rinascimento scientifico 1450/1630 | Alistair C. Crombie, Da S. Agostino a Galileo. Storia della scienza dal V al XVII secolo | E. J. Dijksterhuis, Il meccanicismo e l’immagine del mondo. Dai Presocratici a Newton | J. L. E. Dreyer, Storia dell’astronomia da Talete a Keplero | Yehuda Elkana, La scoperta della conservazione dell’energia | John C. Greene, La morte di Adamo. L’evoluzionismo e la sua influenza sul pensiero occidentale | A. Rupert Hall, Da Galileo a Newton (1630/1720) – La Rivoluzione scientifica 1500/1800. La formazione dell’atteggiamento scientifico moderno | Mary B. Hesse, Forze e campi. Il concetto di azione a distanza nella storia della fisica | Max Jammer, Storia del concetto di forza. Studio sulle fondazioni della dinamica | Max Jammer, Storia del concetto di massa nella fisica classica e moderna | Morris Kline, La matematica nella cultura occidentale | Alexandre Koyré, Dal mondo chiuso all’universo infinito | Paolo Rossi, I filosofi e le macchine 1400/1700 | Philip P. Wiener, Aaron Noland , Le radici del pensiero scientifico |


 




1965-1970: l’Università e la scienza

III edizione – giugno 2024

fisica via celoria

L’istituto di fisica di Via Celoria con i due ingressi, a sinistra la didattica e a destra la ricerca. Al centro le finestre della biblioteca e sulla sinistra l’area didattica con le aule. Sullo sfondo l’Istituto tumori.

Gli anni di università si possono vedere da due punti di vista: la crescita culturale con la acquisizione di competenze importanti in ambito scientifico e l’immersione in un ambiente nuovo e stimolante coronato dal 1968. Ho deciso, per non fare confusione, di mantenereseparati i due ambiti e qui tratterò del primo: l’Università degli Studi di Milano e il dipartimento di Fisica.

Mi ero iscritto a Fisica perché c’era qualcosa che mi affascinava nella scienza e mi piaceva anche l’idea di occuparmene in maniera professionale (galeotti furono l’Hensemberger e il professor Oggioni, quello che mi apriva il giornale davanti al naso, e a cui diedi fuoco quando facevo la quarta).

L’Università era un ambiente totalmente nuovo:

  • Milano, raggiunta ogni mattina con il treno da Villasanta (con cambio a Monza) o da Arcore e poi a piedi dalla Centrale sino a Città Studi per non pagare il biglietto del tram (un bel risparmio), anche se, in quegli anni, camminare per Milano voleva dire arrivare in Università con la faccia nera per il particolato degli impianti di riscaldamento a nafta pesante
  • Le aule universitarie con 400 persone diverse tra loro nel modo di vestire e di parlare. I liceali diversi dai periti, i milanesi diversi da quelli della provincia

A preoccuparmi non erano nè la fisica in senso stretto, nè le applicazioni della analisi matematica alla fisica; era la astrazione matematica a mandarmi in crisi. Non ci ero abituato.

il primo anno

l’Istituto di matematica in via Saldini

Incontravo per la prima volta ragionamenti raffinati, in particolare nelle dimostrazioni di analisi, quelle di tipo epsilon-delta, in cui si prendeva un intorno di qua, si fissava un elemento di là e poi alla fine, come per miracolo, veniva tutto.

I teoremi di analisi li studiavo, li ristudiavo e ogni volta mi sembravano tutti uguali. Sapevo che lo scoglio era quello e che  dovevo farcela. Nessuno mi aveva addestrato all’esprit de finesse dell’analisi matematica. Il professor Bellia, in IV all’Hensemberger, ci dettò la definizione metrica di limite. Poi aggiunse: imparatela a memoria che tanto non la capireste. E adesso impariamo a calcolare i limiti. Quello fu il mio primo incontro con l’analisi; imparai anche i rudimenti del calcolo integrale e come lo si potesse applicare alla elettrotecnica, ma l’analisi mi era apparsa un utile strumento più che una scienza con un suo status.

Le lezioni di analisi I e II e di geometria del I anno, e anche quelle di Meccanica Razionale del II, erano in comune con gli studenti di matematica, mentre ci separavamo per fare Fisica e Chimica. Quelli di matematica al posto di Chimica studiavano algebra astratta, una cosa che non c’entrava nulla con l’algebra che avevo conosciuto alle scuole superiori e che per me era una assoluta novità.

Giovanni Ricci

Il professor Giovanni Ricci α Firenze 1904 Ω Milano 1973 a Milano sin dal 1936

Si entrava in Istituto si superava il cortile con la fontana dei pesci rossi e si entrava nel corridoio dell’aula A. A sinistra c’era l’accesso alla biblioteca e all’area di ricerca. Tutte le sacrosante mattine in 400 ci beccavamo la lezione del professor Giovanni Ricci in aula A all’istituto di via Saldini.

L’aula veniva oscurata e lui incominciava a scrivere sulla lavagna luminosa con una matita a cera bordeaux con la stessa scrittura, rotonda e regolare, che c’era nel suo libro (un libro tutto scritto a mano). Scriveva e commentava con la sua voce profonda, la stessa di suo fratello Renzo, attore di teatro, e ci dava del lei e del loro. Era inutile prendere appunti, meglio annotare direttamente sul testo. Gli appunti si prendevano alle esercitazioni del pomeriggio.

Sul Ricci giravano gli aneddoti più strani come quello secondo cui, se uno era andato male all’esame, non ti metteva riprovato sul libretto ma ti dava epsilon trentesimi; in analisi epsilon, da sempre è il sinonimo di “preso un numero positivo piccolo a piacere“. Chissa se era vero? Ricci aveva un’aria seria e severa da uomo dell’800.

Per rassicurarmi, guardavo Flavio Crippa che tutte le mattine si metteva pochi posti a sinistra di dove stava il Ricci, con la sua bella barba alla Karl Marx, la cartella di pelle nera e l’Unità aperta sul banco come a dire, il mondo sta cambiando. Flavio veniva da Garlate, nei pressi di Lecco e mi insegnò molte cose della vita: si dilettava di archeologia, di archeologia industriale, aveva preso il brevetto di pilota d’aereo, smanettava con l’elettronica e nel 68, con il suo motoscafo ha portato me e Bruna da Garlate sino al lago di Mezzola (verso Chiavenna) risalendo tutto il lago di Como e un pezzo del fiume Mera (e ritorno).

Torniamo al Ricci: mi ricordo le prime dimostrazioni con l’utilizzo del postulato di induzione matematica (se una proprietà è vera in un caso e, supposta vera nel caso ennesimo, la si dimostra vera per n+1, allora è vera sempre): eleganza, ma anche la sensazione di aver succhiato una caramella al gusto di sabbia. Così si dimostra la verità di una proposizione, ma come la si scopre? Dimostrazioni costruttive, dimostrazioni per assurdo, dimostrazioni per induzione. Parole per me nuove come dicotomia o come postulato. Ma perché si postula se è già chiaro?

Nel pomeriggio, alle esercitazioni, mi trovavo meglio: dimostrazione di convergenza delle serie più assurde, studio di famiglie di funzioni che richiedevano l’uso continuo di disequazioni da risolvere anche solo in maniera approssimata alla ricerca di cuspidi, punti angolosi, discontinuità.

metà anni 60 sessione di laurea Matematica

metà anni 60 sessione di laurea Matematica (analisi, algebra, analisi, geometria)

Carlo Felice Manara

Quando finiva il Ricci incominciava il Manara: Carlo Felice, cattolico fervente e padre di una miriade di figlie, alcune delle quali studiavano con noi. Nel 74 sarebbe stato uno degli animatori del comitato referendario contro la legge sul divorzio.

Era ordinario di Geometria e, proprio in quell’anno, aveva rivoluzionata il suo corso: basta geometria proiettiva (roba da ingegneri ed architetti), basta geometria analitica nel piano e nello spazio (rinviate alle esercitazioni), si facevano geometria algebrica e geometria vettoriale negli spazi a n dimensioni, in maniera del tutto sganciata da ogni riferimento alla realtà o alla visualizzazione delle cose e io, un po’ ingenuamente, mi dicevo: ma geometria non vuol dire misura  della terra?

Per il nuovo corso Il Manara aveva anche pubblicato un libro dalla editrice Viscontea, ma il libro, giunto in ritardo a corso già iniziato, era pieno di errori redazionali e tipografici, così, quando non capivi un passaggio non sapevi mai se eri un po’ duro, o non capivi perché c’era un errore. Bastava che fosse saltato un neretto e il simbolo di vettore diventava quello di una componente. Anche qui la sofferenza superava il piacere.

Il professor Manara, a differenza di Ricci, stava in cattedra davanti alle lavagne a scorrimento; era alto e parlava sempre con gli occhi socchiusi e l’aria ispirata per cui non si capiva mai dove stesse guardando. Per fortuna le esercitazioni tenute dal professor Melzi e dalla professoressa D’Aprile, da noi chiamata familiarmente Margherita, erano più chiare e ci consentivano, attraverso domande, di ricevere qualche chiarimento sulle lezioni della mattina.

Analisi e geometria le studiavo con un compagno di Monza, compagno nei due sensi della parola perché poi avremmo aderito insieme allo PSIUP, il Mao (Maurizio) Soardi. Mao aveva fatto lo Zucchi, non aveva mai fatto esercizi di analisi in vita sua, ma aveva l’abitudine alla astrazione. Lui prese 30 e lode, l’anno dopo passò da fisica a matematica e, a meno di 30 anni, diventò ordinario di Analisi.

via Celoria

aula A di Fisica in via Celoria

Finiti i corsi a matematica, finalmente, si andava in via Celoria. All’angolo di via Saldini si prendeva a destra la via Mangiagalli e si passava davanti all’Istituto di anatomia sino all’obitorio, sull’angolo di piazzale Gorini. Si girava ancora a sinistra in via Ponzio e si costeggiavano gli edifici bassi in mattoni degli istituti di agraria e di veterinaria, si passava il Cremlino (l’istituto zooprofilattico, chiamato così per la presenza di alcune guglie) e finalmente si arrivava al  semaforo di via Celoria. Da una parte il Besta, l’istituto neurologico, e dall’altra Fisica.

Era un edificio moderno, corridoi e servizi igienici pulitissimi, un grande atrio con al centro una enorme camera a bolle dei primi anni 50 con cui furono effettuati importanti esperimenti di fisica delle particelle. Dopo tutta quella serie di edifici austeri e un po’ ottocenteschi qui si respirava una atmosfera meno formale. Sul lato di via Ponzio c’era l’ingresso carraio con il giardino, il ciclotrone, il capannino dove stavano i fisici delle particelle e il bar.

Ugo Facchini

occupazione 1971 – il professor Facchini, munito di seghetto tenta di riaprire l’area di ricerca occupata

In aula A ci attendeva il professor Facchini che teneva il corso di Fisica 1. Ugo Facchini era un personaggio un po’ underground, lavorava con il CISE  e si occupava di problematiche energetiche legate al solare. Dopo la defaillance di Caldirola (letteralmente impazzito di fronte al 68), lo sostituì nelle funzioni di direttore dell’Istituto di Fisica.

Il suo corso era diviso in tre parti:

  • una di meccanica newtonina e di relatività ristretta che usava come base un testo dello stesso Facchini,
  • una parte di termodinamica, da cui imparammo molto poco, perché fu trattata malamente a lezione mentre il testo, sarà anche stato di Fermi, ma non andavaassolutamente bene per degli analfabeti quali eravamo,
  • e infine una parte di meccanica dei fluidi dove si utilizzava un vecchio libro di Giovanni Polvani.

A onore di Facchini devo dire che, con il suo stile un po’ trasandato che puntava a sottolineare l’essenziale delle leggi trascurando le complicazioni matematiche, è riuscito a farci comprendere bene le cose essenziali della meccanica che poi avremmo ripreso alla grande nel corso di Meccanica Razionale.

fisichetta

Ma con la fisica non era finita, perché i fisici avevano anche un corso biennale Esperimentazioni di fisica  detto più familiarmente, fisichetta. A fisichetta si facevano due cose: alcune sedute di laboratorio (ricordo quelle di termodinamica con i calorimetri e la misura dei calori specifici e quelle sulla caduta dei gravi nei fluidi in regime turbolento e/o viscoso) e poi problemi di fisica in preparazione dello scritto che si sarebbe però fatto alla fine del II anno.

Tentarono di insegnarci, senza molti risultati a causa della inadeguatezza del docente, le cose essenziali di teoria degli errori, comunque fu lì che sentii parlare per la prima volta di varianza, di distribuzione gaussiana e di legge dei tre sigma.

bublioteca e sala studenti

Nel pomeriggio, quando non c’erano impegni di lezione, si stava in biblioteca a studiare. La biblioteca era nel corridoio che unisce l’area didattica a quella di ricerca, di fronte alla sala del Consiglio di Dipartimento, che poi avremmo trasformato nella sede del Comitato di Agitazione.

C’erano due bibliotecarie, una anziana secca e vecchio stiile e l’altra più in carne e sorridente. Più che studiare ci si confrontava tra compagni sulle cose meno chiare e si risistemavano gli appunti presi a lezione. Se però ci si voleva rilassare sul serio si scendeva di un piano e, di fianco al bar, si andava in aula studenti, il regno del bridge e della briscola a chiamata.

Lì stazionava un gruppo di fuoricorso storici, capeggiati da Augusto Naj dell’AGI, l’associazione studentesca di matrice liberale, che ci passavano l’intera giornata . Erano le stesse persone che cercavano, con scarsi esiti, di rinverdire le tradizioni su anziani, matricole e fagioli. Un giorno quelli di ingegneria beccarono anche Gigliola Cinquetti, matricola di architettura, e la fecero salire su un albero a cantare non ho l’età.

gli esami

Per un pinella della Brianza, che non aveva fatto il liceo tutto sommato andò  bene: Analisi 1 a giugno con 24, Fisica 1 e geometria a ottobre con 26 e 23, chimica a febbraio con 21 (il voto più basso della mia carriera di studente).

Per l’esame di chimica mi ero preparato abbastanza a fondo, ma dopo qualche domanda, mi misero davanti una reazione di ossidoriduzione da bilanciare. Mi misi all’opera e quando finii tutto soddisfatto per aver bilanciato le molecole coinvolte, il professore mi disse: lei ha sbagliato, questa reazione non può avvenire per via dei potenziali di ossidoriduzione dei reagenti. Da incazzarsi.

Ero orgogliosissimo di quel 24 in analisi. A giugno su 400 tra fisici e matematici passammo in una quarantina e l’esame di analisi 1 era quello cruciale; se lo passavi eri considerato un iniziato.

L’esame si svolgeva in quattro atti:

  • lo scritto di 6 ore con esercizi vari e come piatto forte lo studio di una famiglia di funzioni i cui andamenti erano almeno di 3 o 4 tipi diversi al variare del parametro,
  • il pre-orale, che era un altro scritto, subito prima del colloquio, su semplici, ma numerosi esercizi relativi all’intero programma,
  • e poi, in sequenza i due orali: sul primo volume con gli assistenti e sul secondo volume con il Ricci. Il giorno dell’orale incominciavi nel primo pomeriggio e finivi la sera tardi.

il secondo anno

Non avevo ancora tirato il fiato per gli esami di ottobre e l’anno già ricominciava con tre corsi annuali di quelli belli tosti: Analisi 2, Fisica 2 e Meccanica Razionale (oltre alla solita fisichetta). C’era anche un colloquio in due lingue straniere a scelta, ma quello fu una passeggiata (Francese e Inglese). Ormai si studiava prevalentemente su libri in quelle due lingue: quelli americani e quelli russi delle edizioni MIR (tradotti in francese).

meccanica razionale

Il corso del biennio che mi è piaciuto di più, che ho seguito senza perdere nè una lezione nè una esercitazione, è stato quello di Meccanica Razionale. Prima di iscrivermi a Fisica non sapevo nemmeno che questa disciplina, figlia dell’Illuminismo, esistesse. Il suo studio mi ha aperto la mente, dai fondamenti della meccanica sino alla meccanica analitica di Lagrange ed Hamilton, che fanno da premessa alla Fisica Teorica.

I primi dieci minuti di lezione il professor Udeschini li passava a disegnare un sistema di N punti materiali con relative interazioni su cui avrebbe poi impostato la trattazione lagrangiana o hamiltoniana. Nelle esercitazioni il professor Barazzetti si dedicava alla impostazione e trattazione di problemi pieni di oggetti interconnessi (fili, sbarre, corpi rigidi estesi, carrucole, …).

Il professor Barazzetti fu esemplare nel trattare configurazioni meccaniche via via più complesse e, nella seconda parte del corso, invece di analizzarli attraverso le leggi fondamentali della meccanica, imparammo a trattarli anche con le lagrangiane.

Avevo una serie di quaderni degli appunti ordinatissimi. Dopo tanto impegno e tanto studio (compresi i due volumi del Finzi e anche la Mecanique di Landau) presi solo 24, mentre un mio  compagno, che non aveva seguito il corso e che si preparò solo sui miei appunti (per altro mai restituiti), prese 30 nella sessione successiva. Da allora ho iniziato a non prendere troppo sul serio i risultati di un esame universitario.

analisi 2

Il corso di Analsi 2 era tenuto dalla professoressa Fulvia Skof, allieva di Ricci (poi entrata in ruolo a Torino); fu quel corso a rischiare di mandarmi in tilt durante la preparazione all’esame sostenuto a fine luglio del 67. Le esercitazioni le faceva il professor Paganoni; algida la Skof e cicciotto il Paganoni. Andavo a dormire a tarda notte e continuavo a vedere serie di funzioni di cui dovevo stabilire la convergenza e se essa fosse uniforme o meno. La convergenza uniforme l’ho finalmente compresa, sul piano della ragion d’essere, anni dopo, studiando questioni di storia della analisi matematica. Non mi preoccupavano invece le parti più concrete come gli integrali e le equazioni differenziali.

Era un programma mastodontico, senza un libro di testo, in cui ciò che doveva costituire l’oggetto principale del corso per dei fisici in formazione e cioè, funzioni a due variabili, calcolo integrale, integrali generalizzati, funzioni nel campo complesso, equazioni differenziali, era dato quasi per scontato e si lavorava prevalentemente sugli approfondimenti e sulle sottigliezze.

Avevo l’impressione che ai matematici non interessasse mai come andassero le cose nella maggioranza dei casi. Li vedevo appassionati all’eccezione, al pelo nell’uovo e io non riuscivo ad abituarmici. Mi dicevo, ma non potrebbe assegnare questi corsi di analisi a dei fisici ? Quelli almeno sanno che cosa ci serve.

il testo della Schaum’s utilizzato per applicare l’analisi matematica al calcolo vettoriale

Mi spiego con un esempio, dopo essere impazzito sul tema della convergenza uniforme (o non uniforme) delle serie di funzioni, mi sono trovato a non aver mai studiato gli sviluppi in serie di Fourier (utili per la MQ) o le trasformate di Laplace. Queste le ho studiate da solo e applicate nel corso di elettronica per lo studio dei fenomeni transitori nello reti circuitali.

Alla fine andò tutto bene, presi 27 e potei dedicarmi all’amata fisica; ma di ciò che di analisi serviva al corso di fisica non mi avevano insegnato niente e dovetti occuparmene da solo, sia per Fisica 2, sia per Istituzioni di Fisica Teorica del III anno. In proposito mi fu di aiuto un manuale della Schaumm Vector Analisys.

fisica 2

Proprio nel 66/67 il professor Piero Caldirola, il decano dei fisici teorici del nord Italia, lasciò la cattedra di Istituzioni di fisica teorica per passare a Fisica 2.

Caldirola era un po’ troppo chiaccherone e asistematico per tenere un corso istituzionale; in più se ne occupava per la prima volta. Per fortuna c’erano due giovani assistenti che supportavano le lezioni, il professor Marcello Fontanesi, futuro rettore della Bicocca e il professor Elio Sindoni, esperto di fisica dei plasmi.

Il programma era enorme, tutto l’elettromagnetismo sino alle equazioni di Maxwell, inclusa la generazione delle onde elettromagnetiche e poi, la teoria delle onde elastiche, l’ottica geometrica e quella ondulatoria.

Matteo Giani il giorno del suo matrimonio insieme a Luca Basanisi e in primo piano il mio regalo di nozze – la mia copia dei 3 volumi delle Lectures on Physics di Ricky Feynman

Per di più non esisteva un testo. Ma erano da poco disponibili le Lectures on Physics di Feynman; le comperai un volume alla volta (dal libraio Agostino Quattri che vendeva libri a casa sua, a fianco di via Saldini) e preparai la parte di elettromagnetismo sul secondo volume e quella di ottica sul primo. La mia formazione di base da perito elettrotecnico fece il resto rispetto a tutte le problematiche di tipo elettrico e arrivò il primo trenta.

Il Feynman mi aprì la mente e il cuore, mi insegnò a non farmi spaventare dalla matematica ma ad usarla in maniera euristica, ad applicare l’adagio di Feynman “se funziona, va bene“. Da allora, quando ho voglia di imparare qualcosa di nuovo, apro i capitoli finali del II e III volume e mi diverto imparando cose che non conosco trattate in modo assolutamente originale (e sono passati ormai più di 50 anni).

Superati i 70 anni di età ho compiuto un atto d’amore o un sacrilegio, a seconda dei punti di vista. Il mio primo ex alunno fisico (Matteo Giani) che si è sposato ha ricevuto in dono i miei tre volumi del Feynman e qui vedete la foto della consegna ideale del testimone.

il secondo biennio

Avevo vinto la sfida; niente richieste di soldi a casa; automantenimento e strada aperta per fare il fisico; ma era l’autunno del 67 e, come è noto, molte cose bollivano in pentola. Ma ne parlerò in un altro capitolo, meglio tenere separate la crescita culturale-scientifica da quella culturale-politica.

Nel III e IV anno capitalizzai gli sforzi che avevo fatto per inserirmi; mi sentivo finalmente a mio agio, a casa mia. Scelsi l’indirizzo applicativo elettronico-cibernetico. Avevo capito che le cose importanti stavano nei libri e che non era indispensabile rincorrere gli appunti. Imparai anche a leggere i libri scientifici acquisendo la capacità di non perdermi dietro ai dettagli.

Così incominciarono a fioccare i voti alti.

esami del III anno

Istituzioni di Fisica teorica: la bestia nera che molti studenti ripetevano più volte. Appoggiandosi sulle conoscenze di meccanica analitica e sugli esperimenti cruciali del primo 900 sul dualismo ondulatorio corpuscolare per la radiazione e per la materia si introduceva la Meccanica Quantistica secondo la modalità De Broglie Schrodinger e poi si lavorava sulla assiomatica. Causa interruzioni per la occupazione arrivammo sino al momento angolare quantizzato. Teoria con il professor Prosperi appena rientrato dagli Usa ed esercitazioni con un gruppo di assistenti e ricercatori molto validi: Lanz, Ramella, Gallone, Cattaneo. scritto e orale 30,

metodi matematici per la fisica: un corso di analisi superiore fatto da fisici per i fisici sulla teoria degli spazi vettoriali e quella degli operatori. Il corso era tenuto da Renzo Cirelli (un ex prete anarchico) con la collaborazione, per le esercitazioni dello stesso gruppo di Teorica. scritto e orale 30 e lode,

struttura della materia : rudimenti di fisica atomica e nucleare con il professor Tagliaferri il responsabile del gruppo di ricerca del Ciclotrone. Non ho seguito il corso che risultava abbastanza noioso e ho lavorato direttamente sui testi di Leighton e sul Finkelburg. Solo orale 27,

Il professor Giovanni Degli Antoni (detto Gianni) elettronico, informatico, inventore del corso di scienza della informazione – mente geniale Piacenza 1935 – Segrate 2016

Elettronica generale: corso tenuto dal professor Degli Antoni che in quell’anno ha lasciato Cibernetica e Teoria dell’Informazione. Degli Antoni già responsabile del gruppo di elettronica di Fisica dello Spazio (Occhialini) stava iniziando a mettere in piedi un gruppo di persone interessate all’Informatica. Testo nuovo, americano, il Millman Halkias oltre a tutta la parte circuitale e sulle trasformate di Laplace.

Durante questo corso è nato il mio rapporto di amicizia con Degli Antoni. Stava illustrando alcuni processi di conduzione nei semiconduttori drogati con passaggio di elettroni dalla banda di valenza a quella di conduzione. Alzai la manina per dire che la spiegazione non sembrava convincente. Degli Antoni sorrise e disse che quella era la spiegazione data da Fermi. Risposta: non ho chiesto di chi sia quella spiegazione; ho detto che non mi pare convincente e spiegai perché. Voto 30,

Laboratorio di elettronica facemmo eperimenti di base di tipo circuitale e poi progettai e realizzai un alimentatore stabilizzato. Voto 30

esami del IV anno

Cibernetica e teoria della Informazione fatto eccezionalmente con Degli Antoni sulle sue dispense senza seguire alcun corso. Imparai un sacco di cose sull’algebra della logica, sulla teoria dell’informazione, sul calcolo delle probabilità, sulla teoria degli automi. Voto 30,

Macchine calcolatrici: era un corso tenuto da uno dei docenti del gruppo di Fisica dello spazio su cose di cui mi occupavo in chiave lavorativa. C’era un po’ della nascente informatica (conoscevo il Fortran e anche un po’ di basic). Voto 30,

Laboratorio di cibernetica: non ricordo i dettaglima con il mio gruppo (tra cui Alberto Bertoni) e sotto la guida di Degli Antoni realizzammo un aggeggio elettronico che utilizzava potenziometri di precisione e costruimmo un modello di macchina che impara. Si incominciava a ragionare di intelligenza artificiale. Voto 30,

Radioattività: L’esame di radioattività non l’ho mai fatto. Durante il quarto anno (68/69) io e un paio di amici politicamente impegnati ci rivolgemmo al professor Ludovico Geymonat per esternargli il nostro desiderio di sostenere l’esame di filosofia della Scienza.

Detto, fatto; concordammo il programma d”esame e coinvolgemmo, in accordo tra le parti, la professoressa Connie Dilworth, moglie di Beppo Occhialini, presso cui lavoravo a part-time. Lei insegnava radioattività e così Geymonat venne nascosto dietro radioattività.

L’esame fu una cosa molto seria per due ragioni: perché ci tenevamo a fare bella figura con il professore, perché lui ci diede un programma di studio di tutto rispetto (il voluminoso testo di Ernst Nagel “Le strutture della scienza” e quattro gruppi di scritti legati alla teoria della conoscenza nel materialismo dialettico rispettivamente di Lenin, Stalin,Trotcky e Mao.

Esame alla presenza di Ludovico Geymonat, Corrado Mangione e Felice Mondella. I maestri della epistemologia in Italia e tra loro il padre fondatore. Ricordo di essere rimasto impressionato dallo studio del Nagel, un testo molto dotto che mi lasciava sempre la impressione che su certe questioni fosse vera una certa tesi, ma anche la sua contraria. Ricordo che ne parlai con Geymonat durante il colloquio. Il Nagel l’ho riletto e ristudiato anni dopo quando ormai ero ferratissimo sul neo-positivismo ed ebbi modo di apprezzarlo più di quanto non feci nel 69. Voto: 27

l’interazione con i docenti

Il 1968, dal punto di vista culturale, fu un anno di svolta. Noi del III anno eravamo sufficientemente navigati per esternare il desiderio di capire attraverso la discussione. Eravamo anche sufficientemente ignoranti per non potercela fare da soli. Così l’incontro scontro con i docenti ci fu, ma non fu all’altezza delle aspettative di ambo le parti.

Mi riferisco al corso di Istituzioni di Fisica Teorica, quello che porta gli studenti di fisica nel mondo nuovo e inesplorato della meccanica quantistica. Noi ponevamo, male, le nostre domande e dall’altra parte ci rispondevano in maniera dogmatica. Ho preso 30 ma ho conservato molti dubbi e ho continuato a studiarla, anche ora che ho superato i 70.

Eccezione il professor Gianni degli Antoni che poi avrebbe creato il corso di laurea in scienza dell’Informazione e siamo diventati amici. Con lui ho fatto gli esami di elettronica e di cibernetica e mi ha fatto da relatore di tesi. Si dialogava molto perché lui era una persona curiosa. L’unico docente che abbia cercato di capirci e lo voglio ringraziare, come fece lui verso di noi alla cerimonia in cui andò in pensione, qualche anno fa.

la laurea con una tesi di logica a infiniti valori (poco fisica)

Mi sono laureato a luglio del quinto anno con una tesi di informatica teorica sulla logica a infiniti valori (i fuzzy set). Relatore Gianni degli Antoni, correlatore Piero Mussio. Piero Mussio era un collaboratore di Degli Antoni, molto simpatico, schierato apertamente a sinistra e con un padre simpaticissimo aderente al Partito Comunista Internazionalista (quello di Bordiga).

Nell’ultimo anno e mezzo, ho anche lavorato di pomeriggio, come perito, per il gruppo di ricerca di fisica dello spazio (facevo programmi in Fortran) che venivano utilizzati per la elaborazione dati di eventi di interazione con i raggi cosmici negli strati alti della atmosfera. Erano gli studi classici del professor Occhialini, mancato premio Nobel alla fine degli anni 40, si dice per ragioni politiche (nel mondo della scienza era considerato un comunista).

Per quanto riguarda la tesi ci fu qualche problema da parte dell’establishment dei fisici che, giustamente osservavano che quella non era roba da fisici, ma da qualche parte doveva pur nascere informatica e caso volle che il primo a muoversi fosse stato un fisico: Gianni degli Antoni.

Alberto Bertoni 1946-2014 il mio compagno di tesi che da studente era uno dei più bravi del nostro anno

La tesi era un lavoro di coppia (altro scandalo!) con Alberto Bertoni, uno di quelli con cui avevo preparato l’esame di Filosofia della Scienza.

Alberto veniva da Barlassina e mi stupiva sempre: Claudio, oggi sul treno mi è venuto in mente che potremmo presentare questo teorema, e giù enunciato e dimostrazione. Mi lasciava di  stucco per la creatività e la capacità di astrazione.

La nostra tesi non poteva essere compilativa perché sull’argomento, in quel momento esisteva un solo articolo in letteratura (quello di Zadeh, fondatore della teoria) e dunque bisognava creare e lui creava. Io, come diceva Gianni degli Antoni, corredavo con preziose idee di tipo applicativo.

Alberto è morto qualche anno fa dopo aver fatto il professore a Informatica e il direttore di dipartimento. Aveva la media leggermente più alta della mia e gli diedero la lode. Io ho preso 109/110; d’altra parte non avevo preso neanche un 29 ….

Tutto il nostro gruppo degli immatricolati nel 65/66 è finito a lavorare con Degli Antoni (Majocchi, Polillo, Lanzarone, De Michelis). Voglio ricordare un compagno che nel biennio faceva coppia fissa con Alberto, Giampiero Banfi (detto John) di Saronno. Si occupava di Fisica dei Plasmi, ha fatto il professore a Pavia e anche lui è morto giovane (nel 2002). Due fisici valenti con trascorsi importanti nel movimento e che decisero di continuare con la fisica. Io no: avevo in mente altre cose


La pagina con l’indice della mia autobiografia da cui potete scegliere i capitoli da leggere


 




1964-1965: il diploma e 15 giorni di sospensione

III edizione – maggio 2024

Cosa dire della quinta? Non ci fu più matematica e al suo posto subentrarono due ore di diritto tenute da un generale in pensione. Poche cose ma che servirono a farmi comprendere, rispettare la precisione espressiva delle scienze giuridiche e a darmi le coordinate generali del diritto privato e di quello pubblico.

Tra Elettrotecnica e Misure Elettriche facevamo un sacco di ore che passavano con piacere, invece mi pesavano quelle di Italiano dominate dal libro di storia della letteratura di tal Carmelo Cappuccio (rilegato in  cartone telato azzurro chiaro).

Italiano e storia insegnate malissimo

Diversamente dal professor Vegezzi che allargava, apriva, dialogava  e puntava a convincere e a farti piacere le cose di cui parlava, il professor Donato Vencia sembrava nato per chiudere e per trasformare la cultura in noia. Ripetere il libro, ripetere il libro… Storia ce la faceva studiare …

Non eravamo certamente informati sulla grande cultura europea; nessuno ce la presentava ma dovevamo far finta di conoscerla, sapere quello che c’era scritto sul Cappuccio, niente di più niente di meno.

La cultura umanistica è fatta di tante discipline, di tante sfaccettature, di interconnessioni tra specificità linguistiche, storia, filosofia, arti figurative, narrativa, poesia. A noi veniva richiestro di conoscerla  nello stile delle raccolte di figurine e per di più con un lavoro quasi nullo sui testi.

Mi è rimasta in mente una interrogazione di Beniamino Parolini, un compagno molto diligente che veniva da Bellusco.

Stava illustrando il pessimismo leopardiano secondo lo schema che bisognava conoscere e ripetere (individuale, storico e cosmico) e ad un certo punto citò scopenoer per sottolineare il fatto che avessero in comune il terzo dei tre pessimismi. Lo citò in base all’antico adagio si legge come si scrive e sul Cappuccio, senza spiegare chi fosse se non che si trattava di un filosofo tedesco, c’era scritto Schopenhauer. Ci fu qualche sghignazzo, qualche risolino trattenuto. Cosa ne sapevamo noi?

nella classe

barba folta, basette, aria da esule russo di fine 800

Nel corso della quinta ci furono per me due novità importanti. Mi ero messo in banco con Alberto Sala di Cavenago e ogni tanto si studiava insieme spostandosi in bici o in Lambretta tra Cavenago e Villasanta. Dopo l’Itis non ci siamo più visti ma lui fece Economia all’Università e finì per ricoprire incarichi amministrativi importanti alla Telettra di Vimercate (ne ebbi notizia dal padre di una alunna, ingegnere in Telettra, quando insegnavo al Frisi). Era uno tranquillo e riservato; mi piaceva per quello.

Mi ero spostato all’ultimo banco della fila centrale, posizione strategica per dare una mano a un po’ di compagni durante le prove scritte di elettrotecnica. Le molte ore di laboratorio (misure e costruzioni) consentivano di rompere la monotonia delle ore di lezione. Noiosissime quelle di disegno e impianti fatte in un’aula speciale da un docente che avrebbe anche potuto non esserci data la sua inconsistenza.

In tasca incominciava a girare qualche soldino frutto delle lezioni private e così, ogni tanto, invece di tornare a Villasanta nell’intervallo tra le ore della mattina e quelle del pomeriggio, facevo pranzo in pizzeria: da Albio all’angolo di via Cavallotti con via Gottardo, o al Cigno Blù (al’angolo con via Volturno).

Il Cigno blù era un po’ più caro ed aveva il forno a legna (con le pizze basse e grandi) mentre da Albio si mangiava una pizza cotta nel forno elettrico in apposite tegamini circolari di una ventina di centimetri di diametro. Ci piacevano entrambe, ma il Cigno blù era un po’ più caro. I proprietari dopo aver gestito per anni il locale hanno poi aperto in una villa di fronte alle Missioni Estere un ristorante con maggiori pretese “le Grazie”.

il fattaccio

la noia con gli ingegneri di passaggio

Il 22 febbraio del 65 era un lunedì e nelle prime due ore del pomeriggio avevamo Disegno con l’ingegner Attilio Bergamo. L’ingegner Bergamo (docente di Disegno e Impianti), come il suo collega Galasso con cui facevamo Costruzioni Elettromeccaniche, era uno di quegli ingegneri che stavano a scuola senza averla scelta in attesa di una assunzione presso l’industria (cosa che è poi regolarmente avvenuta).

il testo di impianti di Tiberio

Le due materie in sè non erano entusiasmanti avendo una trattazione prevalentemente manualistica (si imparava di più studiando direttamente sui libri, il Tiberio e il Coppi). Di più, mancava a questi docenti la capacità di trasmettere passione e noi ci adeguavamo facendo il nostro dovere: un po’ di studio, le tavole, la realizzazione di avvolgimenti per motori e trasformatori in laboratorio.

Se si trattava di dare un peso relativo in una scala da 1 a 5 davamo 4 e ½ ad elettrotecnica, 2 a misure e 1 (o anche meno) a impianti e costruzioni.

l’aula di disegno e le tavolette istoriate

Disegno si faceva in un’aula speciale grande con grandi tavoli reclinabili e, sotto il banco, incastrate con con una guida a scorrimento, delle tavolette in legno morbido originariamente pensate per fissare i fogli da disegno con le puntine e che, nella migliore tradizione di un ITIS, erano ormai inservibili e affrescate nello stile di uno dei lupanari di Pompei.

originale di 20 secoli fa a Pompei

Ricordo un enorme fallo tricolore inciso a biro. La scuola aveva solo 3 anni ma la frequentazione di generazioni di studenti, che affilavano le mine con la carta vetrata, aveva fatto sì che sulle pareti lavabili e gremolate si depositasse un leggero strato di grafite.

un’idea folgorante

Per evitare di sporcare i fogli con le gomme avevamo preso l’abitudine di pulirle strofinandole sul muro. Fu così che scoprimmo che, insieme alla gomma, si puliva anche la parete e dunque, volendo, si potevano realizzare delle scritte.

Avete presente le battute di Amici Miei sul carattere folgorante dell’idea, quella in cui i protagonisti, alla ricerca del bagno scoprono il vasino di un bimbo di un anno  e decidono di farla lì, quella grossa, per far spaventare la madre ….

Senza attendere Monicelli, anche a noi venne l’idea di fare uno scherzo benevolo all’ingegner Bergamo (eravamo almeno una decina). Avevamo l’impressione che gli piacesse una delle impiegate della segretaria e così realizzammo sulla parete di fondo una scritta a caratteri cubitali che diceva pressapoco: “l’ingegner Bergamo ama XXX“, il nome e cognome della fanciulla.

La scritta, come vedremo, è stato importante e, a meno che qualcun altro, a mia insaputa, abbia fatto altro, questo fu il tutto. Durante le ore di disegno ci annoiavamo e ci esercitavamo con cose che avremmo potuto tranquillamente fare a casa. Il docente era come non averlo e si trattava di riprodurre, con precisione e correttezza, schemi elettrici.

… e poco dopo

Torniamo a quel pomeriggio. Verso le 16 uscimmo dall’aula di disegno e tornammo in classe e poco dopo arrivò l’ingegner Bergamo incazzato come una biscia, seguito a ruota dal professor Migliorini-vicepreside. Era successo che quelli di quarta, andati a fare disegno dopo di noi, avevano scoperto la scritta e, probabilmente schiamazzando, avevano richiamato l’attenzione dell’ingegner Bergamo. L’interazione fu molto rapida e avvenne con Migliorini:

“Chi è stato? Se non salta fuori chi è stato, sospendo tutta la classe”. Io era tra quelli che lo avevano fatto e così alzai la manina. Ero abituato ad assumermi le responsabilità e sono rimasto così.

Nel 2008/2009, da Preside dell’Hensemberger ho dovuto gestire una questione molto più grave. Durante il rientro a scuola in autobus dopo una iniziativa a Milano c’erano state offese esplicite e gravi a docenti, la subornazione di un compagno mentalmente debole, successive telefonate anonime ad un docente, il discredito pesante della scuola verso l’esterno. Quello che mi colpì, e su cui fui implacabile, fu l’atteggiamento omertoso, l’uso della versione addomesticata e concordata, l’io non ho visto, anche di fronte a riscontri oggettivi. Il tutto mi costò una settimana di lavoro, con confronti ed interrogatori, ma alla fine venni a capo nella individuazione delle responsabilità

Ero tranquillo, al di là del tono aggressivo di Migliorini, si era trattato di  una ragazzata, per di più fatta in gruppo. Mi aspettavo di vedersi alzare almeno un’altra decina di manine e invece si fece avanti solo Luigi Beretta di Missaglia. Migliorini ripetè l’invito ai responsabili a farsi avanti e, visto che non accadeva nulla, disse a noi due: prendete le vostre cose e andatevene che voi qui dentro non ci mettete più piede. Ero spaventato e non so bene (non lo ricordo) come mi presentai a casa, ma ovviamente raccontai l’accaduto.

intermezzo sull’allontanamento di De Majo

Meno di un mese prima era stato destituito per una questione di gestione amministrativa allegra il preside De Majo. In giro non se ne sapeva nulla: gli studenti non erano stati avvertiti, i docenti non lo so, ma il registro dei verbali che ho consultato da Preside ha un verbale del 25 gennaio in cui il Consiglio di Amministrazione si riunisce presieduto da De Majo e poi quello del 26 febbraio (consiglio di Presidenza e Consiglio dei professori) dedicato alla mia sospensione. E’ la prima pagina del verbale che mi riguarda.

Dunque neanche i docenti sapevano molto. Tra i due verbali non c’è nulla perché, negli anni 60, la trasparenza non era dominante, men che meno a Monza. Uscì qualche notizia sui giornali, la scuola formalmente venner affidata in reggenza (anche se non si diceva così) al Preside del Mosè Bianchi e sino alla fine dell’anno venne governata dal vice di De Majo, Migliorini.

sospensione per 15 giorni

Il registro dei verbali risulta compilato dalla immancabile (e amata) professoressa di Scienze Anita Pasini, con una scrittura assolutamente uguale a quella della mia mamma che si chiamava Anita come lei e lo potete leggere qui nella sua interezza.

Nei giorni successivi si recarono a scuola i miei genitori e ci fu un bel via vai di comunicazioni con l’ingegner Bellini e con il professor Truci (un fisico che ci faceva un corso libero di Elettronica), con cui avevamo rapporti molto amichevoli e che chimavamo lo zio Mario. La prima notizia fu che rischiavamo grosso perché si ipotizzava di applicare il Regio Decreto fascista del 4 maggio 1925 ancora in vigore e abrogato solo con la gestione Berlinguer, anche se non più applicato dopo il 68.

Avremmo potuto rischiare l’espulsione da tutte le scuole del regno per tre anni in caso si fosse stabilito che si trattava di offese alla morale, oltraggio all’Istituto o al Corpo Insegnate.

Il giovedì, tre giorni dopo l’affresco a grafite,  si tenne la riunione congiunta dei docenti della classe e del Consiglio di Presidenza e la cosa venne derubricata alla meno grave offesa al decoro personale; così arrivò la sospensione per 15 giorni di cui 3 già scontati.

In quei 15 giorni mi fu vicina la mia attuale moglie che, allora, flirtava con un suo compagno di classe del Mosè Bianchi (ma passò il suo tempo con me) e nelle due settimane girellai vicino a scuola.

Ci furono però due conseguenze: la prima è che non partecipai alla visita alla centrale idroelettrica di Santa Massenza in provincia di Trento (uscita con pernottamento, l’unica della intera storia scolastica); la seconda fu più rilevante e riguardò l’esito finale dell’anno scolastico.

l’esame di diploma

preparazione

Al rientro a scuola tutto proseguì in maniera normale. La preparazione all’esame, da metà giugno a metà luglio, la feci nella Molazza dei mulini del Taboga ad Arcore, da cui veniva mia madre. Quella stanza, venduta dopo la morte di mia madre, e ora ristrutturata, ospitò me e il mio compagno Sem Cavalletti per quasi un mese.

Clausura assoluta; unico svago, le mie cugine Malacrida (Alice, MariaTeresa, Alberta) con cui si facevano quattro chiacchiere e la visione di “agente 007 dalla Russia con amore” con James Bond che ho rivisto in TV molti anni dopo.

svolgimento ed esito

Andò in questo modo. A luglio ci fu l’esame con gli scritti di italiano e di elettrotecnica, seguiti dalle prove pratiche in laboratorio e dai due orali di area umanistica e di area tecnica in giorni diversi. Mi ci ero preparato con grande impegno e con un rush finale di studio forsennato studiando anche argomenti sulle macchine elettriche che non avevamo affrontato a scuola. In elettrotecnica ero preparatissimo.

L’esame fu molto positivo su tutta la linea con la eccezione del tema di Italiano. Avevo scelto la traccia numero 3: “Dimostrate come la moderna tecnica industriale abbia facilitato la creazione del prodotto economico, divenendo pertanto un rilevante fattore d’incivilimento, in quanto, col rendere i prodotti accessibili anche ai meno abbienti, ha elevato il tenore generale di vita.”

Non avevo avuto scelta perché le alternative erano come la natura e il paesaggio accompagnino gli stati d’animo dei personaggi manzoniani, oppure, le speranze dei patrioti risorgimentali rispetto al proclamato regno d’Italia. Due temi per me improponibili a cui non ero assolutamente preparato.

Dopo anni di insegnamento del professor Vencia (di cui ricordavo il 3 meno meno nel primo tema a inizio quarta) mi ero convinto che, almeno all’esame, fosse opportuno non metterci del proprio. Era un messaggio esplicito ad essere grigi anziché usare la materia grigia. Così feci un tema molto ricco di cose scontate e banali. e mi imbarcai in una di quelle trattazioni general generiche a cui mi aveva abituato e di cui oggi mi vergogno completamente. Mi fu detto dal membro interno che ci avevo messo anche un errore grammaticale.

Tutto il resto andò molto bene (storia, diritto, italiano orale, lo scritto di elettrotecnica eccellente, le prove pratiche, gli orali dell’area tecnica).

Gasato come ero presi persino preso 9 in educazione fisica (ma non faceva media). Non ho mai capito la mancanza di almeno un 8 o 9 nell’area tecnica se non con il fatto che si fosse in fase di stabilizzazione del caso De Majo e l’indicazione era: grigio, grigio, grigio; coprire, tacere, coprire.

il presidente era molto anziano e si incazzava  se, parlando del 14/18, dicevi prima guerra mondiale anziché quarta guerra di indipendenza  e voleva sapere dove avessimo imparato a dire prima guerra mondiale. Il nostro testo era quello di Giorgio Spini non di Meo Pataccca, ma bisognava dire così.

Quel 6 non compensato da almeno un 8 o 9 nelle materie tecniche mi fece perdere la media del 7 e con essa la borsa di studio.

Con i compagni di allora non ci furono recriminazioni e, tranne per un paio di persone, ho anche dimenticato chi fossero gli altri partecipanti. Io ho fatto il signore e loro anche. Mi è rimasta l’amarezza per essere stato lasciato solo in un contesto in cui l’esplicitazione della verità avrebbe determinato un depotenziamento delle mancanze e degli addebiti. Mi è spiaciuto per il povero Beretta, meno bravo a scuola, che all’esame è stato rimandato alla sessione di ottobre in storia.

università: ma quale e a quali condizioni?

Fu così che dovetti intavolare una bella trattativa in famiglia per potermi iscrivere a Fisica con interventi a mio favore sia dell’ingegner Bellini sia del professor Truci. Sarebbe un vero spreco non mandarloi alla università … La mia promessa fu la seguente: mi manterrò all’università senza chiedervi una lira (e venne mantenuta).

Nel corso della quinta si erano incrementate le letture di saggi di storia contemporanea e anche di qualche scritto di filosofia. Fisica mi attirava molto, ma avrei fatto un pensierino a filosofia se non ci fosse stata la impossibilità di iscriversi. Tutto sommato è stato meglio così: una laurea tosta e che apre la mente e la possibilità di occuparmi comunque di filosofia. Come è regolarmente avvenuto. Quando parlo di orientamento e di scelte definitive dico sempre: fate quello che vi piace, ma non dimenticatevi di applicare il principio di realtà.

cosa risulta dal verbale

L’inizio del verbale di 6 pagine

Nel 2008 sono tornato all’Hensemberger a fare il Dirigente Scolastico e sono andato a verificare le carte che riguardavano la mia vicenda.

Il quadro che ne è emerso è molto interessante: c’è un bel verbale di 6 pagine (di cui ho estratto copia) da cui emerge una ricostruzione dei fatti ad usum delphini: altro che statuto delle studentesse e degli studenti.

Oggi l’intero procedimento sarebbe dichiarato nullo per una serie di illegittimità:

Il fatto non è circostanziato: la scritta era stata fatta cancellare dal professor Bergamo perché troppo allusiva e i docenti vanno a vedere altre scritte (non è chiaro quali e quale ne sia il contenuto, salvo che si tratterebbe di cose volgari; penso ci si riferisca alle tavolette da disegno cui ho già accennato).

I due interessati non vengono ascoltati; si riferisce e si discute molto sul fatto che essi affermano che ci sia stato il coinvolgimento di altri, ma non vengono svolte indagini e non ci si chiede come due persone, in meno di due ore, abbiano potuto affrescare una intera parete e le tavolette di molti banchi.

Comunque i docenti, con la esclusione di Bergamo, sono assolutamente certi che si sia trattato di una azione collettiva, ma non hanno gli strumenti per venirne a capo e così ci trattano, con benevolenza.

non ci si chiede cosa stesse facendo il professor Bergamo durante quelle due ore e come sia stato possibile che non si sia accorto di nulla, anzi, il verbale è bellissmo nel circostanziare la versione del professor Bergamo. Egli riferisce che egli faceva regolarmente lezione nella V elettrotecnici avvicinandosi, come di consueto avviene durante le esercitazioni pratiche, ora a questo ora a quel gruppo di studenti, senza la aplicazione di quel controllo generale della classe che è invece possibile durante le lezioni teoriche.

Uscita la classe, gli alunni entrati per l’esercitazione seguente, lo ponevano nella condizione di accorgersi delle scritte in discorso … Subito egli raggiungeva la VB cui minacciava gravi sanzioni se entro pochi secondi non fossero risultati i nomi dei colpevoli.

Il consiglio dei docenti fa una scelta di compromesso propende per l’offesa al decoro personale e  non per il più grave offese alla morale, oltraggio all’istituto o al corpo insegnante, ma nel dibattito emergono sfumature interessanti:

  • L’ingegner Bellini afferma che già l’aula di per sè ha favorito il crearsi di una data atmosfera; egli è sicuro che vi siano altri colpevoli e che, quanto ai due giovani, egli sa che sono a posto, particolarmente Cereda sulla cui probità non ha dubbi.
  • Il generale (!!!), professor Mandelli (diritto), sostiene che la cosa può essere vista come un exploit volgare di chi esprime una ammirazione così come può accadere in determinati ambienti e magari a causa di una certa educazione famigliare
  • Il professor Vencia ha posto l’attenzione sulla necessità che i nomi degli insegnanti vengano rispettati; per una questione di costume cui i giovani devono adeguarsi; tanto più che nella vita possono incorrere in gravi sanzioni se non imparano a controllarsi. Così particolarmente deve fare Cereda, che è un ragazzo geniale, ma impulsivo, e perciò, in questo senso, impreparato alla vita e al lavoro
  • il professor Bergamo ripete che la classe è del parere che i colpevoli siano solo due

La cosa finisce così; sono tutti certi di un largo coinvolgimento della classe tranne Bergamo a cui conviene l’altra tesi che lo fa uscire dalla vicenda con eleganza rispetto a quella che tecnicamente si chiama negligentia in vigilando.

Le frasi sono irripetibili, ma non si sa quali siano, la scritta è stata cancellata subito e la vicenda si chiude. Osservate che, da nessuna parte si sottolinea che si tratta di scritte fatte con la gomma.

uscita da GS e orientamento a sinistra

Ma l’anno della quinta fu anche un anno di grandi cambiamenti. Mi allontanai progressivamente da GS a partire dal mese di gennaio; incominciavano a pesarmi l’integralismo (nel modo di concepire la religione) e comunque sentivo il bisogno di aria nuova (l’ambiente della federazione giovanile socialista). Nel 1965 si celebrava il ventennale della liberazione; ero stato a sentire la commemorazione tenuta al cinema Centrale da Giorgio Amendola e ne rimasi favorevolmente impressionato per la grande apertura verso la democrazia e lo spirito non settario (il contrario di quello che scrisse Il Cittadino).

Come ho già detto nel capitolo dedicato a GS, si tenne un raggio dedicato al tema; decisi di andarci e lì ci fu la rottura definitiva. Sentii dire da un dirigente del movimento che non capiva lo spirito di sacrificio dei partigiani comunisti e socialisti perché, se lui si fosse trovato in quei frangenti e non fosse stato cristiano, mai e poi mai avrebbe fatto la scelta della Resistenza.

Meglio cambiare aria, mi dissi, e la cambiai definitivamente. GS mi aveva aiutato crescere, a rompere con il conformismo, ma qui si stava andando verso il pensiero unico. Ero ancora fortemente credente, animato da spirito conciliare e desideroso di cambiare il mondo. Quel percorso sarebbe continuato a Fisica, ma questa è un’altra storia.


Ecco l’elenco dei 28 alunni della 5B diplomati all’Hensemberger nel 1964/1965; la foto e del marzo ’65 nel cortile della Ercole Marelli.

Aresi Felice, Arosio Luigi; Beretta Luigi; Brioschi Dario; Calloni Mario; Cazzaniga Carlo; Cavaletti Giuseppe; Cavenaghi Giuseppe; Cereda Claudio, Crippa Roberto; Grandi Sergio; Grassi Enzo, Lissoni Marco; Mariani Luigi; Mascazzini Claudio; Monti Angelo; Mutti Andrea; Nava Ermes; Ornago Natale; Parolini Beniamino; Pioltelli Carlo; Refaldi Sergio; Sacchi Luigi; Sala Alberto; Scamardi Danilo; Segalini Mario; Torriani Giorgio; Trevisi Moreno.

Chissa che qualcuno non si faccia vivo.


Ultima modifica di Claudio Cereda il 31 maggio 2024


La pagina con l’indice della mia autobiografia da cui potete scegliere i capitoli da leggere


 




1962-1964: elettrotecnica il secondo biennio all’Hens

III edizione – maggio 2024

4b 1964 hensemberger

In prima fila accosciati da sinistra: Sergio Grandi, Carlo Carzaniga, Giorgio Torriani, Luigi Beretta, Luigi Sacchi, Ermes Nava, Beniamino Parolini, Enzo Grassi, Claudio Cereda. In seconda fila: Sergio Refaldi, Mario Segalini, Dario Brioschi, Natale Ornago, Roberto Crippa, Giuseppe Cavenaghi, Carlo Pioltelli, ing. Galasso, Luigi Mariani, Moreno Trevisi, prof. Antonio Bellia, Luigi Arosio, prof. Mario Truci, Alberto Sala, Felice Aresi, prof. Donato Vencia, Angelo Monti, Luigi Assali, Mario Calloni, Marco Lissoni, Giuseppe Cavaletti e sullo sfondo Andrea Mutti e Danilo Scamardi – tutti vestiti bene, non per la foto, ma perché a scuola si andava così

Per il triennio di specializzazione ho scelto elettrotecnica. All’Hensemberger c’erano solo tre trienni mentre per le altre specializzazioni si doveva andare a Milano (chimica e fisica al Molinari, nucleare ed elettronica al Feltrinelli). Da noi: corso A, primo piano, meccanica; corso B, secondo piano, elettrotecnica; corso C, terzo piano, metallurgia (una specializzazione inventata da De Majo, con una sola gemella nel bresciano, per tener conto della siderurgia di Sesto San Giovanni e delle fonderie del territorio).

un ITIS integrato nel suo territorio

I laboratori della scuola erano una cosa grandiosa: ricordo quello tecnologico al piano terra in cui venivano le aziende del territorio a fare le prove sui materiali (durezza, resistenza alla fatica, resilienza, elasticità, trazione) e pagavano. Credo che fosse il lavoro principale del capo ufficio tecnico e vice preside prof. MIgliorini.

Da Preside ho avuto modo di consultare i verbali del Consiglio di Amministrazione della scuola (con gestione finanziaria autonoma sino agli anni sessanta). Era una azienda ben gestita e flessibile nel rapportarsi al tessuto produttivo del territorio. Se serviva una macchina la si comprava, se serviva una specializzazione o un corso pre e post diploma, lo si apriva. Se servivano incentivi al personale si davano.

Da quei verbali ho scoperto che l’ingegner De Majo, appena nominato nel 45, fu mandato dallo Stato per uno stage di un anno alla Fiat, perché per governare un ITIS dovevi aver visto e assorbito la cultura industriale. L’autonomia finanziaria e quella nella gestione del personale ci spiegano perché, per tutti gli anni sessanta, la nostra istruzione tecnica abbia primeggiato nel mondo.

la scelta della specializzazione e i professori

In terza ho fatto crescere la barba anche se non c’erano ancora i baffi ed è stata una bella guerra con papà che non vietava, ma faceva dell’ironia. Questo, come dice mia figlia, è un dato di imprinting che mi è rimasto e, a suo dire, siamo identici.

Scartai meccanica per via dei miei rapporti infelici con il disegno, scartai metallurgia perché il mondo della siderurgia non mi attraeva; così scelsi elettrotecnica perché incominciavano a prendermi bene sia la scienza sia le sue applicazioni e pensavo che quello potesse essere il modo giusto per coltivarla.

A quei tempi elettrotecnica voleva dire: centrali idroelettriche, grandi macchine, grandi impianti di trasporto e distribuzione. Lo status della disciplina era ben definito sin dal primo novecento; l’elettrotecnica era uguale a se stessa da 50 anni e i laboratori della scuola, nuovissimi, erano assolutamente all’altezza.

Ricordo in particolare quello di misure elettriche, molto grande e con un set di macchine disposte prima dei finestroni lungo la via Cavallotti con cui si poteva fare assolutamente di tutto in termini di simulazione degli impianti di produzione ed utilizzo: grandi motori sincroni e asincroni, alternatori, dinamo e motori a corrente continua, il tutto in gruppi che potevano essere interconnessi.

1972 vegezzi e Marina

1972, il professor Vegezzi con la figlia Marina

In terza incontrai un professore di lettere di alto valore, il professor Augusto Vegezzi, piacentino di origine, futuro autore di un fortunato testo di storia per i licei e poi lungamente preside del liceo Banfi di Vimercate. E’ scomparso nel 2022 a 90 anni.

Allora a Monza era così, giravano docenti di prima grandezza; al Mose Bianchi c’era Franco Fortini e il professore di filosofia di mio fratello, al Frisi, era Renato Fabietti. Con Vegezzi (intellettuale di sinistra) mi trovai bene perché era un educatore vero che sapeva dare un senso all’insegnamento di Italiano e di storia in un ITIS.

Ti faceva discutere, non imponeva; rispettava le mie opinioni allora molto diverse dalle sue. Su sua indicazione lessi Il maestro di Vigevano di Lucio Mastronardi (ma prima chiesi il parere al mio confessore, don Giulio Oggioni, futuro arcivescovo di Bergamo che, essendo villasantesi veniva in oratorio la domenica mattina quando era libero dagli impegni di docenza al seminario di Venegono).

Nei temi, con Vegezzi, mi sentivo libero e così il passaggio in quarta fu traumatico; Vegezzi aveva chiesto e ottenuto il trasferimento a Milano. Con l’arrivo del professor Donato Vencia cambiarono obiettivi, metodi, concezione della cultura e passammo da un bel frizzantino al vino fermo. Nel primo tema in classe mi beccai un bel tre meno meno perché a suo dire ero andato fuori tema. Non mi restava che adeguarmi.

Cambiai la prof di Inglese e arrivò dal Frisi la prof Castoldi (mi pare fosse soprannominata Moby Dick). Era stata la prof di mio fratello e, nonostante l’aura temibile che la circondava, trasmessami anche da mio fratello, non ebbi assolutamente problemi.

materie tecniche extra-specializzazione

Ebbi l’occasione di fare un bel corso di tecnologia in cui studiai gli elementi essenziali delle proprietà dei materiali e dei processi siderurgici (dall’alto forno, ai convertitori, ai forni di fusione) e un corso altrettanto buono di meccanica generale perché allora il perito era pensato come un tecnologo che si specializzava, ma doveva comunque avere una competenza a 360° sulle cose essenziali.

Nel corso di tecnologia andamma più volte in laboratorio e ricordo il fascino delle prove di resistenza dei materiali: la resistenza alla trazione (fase elastica, snervamento e rottura), la sollecitazione di taglio, la durezza superficiale

Dopo il corso di chimica generale in II, ce ne fu uno di chimica organica e industriale dove ci occupammo dei grandi impianti chimici per la produzione dei composti chimici essenziali per l’industria (acido solforico, acido nitrico, soda caustica, acido cloridrico, ipoclorito di sodio, coloranti) e di tutte le problematiche legate alla produzione e distillazione degli idrocarburi.

Avevo acquistato da un compagno di classe un certo numero di reagenti (acidi, basi e sali) e nella cantina di casa (areata da uno sportellino in alto a livello del suolo esterno) mi divertivo con le reazioni. Spettacolare la produzione di ipoazotide (una miscela di ossidi di azoto di un bel colore rosso mattone) che si ottiene facendo reagire trucioli di rame con acido nitrico. Avevo un sale di cobalto che, a seconda della umidità cambiava colore e mi divertivo a scaldarlo in una provetta.

la reazione del sodio in acqua con sviluppo di idrogeno che si incendia

In un contenitore di vetro con il tappo a vite tenevo, immerso nella nafta un bel pezzo di sodio metallico. Lo si tiene nella nafta perchè a contatto con l’acqua (e basta anche solo il sudore o l’umidità atmosferica) ha una reazione violenta, sviluppa idrogeno che si incendia immediatamente. Il sodio è lucente e malleabile e basta prenderne un pezzettino con una pinzetta e buttarlo in acqua per vedrlo saltellare e incendiarsi.

Sempre in cantina mi ero attrezzato un piccolo laboratorio di elettrotecnica messo in piedi recuperando vecchi trasformatori provenienti dalla fabbrica chiusa di mio padre. Con dei raddrizzatori che mi ero procurato ci facevo l’elettrolisi e, con i soli trasformatori, la saldatura ad arco ed altri esperimenti in cui portavo alla incandescenza fili di rame piazziati su una basetta di legno sostenuti da chiodi che facevano da morsetti e misuravo i tempi necessari per la evaporazione del metallo ad alta temperatura a seconda dello spessore. Negli anni avanti mi sarei dilettato con la radiotecnica e un po’ di elettronica: produrre un amplificatore utilizzando le vecchie radio a valvole, costruire una chitarra elettrica.

Un altro laboratorio che ora non si fa più era quello di saldatura; due ore pomeridiane molto divertenti passate a fare pratica con la classe divisa in tre gruppi; un trimestre fiamma ossidrica e cannello ossiacetilenico, un trimestre saldatura ad arco, un trimestre fucina. L’aiutante tecnico che lavorava al maglio era soprannominato Vulcano. Con tutti quei laboratori l’orario scolastico era pesante: 34, 36, 38 ore, ma anche così ci si abituava al futuro lavoro in fabbrica (gestione del tempo e dei ritmi di lavoro).

sua maestà l’elettrotecnica

Last but not least, l’elettrotecnica: ovvero il testo di Olivieri e Ravelli e l’ingegner Bellini. Oltre all’elettrotecnica generale seguita dalle correnti alternate e trifasi e poi dalle macchine elettriche, c’erano misure elettriche, impianti elettrici e costruzioni elettromeccaniche con altri docenti; ma l’elettrotecnica all’Hens era l’ingegner Bellini.

La sua parola, in classe o nei discorsi tra studenti, equivaleva all’ipse dixit (l’ha detto l’ingegner Bellini). Con lui non si pedeva tempo e si lavorava, sin dal primo anno di specializzazione, sulla preparazione alla prova scritta dell’esame di diploma. I conti erano tanti e si facevano con il regolo calcolatore con due o anche tre cifre significative (inclusi i conti che richiedevano la trigonometria).

olivieri ravelli vol. 1 Elettrotecnica generale

Olivieri e Ravelli vol. 1 Elettrotecnica generale

L’Olivieri e Ravelli, edizione CEDAM marrone scuro, rilegato in tela e cartone a lettere d’oro, tre volumi (elettrotecnica generale, macchine elettriche, misure elettriche) è stato nella mia formazione quello che, all’università, sono state le Lectures on Physics di Feynman. Bellini faceva lezione; sottolineava le cose essenziali di teoria (tanto c’era l’Olivieri e Ravelli per gli approfondimenti) e poi tante applicazioni.

Prendevo appunti e poi li rielaboravo studiando sul testo. La ristesura degli appunti presi a lezione rielaborandoli con l’apporto dei testi è fondamentale per capire come stanno le cose e per introiettare la conoscenza.

Non eravamo in molti a lavorare così, c’era chi si accontentava di riuscire a fare i compiti in classe e c’era chi si faceva aiutare durante i compiti. Io ero per la sistematicità. Purtroppo di quei quaderni di appunti (elettrotecnica, matematica, meccanica, elettronica) non ho più nulla e la stessa cosa è avvenuta per quelli dell’università; prestati e mai restituiti.

Gli altri docenti delle materie di indirizzo non erano di pari valore, ingegneri neo laureati in attesa di assunzione e prestati (senza impegno) all’insegnamento.

In terza compresi bene i concetti di intensità di corrente e di differenza di potenziale e mi resi conto della spiegazione demenziale che mi avevano dato in seconda sugli uccelli posati sui fili di trasporto dell’energia elettrica. La corrente elettrica circola se metti a contatto punti a potenziale diverso e se stai su un solo filo sei al potenziale del filo e dunque non c’è passaggio di corrente.

la frattura della tibia

Nella primavera del 63 ci fu uncidente importante durante una lezione di educazione fisica al campo di calcio dell’oratorio di Triante con il professor Tarca.  Ero in azione in velocità e per un difetto di controllo del pallone finii in avanti sulla punta del piede destro.

Sentii un bel crack di osso che si rompe, mi ritrovai a terra e poi arrivò il dolore: frattura scomposta di tibia e perone della gamba destra. Mi caricarono in auto tenendomi in braccio e via verso il vecchio Ospedale San Gerardo. Il primo impatto fu con la messa in trazione perché per fissare la staffa di trazione ti trapano il malleolo e ci piazzano un cilindretto d’acciaio. A quei tempi la ortopedia chirurgica era di là da venire.

Il reparto era di quelli con quattro letti per parte e il corridoio in mezzo. Ero immobile nel letto bloccato dall’apparato di trazione con pesi e carrucole.  Furono 20 giorni di sofferenza e immobilità, poi 45 giorni di gambale gessato senza possibilità di appoggio, 30 giorni di stivale e poi altri 20 perché il callo non era giudicato soddisfacente. Totale 115 giorni.

Ricordo ancora con terrore i giorni di Ospedale in quel camerone, tra urla, odori corporei, sempre su schiena, padella e pappagallo. C’era un camionista a cui schiacciarono una gamba con un camion  in manovra mentre lui stava sotto. Dopo giorni di sofferenza gliela amputarono perchè stava andando in cancrena.

Quando levai l’ultimo gesso il mio polpaccione destro (tutti i Cereda hanno il polpaccione)  era ridotto a un terzo. Era il luglio del 63 e andammo al mare a Varazze; stavo meglio in acqua rispetto al camminare sulla sabbia. Mi sono rimasti un bel callo osseo e un accorciamento di quasi 1 cm e mezzo che alla lunga ha dato problemi alla mia colonna.

Dopo la prima settimana di stivalone sino all’inguine, in cui era stato prescritto il riposo a letto, ricominciai ad andare a scuola. Il mio compagno Luigino Sacchi mi veniva a prendere in Lambretta e, in qualche modo si arrivava all’Hensemberger dove mi prendeva tra le braccia e mi portava in tutti gli ambiti in cui non ce la facessi con le stampelle. L’ascensore c’era ma non era per gli studenti.

Altri tempi, ve li figurate con la 626 (il trasporto in moto, il trasporto in braccio)? Luigino Sacchi insieme al Sem è stato il mio compagno di studi nel triennio. Andavo a casa sua, nelle villette dietro l’acquedotto,  nei pomeriggi in cui non c’era laboratorio e rivedevamo le cose insieme. Ci vedevamo solo per studiare perché lui era impegnato con gli scout e faceva atletica leggera (lancio del disco).

Nel tempo libero mi impegnavo sempre di più in GS e mi apprestavo a fare il caporaggio dell’Hensemberger (ne parlo in un capitolo a parte). La giornata era strutturata così: scuola di mattina, scuola di pomeriggio, un salto in GS prima di cena, studio dopo cena. Mentre, fino a tutta la seconda, nel pomeriggio della domenica andavo al cinema a Villasanta, adesso c’era la caritativa: andavamo nei quartieri in espansione di Cinisello (le coree) a far giocare i bambini intorno a parrocchie che stavano nascendo (Robecco, Bellaria, Cornaggia).

dalla terza alla quarta: marachelle e autonomia

Nell’estate del 63 ci fu il trasloco dalla vecchia casa di via Mazzini al condominio Marinella di via Monte Sabotino, dal centro alla estrema periferia, dove c’erano ancora le vecchie cave, luogo impagabile di avventura per mio fratello Fabio.

Villasanta finiva al passaggio a livello di viale della Vittoria e più in là c’era solo campagna. Pochi giorni dopo il trasloco, morì la nonna Elisa e così non ci furono problemi nella disposizione delle tre camere (una per i genitori e il piccolo Marco e le altre due per noi quattro più grandi). Ironia della sorte il condominio fu costruito dalla impresa di Stefano Mariani, lo storico autista del calzaturificio, e l’acquisto fu reso possibile  dalla generosità del cugino Giancarlo Locati che si stava incominciando ad affermare come ingegnere civile e anticipò una quota dei soldi necessari.

La quarta fu un anno di passaggio da tre punti di vista: professionale, cultural-religioso, politico. Sul versante della autonomia mi ero comperato, con i proventi di una borsa di studio, la Lambretta 125, quasi subito truccata a 150 con la collaborazione di Roberto Zannini (il figlio di Tonino dell’omonimo garage). Aveva due anni meno di me; io gli davo una mano in qualche materia e lui smanettava con le moto avendo a disposizione l’officina. Si fece una lambretta da 125 a 200 cc che riusciva a mandare a un numero di giri spropositato e che alimentava con miscela al 12% per non grippare.

Una borsa di studio da 120 mila lire era un bel contributo, e ricordandomi della mia storia, da dirigente scolastico dell’Hensemberger mi sono subito dato da fare per rendere disponibili borse di importo significativo (sino a 1’000 €) per gli alunni meritevoli cercando di trasmettere il messaggio secondo cui ciascuno, nel bene e nel male, è artefice del suo destino.

Iniziavo anche a dare le prime lezioni private a studenti dell’Hensemberger delle prime classi, una attività che ho mantenuto anche da studente universitario.

A scuola si approfondiva la scelta dell’elettrotecnica; aspettavamo i due pomeriggi in cui si sarebbe fatto laboratorio di misure per unire teoria ed applicazione; carini i laboratori di costruzioni elettromeccaniche in cui si iniziava la progettazione e realizzazione di macchine elettriche, quelle che studiavamo sull’Olivieri e Ravelli. In terza abbiamo imparato a fare i cablaggi per la alimentazione delle macchine utensili con il filo di rame rigido, mentre in quarta ho costruito un trasformatore dalla progettazione, al dimensionamento e assemblaggio dei lamierini, alla realizzazione degli avvolgimenti.

laboratorio macchine utensili

laboratorio macchine utensili di un ITIS

Sempre sul versante della cultura tecnologica a 360° del perito ci fu anche l’esperienza del laboratorio di macchine utensili. La classe era divisa in due gruppi e alternativamente si lavorava al tornio o sulle macchine speciali (fresatrici, piallatrici, trapani).

Ho visto, ma non usato, la prima macchina a controllo numerico che lavorava con nastro perforato (era il1964).

Mi sono stupito nel vedere un tornio con mandrino a revolver che fabbricava bulloni con una serie di passaggi predeterminati in sequenza a partire da un’unica barra cilindrica d’acciaio: realizzazione della testa e del corpo, il filetto, la svasatura, il taglio con caduta del pezzo e inizio del successivo. Ad ogni colpo dato alla ruota di comando il portautensili ruotava ed iniziava una nuova operazione e, naturalmente, attraverso connessioni meccaniche opportune si poteva rendere automatica, anche questa operazione. Erano i primi elementi della automazione, ancora rigidamente senza uso della elettronica.

C’è un episodio che serve a spiegare bene che tipo di personaggio stessi diventando. Non ero ribelle, ma intransigente sì. Facevamo un corso di macchine idrauliche e termodinamica (il seguito di quello di meccanica fatto in III) con il solito docente preso in prestito: questa volta era un fisico, ricercatore del neonato gruppo di Fisica dello Stato Solido che insegnava per integrare l’assegno di ricerca (si chiamava Robero Oggioni). Persona molto simpatica e alla mano, ma aveva un difetto: appena entrato in classe si metteva davanti ai banchi, apriva il giornale (Il Giorno) e per 5/10 minuti si dedicava alla lettura.

Io stavo al primo banco e la cosa mi dava istintivamente fastidio perché mi sembrava una forma di maleducazione nei nostri confronti; così una mattina con un accendino diedi fuoco, da sotto, al giornale aperto davanti alla mia faccia. Come si sa, se si accende della carta da sotto, viene una bella fiammata; il professore capì che avevamo sbagliato entrambi non ci furonoi provvedimenti disciplinari e aumentò la stima reciproca.

Il contrario di ciò che mi accadde l’anno dopo quando, per un episodio di ben minore gravità rischiai di perdere l’anno, come vedremo nel prossimo capitolo. Il professor Oggioni fu il primo fisico da me conosciuto che facess il fisico. Esisteva gente che nella vita faceva lo scienziato. La cosa mi piacque molto.

Sempre in quell’anno ebbi il primo contatto con la matematica seria, l’analisi matematica, dopo che già in terza avevamo fatto l’essenziale di numeri complessi e geometria analitica. Il professore era Bellìa, un catanese con un accento fortissimo che sarebbe poi rimasto all’Hensemberger per tutta la sua vita. Il corso di matematica finiva in quarta e, pur senza grandi approfondimenti teorici, ma badando al significato di derivata ed integrale, appresi alcune tecniche che, unite alla padronanza dei numeri complessi, mi consentirono una certa autonomia nello studio delle correnti alternate e dei sistemi trifasi.

Fu una piacevole sorpresa scoprire che, dopo aver appreso i fondamenti, si poteva fare da sè realizzando in maniera elegante risultati applicabili alle materie di indirizzo senza dover usare le semplificazioni concettuali dell’Olivieri e Ravelli (dove non era previsto l’uso dell’analisi).

Mi è rimasta in mente la lezione dedicata alla definizione di limite: voi non sareste mai in grado di capirla, perciò ve la detto e voi imparatela a memoria, disse il Bellìa (preso un ε positivo piccolo a piacere, se è possibile trovare un δ positivo tale che quando …. allora …. ). Non so dirvi se avesse ragione; noi periti eravamo un po’ rozzi e amanti del lato pratico delle cose, ma a Fisica l’impatto con gli aspetti teoretici dell’analisi fu drammatico e da docente di liceo mi impegnai a fondo perché le difficoltà concettuali non fossero eluse ma comprese partendo dalle problematiche da cui nasceva la questione con una modalità in cui il rigore e la astrazione fossero introdotti con gradualità.

le visite aziendali

Nel corso della IV e della V abbiamo fatto diverse visite a grandi aziende del territorio.

Alla CGS (compagnia generale strumenti) di  Monza si fabbricavano ancora gli stumenti di precisione con cassetta in legno; gli stessi che usavamo nel laboratorio di misure oltre agli strumenti da quadro per le applicazioni industriali.

Vedemmo la catena per la produzione dei contatori a disco commissionati dalla Edison, poi ENEL, per la fatturazione dell’energia elettrica. Il passaggio di corrente richiesta dall’utente produce un campo magnetico che mette in rotazione un disco di alluminio collegato a un contagiri. La velocità di rotazione del diswco è correlata alla corrente richiesta. Così si misurava il consumo di energia elettrica in ambito domestico prima che arrivassero i contatori elettronici di oggi.

Alla Ercole Marelli di Sesto ci fu il contatto con la grande industria elettromeccanica: grandi motori e alternatori per le centrali. In quegli anni venivano realizzati i primi turboalternatori con dei rotori in acciaio lunghi 7-8 metri che dovevano fare 3’000 giri al minuto. Scoprimmo le limitazioni nel diametro del rotore (non più di 1 m) per gli effetti di flessione al centro e il rischio che il rotore, ad alta velocità si sradicasse dai cuscinetti. Scoprimmo che uno dei problemi, nella lunghezza (potenza) del rotore era quello della tenuta dell’isolamento dei conduttori alla temperatura prevista di funzionamento (intorno agli 80-90°).

Alla Magrini di Bergamo vedemmo gli interruttori di potenza per le centrali e la sala prove. Alla Philips di Monza visitammo la catena di montaggio per la produzione dei tubi a valvola. C’erano dei grandi banchi circolari con le operaie tutte in camice bianco che, in ambiente protetto, montavano a mano i diversi componenti della valvola (catodo, griglie, anodo).

Lo stesso carosello aveva fiamme a gas e quando il lavoro era finito si montava il bulbo in vetro, si faceva il vuoto e poi il bulbo veniva tappato a caldo. Fu il primo ambiente pulito che vidi nell’industria e mi tornò in mente anni dopo quando, alla SGS (ora ST Microelectronics), mi capitò di entrare nei reparti di produzione delle fette di silicio per la produzione di circuiti integrati e microprocessori dove non può entrare neanche un granello di polvere.

E’ impressionante come di queste cose, nonostante l’alternanza scuola lavoro, oggi se ne facciano meno di allora tra problematiche di sicurezza, scuola di massa e abbassamento della qualità, sia degli studenti sia della offerta formativa.

evoluzione cultural-religiosa

Sul piano culturale e religioso mi occupai di costituire un significativo gruppo di GS interno alla scuola (amici che rivedo ancora con piacere e che hanno preso strade molto diverse).

Intanto approfondivo alcune tematiche legate alla fase conclusiva del Concilio Vaticano II, leggevo le encicliche che ci aveva lasciato papa Giovanni (ormai morto) e trovavo un po’ esitante e non comunicativo il suo successore Montini (Paolo VI). Nel mio processo di crescita cominciavo ad avere l’impressione che la politica culturale di GS fosse un po’ chiusa sul versante sociale come spiegato nel capitolo dedicato a GS; il mio alter ego era il Sem Cavalletti che un po’ stava in GS e un po’ aveva rapporti con il circolo studentesco di Villasanta messo in piedi da mio fratello Sandro e da Peppo Meroni.

Nerl 1963 la domenica mattina i giessini andavano a messa alle 10:30 nella chiesa di San Pietro Martire a metà di via Carlo Alberto. Da questo appuntamento, nell’anno successivo, ne seguì un altro; finita la messa, con alcuni amici ci spostavamo in via Dante al circolo la Brianza a frequentare le riunioni della federazione giovanile socialista (veniva da Milano un deputato lombardiano che si chiamava Cresco e un avvocato amministrativista destinato a fare carriera Felice Besostri).

Iniziò così il mio spostamento a sinistra. Per qualche mese, all’inizio del 64, cercando di imitare mio padre, che era stato fascista e conservava un rapporto di adesione al fascismo nella sua versione sociale e repubblicana, mi misi a leggere il Secolo d’Italia comperato all’edicola al semaforo di via Prina con via Manara, dove c’era un edicolante contrabbandiere e fascista che mi guardava con simpatia. I missini non mi convicevano.

Leggevo anche, episodicamente, La Discussione (il settimanale della DC che arrivava in abbonamento a casa di Sacchi). Erano i primi passi, ancora confusi verso la passione politica. Nell’estate del 1963 era morto papa Giovanni e in quella del 1964 morì Palmiro Togliatti. Il mondo comunista mi era totalmente estraneo ma fui molto impressionato dalla enorme partecipazione popolare ai funerali di cui lessi le cronache su Il Giorno ai giardinetti della Villa Reale. La domenica comperavo l’Avanti che, nella edizione domenicale, era molto ricco di articoli di storia e cultura. Di lì a poco avrei scoperto Rinascita.

Ho aperto con la immagine della IV B. Molti dei compagni di classe non ci sono più, altri li ho persi di vista da tempo, per esempio il mio compagno di banco Alberto Sala che veniva da Cavenago e che ha lungamente fatto il direttore amministrativo della Telettra.


Ultima modifica di Claudio Cereda il 24 maggio 2024


La pagina con l’indice della mia autobiografia da cui potete scegliere i capitoli da leggere





1960-1962: inizia l’Hensemberger

III edizione – maggio 2024

hensemberger

La prima superiore ha coinciso con la fine dell’esperienza del Collegio e, poiché mentre facevo la III media, la fabbrica era stata chiusa era cambiato notevolmente lo status sociale della mia famiglia. Passammo dall’essere una famiglia numerosa di imprenditori ad essere una famiglia numerosa con un padre quarantacinquenne che doveva inventarsi un lavoro. La prima decisione fu che il secondogenito (cioè io) non avrebbe fatto il Liceo Scientifico, ma l’ITIS e mio fratello Fabio che non pareva nutrire grande interesse per lo studio, anziché alle medie, venne mandato all’avviamento.

Iscriversi all’ITIS non era però così semplice; la scuola era a numero chiuso perché, in quel momento, c’era solo una classe per ogni specializzazione del triennio e si puntava molto sulla qualità.

Mia madre fece alcune visite al padre-padrone-fondatore dell’Hensemberger, l’ingegner Antonio De Majo, prima di ottenere il via libera. Negli archivi dello scientifico Frisi, quando ci insegnavo, rintracciai una domanda di iscrizione sub condizione in ci si diceva che sarei andato al Frisi se non mi avessero accettato all’Hensemberger.

l’Hensemberger, un po’ di storia

La scuola nasce nel 1945 come sezione staccata dell’ITIS Feltrinelli di Milano ma ha quasi subito l’autonomia e un Preside che ci credeva, l’ingegner De Majo. Erano altri tempi, gli ITIS nascevano come scuole dotate di autonomia amministrativa e con un fortissimo rapporto con il mondo delle imprese e ciò voleva dire possibilità di fare investimenti con mezzi propri e autonomia nelle poltiche di assunzione e gestione degli aspetti premiali.

Me ne sono reso conto sfogliando il registro dei verbali del Consiglio di Amministrazione e la prima che che vidi è che De Majo, appena nominato fu spedito a fare un tirocinio di tre anni in FIAT. La scuola venne intitolata a Pino Hensemberger lungimirante industriale del primo 900 con una azienda che produceva accumulatori per le ferrovie, i tram e la nascente industria delle auto. Il figlio di Pino, Nino faceva parte del consiglio di amministrazione della scuola.

Nel dopoguerra De Majo ha fatto crescere la scuola e nei primi anni 60 c’erano corsi serali per disegnatori meccanici per le nostre industrie di macchine utensili; appena si era sviluppata nella zona nord di Monza una fiorente industria metallurgica per l’alluminio e i suoi derivati, di Majo aveva aperto la specializzazione in metallurgia, la seconda in Italia, dopo Brescia che forniva periti alle industrie siderurgiche di Sesto San Giovanni.  Una delle sue ultime creazioni fu il corso per superperiti, dopo il diploma, che anticipava di 40 anni gli Istituti Tecnici Superiori che vanno ora per la maggiore.

La scuola raccoglieva fondi anche lavorando direttamente per le imprese dell’area brianzola che venivano, a pagamento, ad effettuare le prove sui materiali nell’avanzatissimo laboratorio di tecnologia.

il primo impatto

L’Hensemberger era allora in via Enrico da Monza (nel retro dell’attuale istituto professionale Olivetti): edificio grigio, cortile in terra battuta. Fummo accolti in cortile dal preside De Majo in panciotto e farfallino che fece personalmente l’appello e ci mandò in classe. Per me che arrivavo da quattro anni di collegio era tutto nuovo, avevo un’aria da bambino per bene e i grandi, dai bidelli ai professori, mi sembravano davvero grandi.

I compagni: eravamo una trentina; un piccolo gruppo l’ho conservato sino in quinta, pochi per via delle bocciature e della scelta della specializzazione che ci avrebbe dirottato su tre percorsi distinti (meccanica, elettrotecnica, metallurgia). Tra i villasantesi Colnago di S.Alessandro, Giovanni Messa e Luigino Sacchi.

I banchi: erano in legno a tre posti e d’altra parte si trattava di un vecchio edificio che ospitava l’Hensemberger dal dopoguerra dopo una fase iniziale in via Appiani.

I professori: la professoressa Mandelli di Italiano, il professore di falegnameria (Santacaterina con l’aiutante Decio), la professoressa Brioschi di disegno (sorella dell’economo e braccio destro di De Majo dalla fondazione), il professore di Matematica Quattrone, la professoressa Ferrario di Inglese, il professor Civetta di aggiustaggio.

I trasporti: a seconda dei giorni usavo la bici o l’autobus della autorimessa Vimercati che gestiva la tratta Villasanta Monza con capolinea in piazza Daelli. Da Villasanta passava anche l’Oggiono che, per qualche corsa, aveva ancora l’autobus con il rimorchio.

Venire in pulman era l’occasione per socializzare e anche per vedere qualche ragazzina. Non faccio nomi ma qualcuna (Bianconi, Canossiane) era bella e irraggiungibile. Si viaggiava piuttosto pigiati; i primi a scendere, tra cui mio fratello Sandro, erano quelli del Frisi (alle scuderie della villa Reale) con fermata alle Missioni Estere, poi noi dell’Hensemberger e le ragazze delle Preziosine che scendevamo al ponte di Lecco mentre il grosso arrivava sino in piazza Trento.

i professori e le materie

Mandelli

La professoressa Mandelli mi ha insegnato-invogliato a leggere e scrivere ed è stata con noi anche in seconda. Avevamo un quaderno (il quaderno delle cronache) in cui dovevamo, una volta la settimana, scrivere il racconto di un evento importante che ci era accaduto. Le cronache, con una certa regolarità, venivano lette in classe e la professoressa quando voleva sentire qualcosa di bello faceva leggere quella di Cavalletti.

Mi ha invogliato a leggere la grande letteratura europea e così, nell’estate della prima e in quella della seconda, mi sono letto autonomamente un po’ di autori russi e francesi (qualche edizione BUR e poi la biblioteca civica). Il quaderno delle cronache è stato importante perché la scelta libera dell’argomento e il fatto di non dover argomentare, ma piuttosto raccontare, mi toglieva le ansie che tutti abbiamo provato di fronte al tema di italiano: come incomincio? quanto lo faccio lungo? cosa metto come conclusione?

falegnameria incastriSantacaterina

Del corso di falegnameria (quattro ore di pomeriggio) ho un ricordo molto piacevole a differenza di quello di aggiustaggio. Stavamo in un sotterraneo con quei bellissimi banconi da falegname con la morsa in legno, i fori per infilare spine che consentissero di stringere pezzi di varie lunghezze, la raspa, il mazzuolo, gli scalpelli, la sega a lama trapezoidale (il saracco), la pialla, la tuta cachi che si comprava dal Dassi Gomma con lo stemma dell’Hensemberger.

Ho acquisito manualità e controllo. Dopo aver appreso le tecniche elementari nell’uso degli utensili abbiamo passato l’anno a realizzare i principali incastri (a coda di rondine, a L, a torre, ..); cose che allora usavano i falegnami e che ora si vedono solo nei mobili antichi.

Brioschi e il panino con il salame

Con la professoressa Brioschi ho preso il primo ed ultimo quattro della mia vita (e alla fine del primo trimestre anche 5 in pagella). Ero un ragazzino, portavo i calzoni corti sino a novembre (i peli sulle gambe, insieme agli ormoni, sono arrivati nell’estate tra prima e seconda).

La professoressa Brioschi ci doveva insegnare il disegno tecnico e si incominciava con fare la punta alle mine con la carta abrasiva, squadrare il foglio, scrivere in stampatello perfetto (ma senza il normografo). La prima tavola (quella del 4) era proprio una tavola di lettere e numeri, ripetuti in corpi diversi sulle diverse righe, sino a riempire l’intero foglio in formato A3.

Immaginate la polvere di grafite quando riempi con mine semigrasse un intero foglio; aggiungete le cancellature che, quando il foglio è pieno, lasciano aloni dovunque: una cosa poco bella da vedere già per conto suo. Poi metteteci il destino (cinico e baro …): a scuola ci venivamo in bicicletta (Villasanta Monza andata e ritorno due volte al giorno). La cartella stava sul cannotto o sul portapacchi dietro; dentro i libri, i quaderni, l’astuccio, le squadre e anche il panino da mangiare all’intervallo. Maledetto panino col salame.

Avete presente cosa succede quando il grasso di maiale viene a contatto con la carta porosa: trasuda e se poi trova dell’altra carta (la mia tavola era avvolta a cilindro) trasuda anche in quella e forma una macchia translucida che stona decisamente in una tavola da disegno. Il quattro mi ha fatto piangere, ma mi ha dato un bello stimolo e alla fine della II ero ormai un disegnatore provetto: fatica, testardaggine, esercizio.

Quattrone dormiva e faceva dormire

L’amore per la matematica e per la fisica non è certamente iniziato con il professor Quattrone, un omone calabrese che parlava un italiano approssimativo, ma soprattutto, nelle lezioni del pomeriggio dormiva dietro un paio di grandi occhiali da sole.

Nel corso del 60/61, ad anno già iniziato, fu introdotta una modifica a materie e programmi legata al mutamento organizzativo degli istituti tecnici da un modello 3 + 2 a quello attuale 2 +3 e il professore di matematica si trovò (mal per lui e malissimo per noi) ad insegnare anche fisica.

Della fisica ho un ricordo tragico con tutti quei t0, t1, t2, x0, … che non capivo cosa fossero. Per farla breve mi toccò andare a ripetizione per un bel mesetto da mio cugino ingegnere finché non cominciai a comprendere e a muovere i primi passi in  autonomia.

Della matematica ricordo di aver trovato qualche difficoltà nella capacità di impostare problemi con uso delle equazioni. L’uso della matematica finalizzata al problem solving, mi fece molto bene sino alla capacità di utilizzarla autonomamente in quarta e quinta, dentro le discipline tecniche, fossero l’idraulica, la meccanica e soprattutto l’elettrotecnica e l’elettronica.

Ferrario

Per Inglese, materia per me nuova, visto che alle medie avevo fatto francese, nulla da dichiarare. Una professoressa tranquilla e abbastanza simpatica e acquisizione dei rudimenti di grammatica.

Il preside De Majo ci teneva molto allo spirito di appartenenza e dunque, non solo avevamo la tuta da laboratorio, color caki, uguale per tutti e con lo stemma della scuola, ma anche la tuta da ginnastica era una divisa. Una tuta nera con una vistosa H all’altezza del cuore. Nell’edificio non c’era la palestra e per fare ginnastica andavamo al vicinissimo campo di calcio dell’Oratorio San Gerardo.

Tra le ore di scuola (mi pare 34 comprensive di rientri pomeridiani) e cose da studiare non mi restava molto tempo libero e l’unico svago era il cinema (al Lux) la domenica pomeriggio (in prevalenza film storici, di quelli girati a Cinecittà nei primi anni 60). Alla fine della prima, media del 7 (che per l’Hensemberger era un bel risultato), borsa di studio della Provincia ed assegno di 120’000 lire usato per comperare la lavatrice automatica alla mamma.

l’estate

16 anni

all’inizio della seconda

Venne l’estate, incominciarono a muoversi gli ormoni e incominciò anche la mia prima esperienza lavorativa, totalmente gratuita e decisamente utile. Da mia zia Giovanna, che aveva trasferito il negozio di scarpe da via Mazzini in piazza Camperio, c’era bisogno di qualcuno che desse una mano (perché mi pare che il figlio Franco destinato a subentrare fosse a militare) e così passai quasi due mesi a fare il commesso di negozio; mia zia conosceva tutte le donne di Villasanta (il numero di scarpa, i difetti del piede, …) e le donne chiedevano subito di lei. Le donne avevano misure dal 34 al 38 e solo in un paio di casi si arrivava al 39.

In un cassetto del banco c’erano anche degli strani rettangoli di cartone che venivano distribuiti alle famiglie bisognose o in difficoltà. Erano i buoni della San Vincenzo che la zia preparava già separati per le diverse famiglie (1 kg di zucchero, 1 kg di pasta, 1 kg di caffè, 1 kg di pane, 250 g di burro, …). Si consegnavano brevi manu senza troppa burocrazia con una annotazione su un quaderno) ed erano spendibili direttamente presso i negozi di Villasanta che si rivalevano poi sulla parrocchia.

Imparai a confezionare i pacchi, a registrare le consegne delle scarpe in riparazione, a salire sugli scaffali del retrobottega, a consultare ed annotare il quaderno delle consegne a credito e così passò la mia prima estate delle superiori.

la seconda nella scuola nuova

immagine mosè e pino

Immagine dall’alto delle due nuove scuole con ka stecca dei laboratori lungo la via Cavallotti

Nell’estate del 1961 l’Hensemberger fece il trasloco e il nuovo anno lo abbiamo frequentato nella nuova sede di via Berchet, quella dell’Hensemberger attuale.

La amministrazione provinciale aveva realizzato le sedi per i due istituti tecnici in forte espansione l’Hensemberger e il Mosé Bianchi in un’area di terreno compresa tra la via Cavallotti e la via Sempione e di lì a qualche anno si sarebbe costruito, sul lato di via Sempione, il Frisi.

La sede dell’Hensemberger era enorme per la grande quantità di laboratori e di aule speciali eppure nel giro di pochi anni, a causa del boom nelle iscrizioni fu necessario aprire la succursale agli Artigianelli e sedi staccate da cui sarebbero nati nuovi istituti tecnici per filiazione (Vimercate, Desio, Seregno, Cesano, Limbiate).

Del primo anno nel nuovo edificio ho pochi ricordi perchè noi di seconda non andavamo nei laboratori e nelle aule speciali, salvo per fare aggiustaggio e disegno e la scuola era molto compartimentata sotto il tallone di ferro del preside De Majo. Erano cambiati anche un bel po’ di compagni di classe tra bocciature, passaggi al serale e immissione di ripetenti.

Regola numero uno e unica: gli studenti usavano solo le scale laterali (quelle di sicurezza) mentre l’ingresso e l’uscita avvenivano dal sotterraneo dove c’era anche il parcheggio per bici e motorini. Lo scalone centrale era riservato ai professori. Su questi aspetti vigilava il custode Beltrandi, detto Speedy per via della rapidità nell’interloquire e per i baffett alla Speedy Gonzales.

L’attuale grande atrio con il busto in bronzo di Pino Hensemberger era il sancta sanctorum interdetto agli alunni e in effetti, nella presidenza, ci sono entrato per la prima volta, da Preside, solo nel 2008. Gli studenti interagivano solo con i professori stando in aula e al più si andava dal bidello al piano per comperare i panini (anche se c’era il bar, ma non era cosa per gli studenti).

aggiustaggio

Nulla da dire per Italiano e Inglese che proseguirono in continuità metodologica e con i medesimi professori. Ho un ricordo poco gradevole del corso di aggiustaggio (ben 6 ore settimanali in due moduli 4+2) . Il laboratorio era bello e nuovo, pesanti banconi a due posti con la morsa da ferro, ma lavorare con il ferro era meno gratificante che con il legno.

Bisognava spianare delle lastre di ferro dello spessore di mezzo centimetro e poi fare il solito incastro a coda di rondine. Con il legno, se sbagli un colpo, dai un colpo di raspa e ricominci; con il ferro è più dura; se sbagli un colpo butti via ore e ore di lavoro e puoi sbagliare mentre dai l’ultimo colpo di lima, puoi sbagliare anche con il seghetto quando intagli l’incastro; insomma una sana educazione alla sistematicità, all’ordine, al controllo dei movimenti, tutte cose poco amate dai sedicenni.

Abbiamo imparato ad usare il calibro ventesimale, il piano comparatore cosparso di blù di metilene che ti fa vedere tutti i peccati nella tua superficie che piana non è. Alla fine dell’anno, dopo aver lavorato onestamente, quasi tutti abbiamo comunque barato nella consegna del pezzo finale.

Noi di Villasanta l’abbiamo fatto fare agli attrezzisti della Colombo Agostino e, poiché i pezzi di ciascuno erano individuati da un numero progressivo punzonato, abbiamo fatto una colletta e abbiamo comperato i punzoni con i numeri uguali a quelli che si usavano a scuola.

Visto con gli occhi di oggi, non solo penso che sia stato un peccato abolire falegnameria prima e aggiustaggio poi, ma ritengo che alcune ore di lavoro manuale di vario tipo bisognerebbe farle fare a tutti, anche a quelli del classico: abituano al rigore, al controllo corporeo, alla manualità.

matematica

In matematica, in seconda abbiamo fatto le cose essenziali di algebra e geometria, ma anche la trigonometria (quella che allo scientifico si fa in quarta). Niente disequazioni, che ho imparato all’università conservandone l’approccio unitario: le disequazioni razionali e irrazionali, goniometriche e trascendenti sono una cosa unica, abituano a ragionare e a cogliere la fattispecie di ciò che fai. Tempo sprecato diluirle in 4 anni come si fa allo scientifico.

le scienze (fisica, chimica, biologia)

uccelli e linee trasporto

ma perché gli uccelli non restano folgorati?

Secondo anno con la fisica, che incominciava a piacermi per via della elettricità. Anche i prof erano alle prime armi e scoprii l’anno dopo, studiando elettrotecnica, che alla mia domanda sul come mai gli uccelli non prendessero la scossa posandosi sui fili delle linee elettriche, mi era stata data una risposta demenziale: forse perché la pelle delle zampe è particolamente isolante.

Affinché  ci sia passaggio di corrente bisogna collegare due punti a potenziale diverso e gli uccelli stanno su uno stesso filo, dunque …

In seconda è incominciato lo studio della chimica con una parte di chimica generale senza troppi fronzoli sui modelli atomici, ma con una grande attenzione alla chimica inorganica. Con un sano approccio da ITIS, attenzione alle proprietà dei principali elementi e questo approccio proseguì in terza con un corso di chimica organica e industriale orientato (nella prima parte) ai derivati del petrolio e alle proprietà degli idrocarburi e, nella seconda, ai processi industriali di produzione dei composti di interesse industriale (soda, acido solforico, alluminio, ipoclorito di sodio, …).

In quell’anno abbiamo fatto un bellissimo corso di scienze; l’unico corso di scienze della mia vita. Ci faceva lezione una professoressa molto professionale e molto mamma il che a 15 o 16 anni è un bene. Feci un bellissimo quaderno degli appunti multicolore; con mio fratello che stava allo scientifico facemmo l’erbario.

Si era nel 62 e dunque a scuola non si parlava ancora di DNA e di biochimica. Il corso si basava su elementi essenziali di citologia, organi ed apparati; tanta descrizione, classificazione e funzionamento degli stessi. La professoressa si chiamava Pasini. Da Preside ho cercato notizie su di lei nell’archivio dell’Hensemberger e ho scoperto che ha avuto una storia professionale molto lunga che iniziava addirittura a metà degli anni 30.

In scienze ho preso 9 e me ne ricordo perché è stato l’unico nove della mia storia scolastica. Nei tecnici, anche se eri bravo e autonomo, al più prendevi 8 (era come se la scala di classificazione andasse dal quattro all’otto anziché dall’uno al dieci).

De Molfetta

biella

una biella stile De Molfetta

E disegno? Non c’era più la prof. Brioschi, ma un personaggio stranissimo (ingegnere o perito) che si chiamava De Molfetta. La conoscenza dei fondamenti del disegno meccanico era data per acquisita e De Molfetta, ex dipendente Isotta Fraschini (e innamorato delle medesime auto) cercava di insegnarci cultura e competenze del perito industriale. Diceva: quando lavorerete per una azienda dovrete essere rapidi di occhio, di memoria e di matita, così si carpiscono i segreti industriali. E si comportava di conseguenza.

Portava in classe dei pezzi meccanici; ci dava un certo tempo per osservarli, li metteva via e poi ci chiedeva o di fare uno schizzo a mano libera, oppure di ricostruire il pezzo tridimensionale facendone le proiezioni nel rispetto delle dimensioni. Dura; ma utile.

educazione fisica

Abbiamo avuto il professor Dante Tarca che ci avrebbe seguito sino al diploma. Tarca, che ha insegnato all’Hensemberger dal 51 all’83  era bello tosto sulla formazione di base; nel 64 avrebbe fondato l’ISEF a MIlano; in palestra seguiva i fondamenti al corpo libero e alle funi e pertiche ma, appena possibile ci portava a fare sport al campo dell’Oratorio di Triante.

problemi in famiglia

E fuori da scuola? In famiglia c’erano il solito tran tran e le solite ristrettezze economiche aggravate dal fatto che papà, un sera che stava andando in auto a trovare la zia Linda a Cusano Milanino, aveva investito una coppia di fidanzati che camminavano al buio sulla destra lungo la strada che da Nova Milanese porta a Cusano. Un morto e un ferito.

I pedoni, secondo il codice della strada avrebbero dovuto stare a sinistra ma, sull’altro lato c’erano le rotaie del tram, e dunque ci fu un concorso di colpa in un contesto in cui, per via della chiusura della fabbrica, erano rimasti in sospeso i pagamenti della assicurazione che non garantì alcuna copertura (fine degli ultimi soldi rimasti e processo penale).

Un’altra grana per papà … Di lì a poco venne però miracolato dalla Madonna delle Grazie. Pioveva, era in macchina con Guerrino sulla 600 multipla della ditta e vennero investiti da dietro da un mega autobus della ATM che li schiacciò e spinse la macchina contro un palo della luce. La foto rimase esposta nella galleria degli ex voto per diversi anni perché, non si sa come, ne uscirono indenni entrambi.

motom48

il motom 48 a 4 tempi un piccolo capolavoro di meccanica

Abitavamo ancora in via Mazzini, ma la fabbrica era chiusa e svuotata delle macchine vendibili. Papà si stava riconvertendo al lavoro di sub agente assicurativo. Per me incominciavano le prime passioni per le moto e i motorini, il gusto dello smontare e rimontare. Per qualche mese ho avuto un motom (il 48 a marce e 4 tempi) recuperato da qualche parte di seconda mano. Nel cortile di cemento, con mio fratello Sandro, facevamo anche qualche partita a tennis.

Nella fase finale di quell’anno mi sono staccato dall’ambiente oratoriano di paese che incominciava a starmi decisamente stretto e ho iniziato a frequentare GS (Gioventù Studentesca) che allora, nella ricerca di un rapporto integrale tra religione e vita, segnava un momento di rottura con la chiusura e il conformismo di paese e famigliare.

In GS c’erano anche le donne e mia moglie l’ho conosciuta lì proprio in quell’anno. Importanti e significative le “tre giorni”, uscite residenziali (la prima a Varigotti con don Giussani ma negli anni dopo quelle in montagna nelle vacanze di Natale). Se ne parlerà in uno dei prossimi capitoli


Ultima modifica di Claudio Cereda il 20 maggio 2024

La pagina con l’indice della mia autobiografia da cui potete scegliere i capitoli da leggere


 


 




1956-1960: in Collegio a Varazze

III edizione – maggio 2024

collegio e noviziato

il collegio e sulla sinistra il noviziato (ai miei tempi dismesso) successivamente adibito a scuola media superiore – nella parte inferiore gli orti del collegio

Nell’anno scolastico 1955/1956 mio fratello Sandro faceva la quinta elementare e durante l’inverno si beccò una brutta broncopolmonite; da piccolo è sempre stato molto gracile e così, su suggerimento dei medici, si decise che avrebbe dovuto passare gli inverni al mare e ciò necessariamente voleva dire andare in Collegio.

Ci sarebbero dovuti andare sia lui, a fare la prima media, sia mio cugino Enzo (l’ultimo figlio della zia Giovanna) a fare la seconda. Ma io, che ero molto legato a Sandro, decisi di essere della partita. Così, nell’ottobre del ’56 partimmo in tre per il Collegio Salesiano di Varazze: io in quinta elementare, e loro due alle medie.

il mio maestro di quinta, don Ariatti con una classe quinta due anni dopo la mia – archivio Varagine

Furono scelti i Salesiani perché la zia Giovanna conosceva bene quelli di via Copernico a Milano dove mio cugino Franco aveva frequentato le scuole professionali.

In Collegio eravamo poco più di un centinaio di interni (convittori) ma le medie erano frequentate anche da esterni (i semiconvittori).

Il mio maestro era don Ariatti, un prete moro, abbastanza rude sui cinquant’anni che aveva la passione di costruire aeroplanini in legno che poi metteva sui pali angolari della alta rete che delimitava il campo di calcio verso valle. Gli aeroplanini non volavano, ma si orientavano e le eliche giravano messe in moto dal vento che dal mare risaliva verso la collina. Don Ariatti è stato una delle colonne del Collegio.

Della parte scolastica di quel primo anno non ho ricordi tranne che portavamo il grembiule nero e facemmo gli esami di quinta in Collegio e quelli di ammissione alla I media presso la scuola statale di Varazze (un tema, un problema di matematica e l’orale). Andò tutto bene ed ottenni la media dell’8.

L’edificio

Il Collegio era messo all’inizio della collina prima della frazione di Cantalupo ed era stato acquistato direttamente da don Bosco intorno al 1870. Era stato appena realizzato dal Comune e poi venduto ai Salesiani, ad un prezzo di favore. La famiglia salesiana era in grande espansione ed essi acquisirono l’edificio per farci una scuola (elementari e ginnasio con 150 convittori e almeno il triplo di esterni)  e, secondo il modello salesiano, gli affiancarono l’apertura di un oratorio.

Come si vede dalla foto, il Collegio aveva 4 piani oltre a un piano terra con il colonnato; sul davanti c’era un grande cortile adibito a campo da calcio lastricato con un pavè a mattonelle piccole nel quale, durante la ricreazione, facevamo più partite contemporaneamente. Il gioco era parte integrante della pedagogia di don Bosco. Ogni tanto vi si svolgevano anche partite a tamburello organizzate da don Ariatti con dei lanci che mi sembravano spettacolari.

A sinistra c’erano l’oratorio con il cinema-teatro e, più in basso, verso il mare, una struttura dismessa che sino all’anno prima, aveva ospitato il noviziato salesiano e che negli anni 60 venne poi ristrutturata per ospitare il tentativo di gestire una scuola superiore (liceo e ragioneria).

Nel passaggio verso l’oratorio c’era anche un campo di pallavolo mentre, nella parte a sinistra del cortile, un porticato con i servizi igienici e una serie di tavoli stretti e lunghi, con le sponde di legno, dove si giocava a boccette usando delle piastre cilindriche d’acciaio di 4 cm di diametro per 1 di altezza.

dormitorio

I dormitori di Collegiuo erano tutti uguali; questo è quello della Guastalla di Milano: i letti e quello del controllore laico con la tenda all’inizio della camerata

Le camerate erano al III e IV piano e portavano i nomi dei santi (con gli immancabili san Luigi e Domenico Savio). Erano dei corridoi lunghi e stretti con i letti messi l’uno dopo l’altro e, all’inizio e alla fine della camerata, un letto con tenda scorrevole su una struttura ad anelli dove dormivano i custodi, dei laici detti coadiutori o cooperatori. Erano le stesse persone che ci accompagnavano nelle uscite del giovedì e non me li sono mai filati. Non mi sembravano particolarmente svegli e trovavo che fossero anche un po’ ambigui.

La biancheria pulita stava in un locale guardaroba a parte con tanti loculi corrispondenti al nostro numero che veniva cucito su ognoi capo per renderlo riconoscibile. Io avevo il 118. Si trattava di rettangolini bianchi  di un centimetrio di lato ricamati con il numero in rosso ben visibile. La gestione del cambio era affidata a ciascuno di noi, e questo è stato certamente un elemento di crescita della autonomia. Mettevamo la biancheria sporca in un sacco di lino chiuso con un cordino passante e con regolarità lo consegnavamo per il lavaggio. Se ne occupavano le suore salesiane di Maria Ausiliatrice, le stesse che gestivano refettorio e approvvigionamenti.

Come si vede dalle foto non c’erano divise, ma se andate sull’archivio di Varagine.it troverete un sacco di foto degli anni 20 e 30 in cui i convittori hanno divisa e berretto tutti uguali.

Al secondo piano c’era la parte scuola (aule per le classi e aula studio) mentre il primo piano era nella disponibilità dei preti e dei coadiutori (ma forse era il contrario, scherzi della memoria). Al  piano terra c’erano gli uffici del consigliere (l’addetto alla disciplina e al controllo del rispetto delle regole), del prefetto (un incrocio tra l’economo e il vicedirettore), del direttore, il parlatorio (con le poltrone e i divani di velluto) e il refettorio.

Un locale molto particolare era l’aula studio: un lungo corridoio con i banchi disposti a destra e a sinistra contro le pareti. I banchi erano individuali, verniciati di nero e con un piano d’appoggio incernierato sul davanti che chiudeva uno scomparto in cui tenevamo i libri. Il piano incernierato consentiva di nasconderci la testa e farci un po’ gli affari nostri nelle lunghe e interminabili ore dello studio pomeridiano. Io ci tenevo anche i flaconcini vuoti degli antibiotici (recuperati in infermeria) e, dopo aver tolto l’etichetta e liberato il tappo in gomma, ci mettevo le mosche che catturavo al volo e mi divertivo ad osservarne il comportamento, un po’ per sadismo, un po’ per spirito sperimentale.

Il refettorio era arredato con panche e lunghi tavoli che avevano degli scomparti al posto dei cassetti. Ci tenevamo i viveri di scorta (le arance, i salamini e la pasta d’acciughe nel mio caso) e il tovagliolo. Su uno dei due lati lunghi c’erano i banconi di collegamento con le cucine da cui ci servivano e, al centro del locale, un piedistallo rialzato dove, durante il pasto, uno di noi, a turno, leggeva qualche libro di avventura o di edificazione (tipo la  vita di San Domenico Savio).

Domenico Savio e San Luigi erano i due modelli di gioventù proposti con tutti gli annessi e connessi sulla castità che non capivo molto bene, del tipo loro non guardavano il pisello neanche quando facevano la pipì e a me sfuggivano le ragioni. C’era, seguendo l’insegnamento di don Bosco, una autentica ossessione per il sesso che aleggiava come problema, ma non veniva mai nominato. Ricordo che in II media venni ripreso da uno dei preti perché mi ero toccato la zona dei genitali. Avevo un po’ di prurito ma venni rimproverato senza capir bene il perché. Il mangiare non era entusiasmante, ma si sopravviveva anche grazie alle scorte alimentari che arrivavano da casa.

Era molto diffusa la pratica di scrivere alle aziende alimentari per farsi mandare dei campioni omaggio e lo facevamo in modo sistematico con l’Ovomaltina.<

La fissa della massoneria e le molestie sessuali di inizio novecento

Piccoli Martiri di Eugenio Pilla (1895-1969) prete e scrittore salesiano autore di ben 300 volumi

Delle letture mi è rimasto impresso il romanzo Piccoli martiri una storia scritta negli anni 40 da un salesiano fissato con la massoneria. Due bambini venivano rapiti dai massoni per educarli alla lotta contro Dio, … Dice la descrizione:”Racconta le avventure di due fanciulli buonissimi e piissimi caduti nelle mani di adulti incredibilmente cattivi, in quanto atei empi e massoni.”

Questa della massoneria era una idea fissa che si ritrovava anche nei libri di preghiere, insieme alla pericolosità dei protestanti (!?!) e credo si trattasse di un retaggio delle difficoltà di don Bosco a Torino nei rapporti con lo stato liberale. A distanza di anni mi sono chiesto come mai avessero questa fissa, visto che eravamo in piena guerra fredda e dunque c’erano tanti altri esempi di senzadio ben più importanti nella Italia del dopoguerra di quanto non fossero i massoni.

pertini

Sandro Pertini, il secondo da destra in piedi, interno al Collegio don Bosco nel 1907 (archivio Varagine) – il quinto è il fratello Eugenio morto nel 45 nel campo di concentramento nazista di Flossenbürg

Ho cercato di capire e ho trovato in rete due episodi in cui il collegio venne coinvolto, uno a fine 800 e l’altro, molto più grave, nel primo decennio del 900. In entrambi i casi si trattava di atti di libidine verso minori in cui erano coinvolti preti e laici; entrambi si conclusero con delle condanne ed entrambi finirono nel dimenticatoio, ma evidentemente rimase una netta ostilità nei confronti dello stato laico-liberale anticlericale e massone. In particolare nelle reazioni clericali di allora si sottolineava come lo scandalo del 1907 fosse stato ordito dalla massoneria francese. In quell’anno, tra gli alunni interni, c’era anche Sandro Pertini. Il secondo dei due scandali è ricostruito in “Pier Luigi Ferro, Messe nere sulla Riviera. Gian Piero Lucini e lo scandalo Besson, Utet, Torino 2010″ e ne trovate in rete ampi estratti.

A proposito della lettura dei libri di edificazione durante il pranzo capitò un episodio curioso a un mio compagno di classe. Stavamo tentando di imparare a fischiare con le dita e così, invece di ascoltare le vite dei santi eravamo impegnatissimi a soffiare tenendo le dita in bocca sopra la lingua o con la lingua piegata. Ci riuscì per primo Gerbi (un compagno di Cogoleto) a cui partì all’improvviso un fischio poderoso. Lui fu punito e io non ho mai imparato a fischiare con le dita, anche se in collegio imparai tutti gli altri rumori che simulano i peti e le pernacchie: quelli fatti con il palmo della mano e quelli con la mano sotto l’ascella.

la cappella e il culto

La cappella non era tanto grande, molto decorata e con una balconata sul lato corto all’ingresso: messa tutte le mattine e messa doppia (normale e cantata) la domenica.

Ho imparato molto bene a fare il chierichetto con tanto di incenso, turibolo e aspersorio e in occasione delle feste importanti si facevano le prove perché tutto doveva funzionare perfettamente (noi in abito rosso con una cotta bianca).

Mi ero fatto regalare per Natale anche due messalini tascabili rilegati e in carta india. Uno aveva le pagine dorate sul bordo, l’altro le aveva rosse. Ripetuti per 365 volte c’erano un breve riepilogo della vita del santo del giorno, i salmi e le letture per la messa (l’epistola e il vangelo). Li ho ancora in qualche scatolone in garage e mi ricordo che, con un po’ di sadismo, leggevo e rileggevo delle torture inflitte ai martiri cristiani che suscitavano in me forti emozioni (per esempio quello di santa Agata cui furono asportate le mammelle).

Ogni convittore riceveva anche un suo libretto di edificazione Il giovane provveduto, scritto da don Bosco e il cui testo, se la cosa vi incuriosisce, potete trovare qui ma ve ne dò un piccolo saggio con l’Incipit:

Due sono gli inganni principali, con cui il demonio suole allontanare i giovani dalla virtù. Il primo è far loro venir in mente che il servire al Signore consista in una vita malinconica e lontana da ogni divertimento e piacere. Non è così, giovani cari. Io voglio insegnarvi un metodo di vita cristiano che sia nel tempo stesso allegro e contento, additandovi quali siano i veri divertimenti e i veri piaceri, talché voi possiate dire col santo profeta Davide: serviamo al Signore in santa allegria: servite Domino in laetitia. Tale appunto è lo scopo di questo libretto, servire al Signore e stare sempre allegri.

L’altro inganno è la speranza di una lunga vita colla comodità di convertirsinella vecchiaia ed in punto di morte. Badate bene, miei figliuoli,molti furono in simile guisa ingannati. Chi ci assicura di venir vecchi? Uoposarebbe patteggiare colla morte che ci aspetti fino a quel tempo, ma vita emorte sono nelle mani del Signore, il quale può disporne come a lui piace.Che se Dio vi concedesse lunga vita, sentite ciò che vi dice: quella strada cheun figlio tiene in gioventù, si continua nella vecchiaia fino alla morte. Adolescens iuxta viam suam etiam cum senuerit non recedet ab ea. E vuol dire: sen oi cominciamo una buona vita ora che siamo giovani, buoni saremo negli anni avanzati, buona la nostra morte e principio di una eterna felicità. Al contrario se i vizi prenderanno possesso di noi in gioventù, per lo più continuerannoin ogni età nostra fino alla morte. Caparra troppo funesta di unainfelicissima eternità. Acciocché tale disgrazia a voi non accada vi presento un metodo di vivere breve e facile, ma sufficiente perché possiate diventare la consolazione dei vostri parenti, l’onore della patria, buoni cittadini in terra per essere poi un giorno fortunati abitatori del cielo.

Inoltre eravamo pieni di santini-reliquia ottenuti con microscopici pezzettini di stoffa, pezzetti di pelle o di ossa (quelli più pregiati) che, teoricamente, erano appartenuti a don Bosco, Domenico Savio o a qualche Beato o Servo di Dio della grande famiglia salesiana (forse quei pezzettini avevano semplicemente strusciato l’urna prima di essere messi in produzione a fini devozionali).

don Moroncelli santini

distribuzione dei santini da parte di don Moroncelli, in cappella. Io e Sandro (vestiti uguali)  appena serviti

Il colonnato del cortile era importante perché lì si scontavano le punizioni: in piedi alla colonna a guardare i compagni che giocavano, in ginocchio alla colonna e, nei casi più gravi qualche vergata sulle mani da parte del prete consigliere (addetto alla disciplina) che era anche un grande distributore di perini (i colpi in testa dati con le nocche). C’erano le regole e c’erano le punizioni ben calibrate secondo una casistica di gravità.

La giornata tipo e le regole

In prima media durante uno spettacolo teatrale

Sveglia intorno alle 6:30 – 7:00; abluzioni e messa (per poter fare la comunione a digiuno come prevedeva il diritto canonico “essere digiuni dalla mezzanotte”); prima colazione (con pane e caffelatte o cioccolata); mezz’ora di ricreazione e alle 8:30 inizio della scuola sino alle 12:30; pranzo; ricreazione per un’ora e dalle 14 alle 16 studio; merenda e ricreazione di un’ora; dalle 17:30 alle 19 studio; cena; ricreazione; preghiera della sera nel colonnato o sotto la statua di Maria Ausiliatrice a poi tutti a nanna.

In uno dei giorni della settimana la merenda consisteva in un panino con dentro una fetta di salame di cioccolato bicolore a riquadri bianchi e marroni della Ferrero.

Il signor Ferrero era un ex allievo salesiano e trattava bene, in termini di beneficienza, la grande famiglia salesiana. Aspettavamo con ansia quel giorno, invece del solito parallelepipedo di cotognata della Zuegg, della fetta di formaggio, del surrogato di cioccolato o della mortadella. Un paio di volte, in tutto l’anno, c’era la focaccia, la buonissima focaccia ligure.

Rispetto alla scansione standard della settimana c’erano due varianti, il giovedì e la domenica.

spiaggia dei bergamaschi

spiaggia dei bergamaschi (ex colonie bergamasche) nei pressi di punta Olmo oggetto di scambio di favori per la privatizzazione

Il giovedì non c’era scuola e si andava a fare lunghe passeggiate su per le colline (al bricco don Bosco, alla Guardia, al Deserto) o nelle calette lungo la costa est ai piani di Invrea (verso Cogoleto) od ovest (verso Celle e Albisola) nelle spiagge non utilizzate delle colonie estive o del Cottolengo, incluso quella al centro dello scandalo che ha visto coinvolto il presidente di Regione Liguria Toti. Le colonie bergamasche, con un edificio molto grande, erano famose per aver ospitato, durante la guerra un ospedale militare in cui convergevano i feriri per ciura e convalescenza.

Se la passeggiata era lunga si pranzava al sacco. Il Collegio era posto all’inizio della collina verso la frazione Cantalupo e le escursioni in collina incominciavano sempre da lì con la salita verso i piani di Cantalupo: uliveti e poi bosco misto di pini. Passavamo sotto i cantieri dell’autostrada Genova Ventimiglia, che era in costruzione, e ricordo quei piloni grandi e altissimi, visti da sotto. Qualche volta risalivamo il corso del Teiro, il fiume torrente di Varazze che nasce dal monte Beigua. Trannne nella parte finale con segni di inquinamento dovuti alle atività industriali e artigianali (tra cui una conceria) l’acqua era abbastanza pulita. Il tratto finale del torrente è stato coperto nel 1960 ma allora il corso era tutto libero sino alla foce.

L’altra variante riguardava la domenica: non c’era scuola; la mattina c’erano due messe intervallate dalla ricreazione e dopo pranzo, arrivati in sala studio, venivano letti ad alta voce (dal consigliere) i voti della condotta settimanale. Chi prendeva 7 meno, o peggio, rimaneva in sala studio mentre gli altri andavano al cinema. Non ho mai preso 7 meno, ma neanche 10. Comunque, per i più discoli, il rito aveva la sua suspence e una funzione deterrente. Dei film della domenica ricordo di avere visto Fantasia di Walt Disney e Sono un agente FBI con James Stewart che mi aveva colpito molto.

Le ore di lezione era poche. Giustamente si puntava molto sullo studio personale con un numero di ore pari a quelle di lezione ed erano poche anche le materie (lettere, incluso il latino), matematica, francese, religione, ginnastica.

Collegio Don Bosco classe II B anno 1957-58 – il secondo da destra in prima fila è mio fratello Sandro, oltre a don Moroncelli riconosco molti visi, ma i cognomi sono svaniti

I compagni di classe venivano dalle diverse località del nord Italia ed erano di classi sociali diverse. Estrazione popolare in quelli dalle province di Savona e di Genova, di solito con la presenza di casi sociali che noi intuivamo dalla scarsa o inesistente presenza dei genitori. Qualcuno prima di arrivare in collegio aveva fatto l’esperienza della Garaventa.

Piccola borghesia e borghesia per i provenienti dall’Emilia e dalla Lombardia. Ricordo qualche cognome: Bortolotti, Canepa, Cabrini, Cortesi, Gerbi, Quaglia, Resnati, Rossi, Simonitti.

Cortesi, che aveva un porro sul naso, lo chiamavamo NASA e mi viene da dire che eravamo proprio cretini. Guardavamo con un particolare rispetto Cabrini, che veniva dal lodigiano, perché una sua prozia, con lo stesso cognome, aveva in corso la causa di beatificazione.

Nella foto di gruppo dell’anno 57/58 c’è la seconda media di mio fratello Sandro (il secondo da destra della prima fila) e, come si vede dalla statura dei marcantoni che stanno a fianco di don Goffredo Moroncelli non si può dire che avessero tutti la stessa età (e anche questo era un aspetto tipico di un collegio).

Per degli adolescenti, lontani da casa, le regole erano eccessivamente rigide. Quando la domenica venivano a trovarti i genitori, comunque non si poteva uscire dal Collegio. O si stava in parlatorio (un locale subito a sinistra dell’ingresso) o, al più, si poteva stare in cortile e camminare sotto il portico. L’uscita all’esterno era consentita solo nel giorno di San Giuseppe (il 19 marzo) per assistere al passaggio della Milano Sanremo lungo l’Aurelia.

mamma e papà

mamma è papà nel 1957 in occasione di una visita al Collegio

La mamma veniva a trovarci in treno ogni due o tre settimane, qualche volta in macchina con il papà e si comunicava per lettera. In famiglia, negli anni successivi, si scherzava sulle mie lettere eccessivamente laconiche: qui tutto bene, portami le arance, il salamino e la pasta d’acciughe. Sembra che, allora, la sintesi fosse il mio forte.

Si tornava a casa solo per le vacanze (incluse quelle di Natale e Pasqua). Ci fu una eccezione per l’epidemia di influenza asiatica nel novembre del 57. L’intero collegio era ko e dunque fu consentito alle famiglie di portarsi i figli a casa. Venne a prenderci l’autista della ditta, Stefano Mariani, con la mamma sulla 1100 famigliare. Fu abbassato il sedile posteriore, messo un materasso e delle coperte e così, con la febbre alta, ce ne tornammo a casa per qualche giorno.

Avevamo a disposizione qualche soldo lasciato dai genitori presso il Consigliere che teneva la contabilità di ognuno e anticipava i contanti. Li usavamo per acquistare, durante la ricreazione, le caramelle della Elah vendute da uno dei coadiutori che girava nel porticato con una specie di banchetto in legno tenuto a tracolla. In quel periodo ho mangiato una quantità enorme di mou latte-menta e crem-liquerizia.

Quando volevamo risparmiare andavamo in infermeria, da Celestino, e ci facevamo dare il Formitrol, delle pasticche acidule e disinfettanti abbastanza gradevoli. Se il mal di gola era vero ti davano anche le pastigliette di clorato di potassio da lasciar sciogliere in gola, ma noi le mettavamo da parte e quando ce n’erano a sufficienza le macinavamo. Qualcuno dei genovesi si faceva portare lo zolfo; si mischiava e bastava mettere un po’ di quella polverina tra due cubetti di porfido, metterci un piede sopra e con l’altro dare una bella botta laterale. Venivano esplosioni molto più potenti di quelle fatte con i petardi.

Le figure di riferimento

bricco don Bosco

immagine archivio Varagine – inaugurazione cappella al Bricco don Bosco – collaboratori ed ex alunni – in piedi da sinistra don Morelllo, don Moroncelli, don Maffeis, ingegner Nocelli

Al primo posto ci metto don Arturo Morello. Era il prefetto del Collegio (cioè una delle due autorità insieme al direttore) e fu il mio professore di lettere  per tre anni. L’ultima notizia che ho trovato su di lui è del 98 e riguarda la celebrazione di 60 anni di presenza tra i salesiani; ed era ancora a Varazze.

Era originario di Ivrea, una persona pacata e con un bel sorriso. Con lui abbiamo studiato l’Iliade e l’Odissea in maniera assolutamente piacevole e lo stesso si può dire per il latino: in prima, analisi logica e declinazioni, in seconda grammatica e sintassi e in terza autori (Giulio Cesare, Ovidio e Catullo) compresa un po’ di lettura metrica della poesia. Grazie a lui ho iniziato a leggere romanzi con una certa sistematicità; a quei tempi prevalentemente cose di cappa e spada e qualche romanzo ambientato ai tempi della rivoluzione francese (che veniva vista non esattamente bene).

Il professore di Matematica era un laico, probabilmente un terziario salesiano oltre che scout, l’ingegner Nocelli, una persona mitica tra gli ex alunni del Collegio; Varazze gli ha intitolato una via. Mi ha dato una buona preparazione sino alle equazioni di primo grado ma ci ha anche insegnato ad applicarle alla risoluzione di problemi. Non ricordo con chi facessimo francese e religione.

Poi c’era don Goffredo Moroncelli, con quel faccione pacioso e sorridente, assomigliava un po’ ad Oliver Hardy. Era così, un uomo buono che teneva nelle sue mani tutta la baracca del Collegio che diresse per qualche decina d’anni sino alla morte nel 71. Oltre che fare il direttore insegnava lettere ed è stato il professore di mio fratello. Nella foto c’è anche don Maffeis, il consigliere, quello addetto alle punizioni.

autobiografia di don Ricciarelli

Mio cugino Enzo ha avuto come docente di riferimento don Pier Luigi Ricciarelli (don Gigi) un toscano, biondo e giovane che seguiva l’oratorio. Poi, nel 62, se ne andò a fare il missionario nelle Filippine. Non era contento di dove l’avessero mandato; ebbe dei ripensamenti, si spretò, si sposò e tornò nelle Filippine per opporsi alla dittatura di Marcos. Venne imprigionato e ha scritto una autobiografia.

I nostri riferimenti erano gli uomini in carne ed ossa, e cioè questi preti che amavano stare a contatto con i giovani, ma i salesiani tendevano a farti assimilare il punto di vista di don Bosco: importanza della scuola, attenzione ai giovani e disponibilità nei loro confronti, diffidenza nei confronti dello stato.

Ho già detto della fissa della massoneria; aggiungo le cose che ci dissero contro Garibaldi, Mazzini e gli eroi del risorgimento, assimilati a dei banditi in quanto nemici del Papa. Queste cose le dicevano a voce ma, ovviamente, trattandosi di una scuola parificata, non stavano scritte sul libro di storia che pure era edito dalla SEI la loro casa editrice.

A fine anno venivano premiati con medaglia e diploma il I, II e III classificato per profitto, religione e condotta. Ne ho prese un bel po’ (anche d’oro) sui primi due fronti, mai per la condotta perchè, senza strafare, sembra che fossi piuttosto vivace.

L’equivalente della Azione Cattolica tra i Salesiani erano le compagnie (ricordo quella di San Luigi, del Santissimo Sacramento  e dell’Immacolata). Erano una cosa ad adesione volontaria e mi è capitato di dirigerne qualcuna. Una esperienza utile per apprendere come si organizza qualcosa o come si prepara una riunione tra persone.

Una cosa che ho fatto regolarmente per 4 anni e che poi mi è servita nella vita sono stati gli esercizi spirituali (della durata di tre giorni) che prevedevano ogni giorno due prediche (la meditazione e la contemplazione, ma forse la seconda aveva un altro nome) intervallate da periodi di silenzio in cui si doveva riflettere sugli spunti che erano stati forniti.

Erano strutturati sul modello di Ignazio di Loyola, che li aveva inventati. Le prediche erano tenute da preti venuti da fuori. Buttavi giù qualche idea, prendevi qualche appunto, ma soprattutto imparavi a riflettere e in questo lavoro era fondamentale il ruolo del silenzio. Ci ho ripensato scrivendo queste note: il silenzio mi piace, aiuta a pensare e, dopo che negli esercizi spirituali, da grande l’ho praticato facendo sci da fondo, escursionismo in alta quota e ora nelle lunghe uscite in Mountain bike tra i boschi della Toscana.

La parentesi del noviziato di Novi Ligure

Alla fine della seconda media ho avuto una crisi mistica. In uno slancio di generosità e di adesione allo spirito salesiano decisi che volevo diventare salesiano. Ero influenzato dalla lettura del bollettino salesiano che parlava delle missioni in America Latina (in particolare in Patagonia e nella foresta amazzonica).e dallo spirito di aiuto verso i giovani che si traduceva nella miriade di scuole professionali e di mestiere inaugurate da don Bosco e sviluppate dai successori. Si vede che la storia di fare il professore da grande ce l’avevo nel DNA.

Ne parlai alla mamma in una delle visite e poi con don Morello e don Moroncelli. Si decise che avrei provato. All’inizio della terza sarei andato a Novi Ligure dove c’era un pre-noviziato salesiano. Il noviziato salesiano era il momento in cui si indossava la tonaca nera e si iniziava il percorso per diventare prete salesiano. Negli anni 50 era molto diffusa, anche per il clero secolare, l’abitudine, da parte delle famiglie contadine e povere, di mandare i propri figli in pre-seminario. O la va … e ci ritroviamo un figlio prete o se non va, torna che ha studiato e comunque non è stato di peso a casa.

il collegio di Novi Ligure

Il pre-noviziato salesiano di Novi Ligure

Il pre-noviziato di Novi era pensato per scoraggiare quella pratica; era pieno di figli di povera gente che facevano le medie gratis; si stava molto meno bene che a Varazze, si mangiava male, il trattamento era piuttosto rude e poichè bisognava abituarsi al distacco, era previsto il ritorno in famiglia solo per pochi giorni a Natale e per un solo mese d’estate.

Non ricordo quasi nulla di quel periodo, tranne la progressiva sensazione che la cosa non fosse per me e così, tornato a casa per Natale ne parlai con la mamma che, dopo aver chiamato al telefono don Moroncelli organizzò le cose per farmi rientrare a Varazze. Fu la fine del mio desiderio di farmi salesiano. Ma mi è rimasta in mente la canzone di don Bosco e ogni tanto la canticchio.

|Giù dai colli un dì lontano | con la sola madre accanto |

|sei venuto a questo piano | dei tuoi sogni al dolce incanto|

|Ora, o Padre, non più solo | giù dai colli scendi ancora|

|di tuoi figli immenso stuolo | t’accompagna a tua dimora.|

|Don Bosco ritorna tra i giovani ancor, | ti chiaman frementi di gioia e d’amor.|

Nel mettere mano a questo racconto ho cercato di capire come siamo messi oggi partendo dalla visione tridimensionale che si ottiene grazie a Google Maps.

Tristezza. La via san Francesco, una via stretta con accciottolato da cui si saliva verso Cantalupo per arrivare al Collegio e poi al convento dei Capuccini c’è ancora nel senso che una via porta il suo nome e lì sotto, con andamento parallelo alla costa c’è persino una via intitolata all’ingegner Nocelli. Ma la collina è una sequela di residence, condomini, scuole, case e l’edificio del Collegio ha cambiato aspetto.

E’ riconoscibile la zona dell’oratorio, ma i Salesiani non ci sono più, se ne sono andati da qualche anno, e per Varazze è finito un pezzo della sua storia, mentre il grande edificio di quattro piani è diventato una residenza per anziani.


La pagina con l’indice della mia autobiografia da cui potete scegliere i capitoli da leggere


In rete, grazie al lavoro della associazione Varagine.it potete trovare un immenso archivio storico sulla citta di Varazze e al suo interno molte foto relative alla storia del Collegio e dell’Oratorio.